Il potere dell’agire

Leggendo un articolo del Post, mi sono trovato davanti questa frase tratta dalla biografia di Steve Jobs:

Gli insegnai che, se si agisce come se si fosse in grado di fare qualcosa, quel qualcosa si realizza. Gli dissi: fa’ finta di avere il controllo assoluto della situazione e la gente penserà che tu ce l’abbia davvero.

Benché non abbia alcun dubbio sulla validità della seconda affermazione, la frase complessiva mi ha lasciato comunque un po’ perplesso: il celebre “fake it till you make it” non mi ha mai convinto fino in fondo. Credo ci sia una differenza percepibile tra chi ostenta sicurezza (e quindi non ne ha) e chi invece ha imparato a padrongeggiare una determinata abilità, a tal proposito ricordo battuta recitata da Kevin Spacey in “The Big Kahuna”.

Ci sono persone a questo mondo, Bob, che hanno un’aria molto solenne mentre fanno quello che devono fare. E lo sai perché? Perché non sanno quello che fanno. Perché se sai quello che fai, non devi avere l’aria di saperlo, ti viene naturale, mi segui?

Ho sempre adottato questa visione contrapponendola al mantra “fake it till you make it”, ma solo oggi mi sono reso conto che non sono concetti antitetici, bensì gli estremi di un continuum. Esiste una metafora confuciana secondo la quale l’Uomo è simile ad un blocco di materiale grezzo, è necessario intagliarlo sapientemente affinché divenga un manufatto pregiato; Confucio prescriveva di osservare scrupolosamente dei riti volti a coltivare nell’animo umano disposizioni atte a renderlo un “Gentiluomo” (jūnzǐ;君子),1 una persona in grado di raggiungere lo stato della “non azione” (wŭwēi;无为), cioè di comportarsi automaticamente nel modo più appropriato a seconda del contesto. La spontaneità, la sicurezza in sé stessi, è una componente chiave nel successo (comunque lo si voglia definire) e fingerla finché non la si ottiene per davvero è una modalità efficace: la plasticità del nostro cervello fa dell’abitudine una forza molto potente.

A questo punto mi sorge però una domanda: perché con me non è così? Quelle poche volte che ho provato ad applicare quella massima è andato tutto in malora, ma credo ora di avere intuito la causa. Ho putroppo una tendenza al perfezionismo, quindi per me il solo pensiero di dover fingere un “controllo assoluto della situazione” è sufficente a farmi salire l’ansia; le mie aspettative tendono ad essere decisamente troppo elevate. Il metodo che ho deciso di adottare per conseguire lo stesso risultato (spontaneità/sicurezza) è apparentemente l’opposto: rinunciare ad ogni forma di controllo per accettare ogni aspetto della situazione che sto vivendo. È difficile? Molto. Ci riesco sempre? No. Però col tempo divento sempre più bravo ed è un approccio che, assieme ad alcuni accorgimenti, ha dato i suoi frutti.

Ci sono quindi molti sentieri per la vetta della montagna. In effetti, tornando un attimo alle Cento scuole di pensiero, quelli confuciani non erano gli unici strumenti per raggiungere il wŭwēi; se dovessi fare un analogia, il metodo che ho fatto mio è più affine al Daoismo2 rispetto che al Confucianesimo. A guardar più da vicino, comunque, le due modalità non sono affatto così distanti, facendo anzi leva sullo stesso principio: l’azione consapevole. Chi finge sicurezza allena la propria mente a creare comfort nelle situazioni di disagio, chi sceglie invece di abbassare le difese si abitua a liberarsi di tensioni inutili e permette alla sicurezza di emergere da sé; l’atteggiamento mentale è tuttavia subordinato all’agire, è l’azione ripetuta che modella il cervello dando forma alla nostra identità.

Non bisogna perdere tempo nel discutere su quale metodo sia il migliore, ciascuno scelga il più adatto a sé e si metta al lavoro: per imparare a nuotare bisogna entrare in acqua.


  1. Confucio non aveva alcuna nozione di neuroscienza, eppure aveva intuito in modo sorprendentemente accurato il ruolo di cold e hot cognition, capendo anche come sfruttare la seconda a suo vantaggio. 
  2. A voler essere pignoli, mi sono lasciato influenzare dal Daoismo filosofico di Zhuāngzǐ e dalle profonde intuizioni di Mèngzǐ riguardo la natura umana. 

L’origine della morale

Il 7 gennaio 2015 due estremisti islamici armati di kalašnikov hanno fatto irruzione nella sede di Charlie Hebdo, giornale satirico francese, causando 12 vittime; il movente della strage è stata la rappresentazione del profeta Maometto in alcune vignette irriverenti pubblicate dal periodico. L’Occidente intero si è stretto attorno a Parigi, riconoscendo l’attentato come un duro colpo verso i valori democratici su cui si fonda la nostra civiltà: si sono svolte manifestazioni, tenuti dibattiti, scritti fiumi di parole nel tentativo di dare un senso a questa follia e, soprattutto, disegnate vignette.

Stavo per scrivere “Je suis Charlie” sui social network, quando mi sono fermato ad interrogarmi sul suo significato. Io, in quanto occidentale “sono Charlie” perché mi identifico nei valori che sono stati colpiti dai terroristi. Poi però è subentrato un pensiero: anche i fondamentalisti hanno agito sulla base di un attacco ai loro valori, cosa rende diversa la mia protesta dalla loro? Le uccisioni? E perché io ritengo sbagliato ricorrere alla violenza in seguito ad un insulto a ciò in cui credo, mentre per un fondamentalista è una reazione più che naturale? Qual è l’origine della morale?

Questi e altri interrogativi hanno ispirato la stesura del post che state per leggere. Mi sono impegnato molto nello scriverlo, spero di essere riuscito a renderlo interessante.


Il cane emotivo e la sua coda razionale

Julie e Mark, fratello e sorella, stanno viaggiando assieme per la Francia durante le vacanze estive. Una notte si ritrovano soli in un cottage vicino alla spiaggia e decidono che potrebbe essere interessate e divertente provare a far l’amore assieme; mal che vada si troverebbero ad aver fatto entrambi una nuova esperienza. Julie prende già le pillole anticoncezionali, ma Mark decide di usare il preservativo lo stesso, giusto per essere ancora più sicuri. Entrambi si divertono molto a fare l’amore, ma decidono di non riprovarci più, in futuro. Gli avvenimenti di quella notte rimangono il loro piccolo segreto e finiscono per cementare ancora di più il loro legame. Che ne pensi? È giusto ciò che hanno fatto?

Quello citato sopra è l’incipit di una pubblicazione scientifica del 2001, redatta dal professor Jonathan Haidt e intitolata suggestivamente “The Emotional Dog and Its Rational Tail”. Lo scopo dell’indagine era capire in che modo gli esseri umani formulano valutazioni di ordine morale, quindi è stato proposto un aneddoto fittizio riguardante un tabù — l’incesto — al fine di sondare le reazioni di un campione di persone.

La maggior parte degli interpellati, dopo aver ascoltato questa storia, non ha avuto tentennamenti nel condannare il comportamento dei due ragazzi e ha menzionato subito il rischio di inbreeding come motivazione. Quando però è stato fatto presente che entrambi i fratelli hanno usato le dovute precauzioni, sono stati ipotizzati danni psicologici a lungo termine, ma i ricercatori hanno prontamente sottolineato che il racconto esclude anche tale possibilità. Alla fine, non trovando ulteriori obiezioni logiche, molti hanno ammesso: “Non lo so, non riesco a spiegarlo, so soltanto che è sbagliato.” Ma come si fa a dire che qualcosa è sbagliato senza sapere il perché?

È questa la domanda da cui Haidt parte per dare corpo a quello che lui chiama “Social Intuitionist Model of moral judgment”: basandosi su recenti scoperte nel campo dell’antropologia e della psicologia sociale, culturale, evolutiva e biologica, ipotizza un funzionamento delle valutazioni morali fondato non sulla ragione, bensì su intuizioni di stampo emotivo. Arriva addirittura ad affermare che le motivazioni che forniamo per spiegare i nostri giudizi sono spesso razionalizzazioni a posteriori. Secondo Haidt non siamo coscienti di ciò che muove le nostre azioni, l’origine della morale non sarebbe rintracciabile nella nostra ragione.1

La diffusa tesi razionalista, che Haidt critica, enfatizza invece il primato della ragione, ponendosi in continuità con la tradizione occidentale che, dalla Grecia di Platone, ha attraversato i secoli fino a venir consolidata dall’epoca illuminista. La moralità dell’uomo è vista quindi come il prodotto di ragionamenti condotti confrontando ipotesi contrastanti, step dopo step; tramite questo processo si otterrebbero dei modelli che l’individuo può consultare qualora siano richieste valutazioni di tipo morale. Senza dubbio tutti noi siamo in grado di fare tali riflessioni, ma il modello intuitivista qui presentato toglie loro credito, attribuendovi una posizione subordinata alle intuizioni emotive: in definitiva l’importante non sarebbero le eventuali conseguenze dannose di un’azioni, bensì le sensazioni suscitate nello spettatore.

Scrive Haidt:

Haidt, Koller, e Dias (1993) trovarono evidenze per questo tipo di interpretazione. Esaminarono le reazioni di Americani e Brasiliani ad atti considerati offensivi pur essendo innocui, come mangiare il cane morto di qualcuno, pulire il water con la bandiera nazionale, o mangiare la carcassa di un pollo appena usato per masturbarsi. Le storie erano minuziosamente articolate in modo che nessuno risultasse danneggiato e la maggior parte dei partecipanti all’indagine non ebbe problemi a concordare su questo punto, eppure quasi nessuno esitò ad additare quelle azioni come sbagliate — universalmente sbagliate. Spesso affermavano “È semplicemente sbagliato fare sesso con una gallina!”. Le reazioni emotive a quelle storie fornivano migliori predizioni rispetto all’orientamento morale di quanto facevano le percezioni di conseguenze dannose. Haidt e Hersh (2001) riscontrarono comportamenti simili quando intervistarono conservatori e liberali su temi di moralità sessuale quali omosessualità, incesto e strane forme di masturbazione. Per entrambi i gruppi, furono le reazioni emotive ad innescare il giudizio, non la percezione di un danno perpetrato verso qualcuno. Haidt e Hersh riscontrarono che i partecipanti erano spesso moralmente interdetti; ossia, balbettavano, ridevano ed esprimevano sorpresa alla loro inabilità di trovare motivazioni a supporto delle loro opinioni, eppure non erano assolutamente disposti a ritrattare l’iniziale giudizio di condanna.

Detto ciò, la ragione non viene relegata al ruolo di orpello, risultando invece parte integrante del modello presentato (link al grafico), una parte a cui vengono assegnate importanti funzioni nei contesti sociali, come si nota dai punti 3, 5 e 6 riportati di seguito.

  • Persuasione tramite logica. Secondo il modello, un ragionamento morale può essere espresso per giustificare ad altri uno specifico giudizio. Tale ragionamento può influenzare altre persone, anche se le discussioni sono note per la rarità con cui esercitano potere persuasivo. Dal momento che le posizioni etiche hanno sempre una componente affettiva, è ipotizzato che tale persuasione avvenga non fornendo argomenti dalla logica schiacciante, ma suscitando nuove intuizioni emotive nell’ascoltatore. L’importanza dell’usare persuasione affettiva per modificare le attitudini altrui è stata dimostrata da Edwards e von Hippel (1995) e da Shavitt (1990).
  • Giudizio ponderato. Le persone possono, talvolta, formulare un giudizio morale affidandosi unicamente alla forza della logica, sovrascrivendo l’intuizione iniziale. In questi casi il ragionamento si può dire che causi davvero un giudizio, invece di essere “schiavo delle passioni”. Ad ogni modo, questo tipo di procedimento è ipotizzato come raro ed efficace soprattutto nei casi in cui vi sia un’intuizione iniziale debole ed una capacità intellettiva elevata. Quando il giudizio ponderato è in conflitto con un forte giudizio intuitivo, la persona in questione solitamente ha una “doppia posizione” (T. D. Wilson, Lindsey, & Schooler, 2000) in cui il giudizio razionale viene espresso verbalmente, mentre il giudizio intuitivo continua ad esistere a livello intimo.
  • Riflessione privata. Riflettendo su un caso specifico si può attivare spontaneamente una nuova intuizione che contraddice il giudizio iniziale. Il metodo più discusso per provocare nuove intuizioni è lo scambio di ruolo (Selman, 1971). Semplicemente mettendosi nei panni di un’altra persona, si possono percepire all’istante dolore, compassione o altre fulminanti risposte emotive. Questo è uno dei principali meccanismi correlati alla riflessione etica, stando a Piaget (1932/1965), Kohlberg (1969, 1971) e altri studiosi dello sviluppo cognitivo. Un individuo arriva ad osservare una situazione da più di una prospettiva e quindi sperimenta varie risposte intuitive. Il giudizio finale potrebbe essere determinato sia dall’emozione più forte, sia dalla scelta razionale basata sull’applicazione cosciente di una regola o di un principio. Questo percorso equivale ad avere un dialogo interno con sé stessi (Tappan, 1997) e ovvia al bisogno di un partner con cui discutere.

Che l’attenzione cosciente svolga un ruolo tutto sommato marginale nella nostra vita quotidiana è stato ampiamente dimostrato dagli studiosi Daniel Kahneman e Amos Tversky, i quali hanno individuato due tipi diversi processi cognitivi che operano in simultanea nel nostro cervello. Nel saggio divulgativo “Thinking, Fast and Slow”, Kahneman li chiama sistema 1 e sistema 2, ma oggi in psicologia cognitiva vengono usate le più intuitive denominazioni hot cognition e cold cognition.

La hot cognition rappresenta un processo intuitivo, spontaneo, che non richiede molte risorse e viene usato dal nostro cervello come modalità operazionale predefinita; al contrario la cold cognition impiega l’attenzione cosciente del soggetto sull’attività svolta, richiedendo un maggiore dispendio energetico. Per questo motivo il nostro cervello, se può, privilegia il sistema intuitivo.2 Da un punto di vista evolutivo questo rappresenta un grande vantaggio: con il minimo sforzo siamo in grado di affrontare una notevole varietà di situazioni, facendo affidamento su processi che risultano automatici. Inoltre la hot cognition viene plasmata dalle nostre esperienze, motivo per cui — con la dovuta pratica — possiamo assimilare comportamenti che non sono per nulla inscritti nel nostro patrimonio genetico (si pensi al guidare un’automobile).

Il sistema intuitivo fa quindi affidamento alla sfera emotiva per guidare le nostre azioni e, come abbiamo visto, parrebbe svolgere un ruolo di primo piano anche riguardo i nostri orientamenti morali. Ma da dove vengono le pulsioni emotive di base, quando si parla di comportamenti morali? Hanno origine dai nostri geni, oppure vengono apprese nel corso dello sviluppo infantile? Le nostre attuali conoscenze ci fanno escludere categoricamente che la mente umana, alla nascita, sia paragonabile ad un foglio bianco pronto per essere riempito.

I germogli da cui ha origine la morale

Kiley Hamlin ha condotto ricerche in merito presso il dipartimento di psicologia della UBC, illustrandone i risultati nella pubblicazione “Moral Judgment and Action in Preverbal Infants and Toddlers: Evidence for an Innate Moral Core”. Si è potuto osservare come, fin dal primo anno di nascita, i bambini siano dotati di un rudimentale senso riguardo ciò che è giusto e sbagliato, oltre che di capacità empatica. Bambini molto piccoli tendono ad aiutare persone che reputano in difficoltà (anche se queste non hanno mostrato segni evidenti di esserlo) e vengono turbati dalla sofferenza altrui, tanto da cercare di alleviarla come possono. Con riferimento alle dinamiche sociali è stato riscontrato che, nell’assistere a varie situazioni, infanti di soli tre mesi mostrano preferenze verso chi aiuta il prossimo, mentre non gradiscono chi ostacola. Sono stati inoltre condotti esperimenti in cui bambini sottoposti ad una variante dell’ultimatum game mostravano, analogamente agli adulti, una tendenza al rifiuto di ricompense non eque.

La Hamlin conclude:

In sintesi, le recenti ricerche mostrano che almeno alcuni aspetti della moralità umana sono innati. Fin dai primi periodi della loro vita, i bambini mostrano motivazioni e valutazioni concernenti la morale, le quali non sembrano correlate con processi di socializzazione o esperienze personali. Inoltre queste tendenze non sono per nulla superficiali predisposizioni ad un buon comportamento innescate in modo meccanico, né reazioni istintive a particolari situazioni: le inclinazioni morali degli infanti sono sofisticate, flessibili e sorprendentemente coerenti con quelle degli adulti, incorporando aspetti di bontà morale, valorizzazione e rappresaglia. Questa ricerca supporta la teoria secondo cui tendenza alla cooperazione e comportamenti morali si siano evoluti parallelamente, proponendo la moralità come un aspetto fondamentale della natura umana. In futuro ci si dovrà concentrare sul modo in cui questi tratti spontanei si combinano con l’esperienza individuale e altri meccanismi atti allo sviluppo cognitivo per ottenere un senso morale maturo.

Dal punto di vista del processo evolutivo ha in effetti senso che per una specie come quella umana, orientata alla vita in comunità, siano stati selezionati comportamenti atti a preservare il gruppo; in quanto animale sociale, l’Uomo è quindi anche animale morale e fin dalla prima infanzia presenta chiari orientamenti in tal senso. Vale però la pena di sottolineare come comportamenti analoghi possano essere riscontrati anche in cani, delfini e —ovviamente — primati.3 L’Uomo è però diverso dalle altre specie animali: un cervello più complesso e circoli sociali più ampi hanno fatto sì che la sua moralità si sia affinata in modo del tutto peculiare.

A questo punto vorrei spostare un attimo l’attenzione dall’essere umano come individuo alle varie società che la nostra specie è stata in grado di originare. Sappiamo che la matrice di base è la stessa per ogni individuo di questo pianeta, eppure l’apporto dato dalla cultura di adozione è tale da creare barriere tra popoli diversi che possono sembrare invalicabili, quindi è lecito porsi una domanda: come si forma un senso morale comune per i membri di una civiltà? Si è detto che le spinte emotive insite in noi vogliono prevenire la disgregazione del gruppo e favorirne l’armonia interna, se ne deduce quindi che l’uomo è indirizzato a cercare cooperazione e ordine, mentre vuole prevenire il caos con ogni mezzo a sua disposizione.

La dottrina della salvezza

Per spiegare quello che credo sia il fondamento di ogni spinta civilizzatrice ricorro ad un termine strano e sconosciuto ai più: soteriologia. Nello studio delle religioni indica la “dottrina della salvezza” e rappresenta la convinzione che lo stato di natura in cui si trova l’Uomo sia potenzialmente dannoso, motivo per cui è necessario adoperarsi al fine di raggiungere una generica salvezza. In quanto Occidentali, noi tutti abbiamo familiarità con l’immaginario cristiano, per cui non tardano a venirci in mente Peccato Originale, Lucifero, Dio e Dieci Comandamenti; queste immagini rappresentano molto bene, secondo la soteriologia cristiana, quale sia la nostra condizione, cosa dobbiamo evitare, a cosa dobbiamo tendere e i comportamenti che dobbiamo seguire per poterci salvare. In qualsiasi luogo al mondo, la religione è stato il primo mezzo usato dalla nostra specie come collante sociale4.

È ora utile, al fine del discorso che voglio imbastire, ricorrere alla visione del filosofo canadese Charles Taylor sulla religione. Egli considera l’aspetto teistico del tutto marginale, dichiarando che la religione (o meglio, la spiritualità) comprende una serie di affermazioni ontologiche tali da fornire agli individui una guida per le proprie azioni. In altre parole ciò che fa una religione è istruire i fedeli su come vivere la loro vita in modo armonioso, facendo affermazioni su quale sia la natura umana e le leggi che la governano; aderendo perfettamente a queste norme5, le persone possono quindi vivere al riparo dai pericoli di un universo entropico (almeno in teoria). La cosa interessante di questo tipo di formulazione è che, non essendo dipendente dal teismo, arriva ad includere aspetti della nostra vita normalmente non associati alla religione.

Qualsiasi linea di pensiero che compie affermazioni su come si dovrebbe vivere, su quale sia il significato della nostra esistenza, il nostro posto nel mondo, o su quale debba essere la nostra strategia (soteriologica) per il futuro, viene compresa in questa definizione; si pensi ad esempio a Marxismo, libertarismo, o persino al moderno liberalismo occidentale. Taylor ha scritto molto su quanto, a suo parere, quello del laicismo non sia altro che un mito: scienza e razionalità non hanno eradicato le credenze spirituali come all’opinione comune piace credere. Fintanto che una persona si affida ad un set di precetti morali, fintanto che ha chiara in mente l’immagine di come il mondo è e di come invece dovrebbe essere, può anche definirsi “atea”, ma rimane religiosa nel suo intimo.

Questa tesi può essere provocatoria per alcuni lettori, in tal caso vi consiglio di soffermarvi un attimo sulle sensazioni che state provando. Reputate ciò che ho appena scritto sbagliato? Siete vagamente irritati? Avete una smorfia sulle labbra? Se sì, perché? Non è probabile che le mie parole abbiano scosso ciò che la vostra hot cognition è stata abiutata a riconoscere come un valore? La tesi di Taylor potrebbe benissimo presentare dei punti deboli, ma le motivazioni contrarie che suscita “a caldo” è molto probabile ricadano nel novero delle razionalizzazioni a posteriori indicate dalla teoria di Haidt.

Il processo di socializzazione fornisce quindi agli individui una visione del mondo coerente con quella propugnata dalla cultura di adozione. Sebbene i valori dei moderni stati occidentali si pongano lungo un trend che vede una progressiva integrazione tra le varie componenti della società e un sempre minore ricorso alla violenza, i meccanismi con i quali gli esseri umani interiorizzano queste norme non sono cambiati rispetto a quando vivevano come cacciatori-raccoglitori. Possiamo dire quindi che a differenti strategie soteriologiche corrispondono differenti concezioni riguardo ciò che è moralmente accettabile e questo può causare frizioni quando diverse culture entrano in contatto tra loro; talvolta tali attriti sono trascurabili, altre volte sono particolarmente scottanti.

Siccome per quanto concerne la moralità viene coinvolta in primo luogo la sfera emotiva, la trasgressione ai propri valori viene avvertita al pari di una minaccia, suscitando solitamente una reazione furiosa (le discussioni su grandi temi morali o sulla migliore linea politica da adottare non sono famose per il clima disteso in cui avvengono). Un buon sistema normativo ed un set di valori largamente condivisi sono stati fino ad ora sufficienti per mantenere l’equilibrio tra le pluralità insite negli Stati, ma nel mondo odierno si è chiamati ad una nuova sfida, la cui soluzione è quantomai incerta.

La tensione dell’Occidente

Oggi abbiamo nuovi valori in cui crediamo fermamente, valori propri dell’epoca post-illuminista che mai erano stati presi in considerazione prima, ma che noi reputiamo fondamento stesso di una società sana: crediamo nei diritti umani, nell’importanza dell’inidividuo, nella sua libertà di espressione, nel primato della razionalità, e riteniamo importante la diversità culturale; sono tutte idee a noi familiari e per cui molti si batterebbero (e si battono), ma storicamente sono concetti nuovi e, da un certo punto di vista, persino strambi. Guardando alla situazione globale non facciamo fatica a trovare esempi di framework culturali in cui questi valori non sono presenti e, visti i tempi che corrono, so che la mente va in automatico al fondamentalismo islamico. Noi non riusciamo a comprenderlo intuitivamente, ma per un terrorista islamico irrompere nella redazione di un giornale con un AK-47 e uccidere delle persone perché hanno disegnato una vignetta su Maometto è la cosa giusta da fare. Ovviamente qui si parla di fondamentalismo, non è ciò che il musulmano medio reputa giusto (anzi!), ma le vignette pubblicate da Charlie Hebdo sono state viste come oltraggiose da praticamente ogni persona sotto l’influenza del framework culturale islamico, anche se di cittadinanza francese.

Dopo l’attentato in molti si sono scagliati contro la religione, io sono d’accordo solo se si adotta la definizione indicata da Taylor: coloro che si sentono colpiti da quel gesto e imbracciano cartelli recanti scritto “Je suis Charlie”, urlando lo sdegno verso il terrorismo islamico, stanno agendo sull’onda degli stessi impulsi che hanno causato la carneficina. In questi giorni sta emergendo in modo prepotente la grande contraddizione interna al nostro framework: da un lato abbiamo la tutela della diversità, dall’altro il set di valori dell’epoca post-illuminista che possono avere effetti sgraditi ad alcune minoranze; qual è la strategia da adottare per allentare la tensione? Mentirei se dicessi di saperlo.

Convivenza tra mondi diversi

Qualche giorno fa mi è capitato di visionare la conversazione tra Robert Wright e Jeet Heer riguardo l’attentato. Ad un certo punto i due hanno fatto riferimento a come gli USA e la Francia — pur essendo entrambi Stati occidentali — abbiano consuetudini molto diverse riguardo la libertà di espressione.

Trascrivo le parole di Wright:

Negli Stati Uniti l’auto-censura è esercitata al fine della convivenza etnica: non andiamo in giro ad urlare la “parola che inizia per n” e condanniamo moralmente chi lo fa. È legale farlo, non è un problema di censura, ma abbiamo la consuetudine di auto-censurarci riguardo argomenti in cui sono coinvolte minoranze etniche. E non è un comportamento simmetrico: io sono bianco e puoi darmi tutti gli appellativi che vuoi, la cosa non mi tange, ma io non sono rappresentativo di una minoranza emarginata. Quindi, in America, noi teniamo conto di questo nel nostro codice di comportamento; tu puoi benissimo sostenere che non siamo tenuti a farlo o che non dovremmo farlo, ma il fatto è che lo facciamo.

Per come la vedo io, è l’esempio di un comportamento morale sviluppato per mantenere in armonia una società fondata su un melting pot come quella statunitense. Non so se la sempre maggiore globalizzazione renderà necessari tali comportamenti anche in Europa,6 ma ora riesco a vederne il senso, mentre qualche tempo fa ritenevo esagerato il politically correct d’oltreoceano su alcuni temi. L’argomento mi lascia però molto combattuto: sono convinto la risata abbia il potere incredibile di esorcizzare ogni paura e che la satira sia essenziale per una sana democrazia, azzopparla equivarrebbe a screditarne il ruolo; conciliarne la libertà all’interno di un framework comprendente il rispetto per culture che non ne concepiscono la funzione è cosa ardua.

Forse la direzione ottimale sarebbe quella che punta verso la consapevolezza della pluralità di contesti culturali insiti in una stessa società. Potrebbero volerci decadi, ma non credo sia impossibile abituare il nostro cervello ad una molteplicità di lettura e allenare la nostra hot cognition in modo tale da consentirci di mettere in prospettiva gli eventi; questa è la mia visione ottimistica, ma se devo essere realista ritengo più probabile l’adozione del modello statunitense di auto-censura. Qualunque sia il risultato finale, la strada da percorrere non è quella della xenofobia, ma dell’istruzione: comprendere noi stessi e gli altri rimane il modo migliore per favorire una convivenza il più possibile pacifica.

Concludo con la bellissima vignetta “On Satire”, pubblicata da Jo Sacco sul Guardian, sperando che il fiume di parole da me scritte riesca a farle degnamente da cornice.

Origine Morale
Origne Morale

  1. A tal proposito è utile menzionare le ricerche compiute da Michael S. Gazzaniga sul funzionamento del cervello e riassunte nel suo scritto “Understanding Layers: From Neuroscience to Human Responsibility”. 
  2. Questo meccanismo è alla base dei nostri bias cognitivi e causa effetti collaterali come il fenomeno chiamato deplezione dell’Io 
  3. Si vedano le ricerche di Frans de Waal in merito. 
  4. Una interessante lettura che mostra come l’Uomo sia intimamente religioso è “Why Religion Is Natural and Science Is Not”. 
  5. Non ogni religione pone enfasi sull’obbedienza, ma tutte presentano aspetti rituali. Dal momento che la relazione tra attitudine ed azione è biunivoca, abbiamo oggi motivo di credere che i riti si siano affermati in virtù della loro capacità di influenzare il comportamento degli individui in modo coerente con gli interessi della nostra specie. Può essere interessante (e divertente) guardare il TED Talk in cui AJ Jacobs racconta del suo esperimento che lo ha portato a vivere per un anno seguendo alla lettera i dettami biblici. 
  6. Va detto che la legge pone dei limiti alla libertà di espressione proprio per tutelare soggetti terzi dal venirne danneggiati, ma il comun sentire è tutt’altra cosa. 

Insight

Circa un mese fa ho avuto un’esperienza interessante. Dopo una notte con poche ore di sonno e una mattinata abbastanza intensa, mi trovai nel primo pomeriggio con le palpebre troppo pesanti per essere mantenute aperte; decisi quindi di puntare il timer del telefono a 30 minuti e farmi un sonnellino. Una volta addormentato venni catapultato nel mondo dei sogni come mi capita sempre, ma questa volta fu peculiare perché, ad un certo punto, mi accorsi di stare sognando e presi coscienza di me. Era il mio secondo sogno lucido di sempre e immediatamente cercai di controllare l’ambiente in cui mi trovavo, ma senza particolare successo: percepii uno strano formicolio lungo il corpo, mentre tutto ciò che avevo attorno sfumava in una nebbia grigia, lasciandomi a fluttuare nel vuoto, in preda alle vertigini. A quel punto mi svegliai. Procedetti a stropicciarmi gli occhi facendo qualche commento confuso sulla strana esperienza appena avuta, dopodiché mi guardai un po’ intorno, perplesso: diversi oggetti nella mia stanza si trovavano fuori posto. Ebbi appena il tempo di fare qualche commento sulla stranezza ed ecco che, all’improvviso, mi svegliai sul serio.

Diverse volte, in passato, ho avuto falsi-risvegli, talvolta anche concatenati in quella che sembrava una spirale senza fine, facendomi provare un opprimente senso d’angoscia, ma quella volta fu peculiare: non so se fosse una conseguenza del sogno lucido, ma ancora oggi non riesco a trovare differenze tra la qualità di quell’esperienza e la realtà cosciente. Tutto ciò mi fa venire in mente un famoso passo del Zhuangzi:

Una volta, Zhuangzi sognò di essere una farfalla. Era una farfalla che volteggiava liberamente, appagata della propria condizione. Non sapeva di essere Zhuangzi. All’improvviso si svegliò e si accorse di essere Zhuangzi, con la sua forma. Non poteva dire se Zhuangzi avesse sognato di essere una farfalla, o se una farfalla stesse sognando di essere Zhuangzi. Tra Zhuangzi e la farfalla dev’esserci una distinzione. Questo è ciò che si dice la trasformazione degli esseri.

Un paio di ore dopo quel singolare evento mi misi al volante. Per la testa avevo svariati pensieri e per tenerli a distanza provai ad osservarli in un modo simile a quanto faccio durante le mie sedute di meditazione, ma dato che il contenuto di alcuni mi incuriosiva, li seguii a distanza per una manciata di secondi, invece di lasciarli semplicemente sfumare. D’un tratto qualcosa lungo la strada catturò la mia piena attenzione, facendomi passare in un istante dall’osservare i pensieri all’essere concentrato sulla guida; quella transizione fu talmente fluida da costituire una rivelazione: vidi chiaramente, per la prima volta, che non esistono confini tra il mio “mondo interiore” ed il mondo esterno, è tutto un costante flusso di sensazioni, le quali — cosa molto importante — sono separate da me.

Collegai all’istante anche l’esperienza onirica avuta qualche ora prima e avvertii una sottile angoscia, mi sentii spiazzato, come se le fondamenta della mia stessa coscienza si fossero incrinate. Un brivido mi percorse la schiena al pensiero di diventare lo spettatore di un incontrollato flusso di sensazioni, incapace di distinguere la loro provenienza o persino percepire i confini del mio corpo; qualcosa di analogo a ciò che si trovò a sperimentare Jill Bolte Taylor quando ebbe un ictus, insomma.

Come spesso accade, questo tipo di paure si sono rivelate presto delle paranoie prive di fondamento. Ad oggi fatico a ricordare le sensazioni che mi dette quell’esperienza (gli anglofoni la chiamerebbero “insight”), ma avverto senza ombra di dubbio che qualcosa è cambiato nel rapporto tra me e le mie percezioni. Ogni volta che mi trovo assillato da pensieri negativi o sono in situazioni che mi provocano disagio, riconosco intuitivamente che quello che sto provando non fa parte della mia essenza; come conseguenza di questa nuova ottica mi trovo a vivere le situazioni con più leggerezza e anche quando il disagio è particolarmente forte e vicino a me, non provo più come un tempo il desiderio di fuggire o scrollarmelo di dosso, poiché tutto questo non è parte di me. Certo, ci sono alti e bassi, ma quell’esperienza ha innescato un cambiamento profondo.

Ci sono molte (troppe) cose che non so della mia coscienza, mi sento eccitato al pensiero di avere ancora svariate decadi per approfondire l’argomento.

Compassione

C’è un koan Zen che, di tanto in tanto, mi torna in mente. Lo cito di seguito.

Due monaci stanno camminando lungo il bordo di una strada, in pieno inverno; sono nel mezzo di una tormenta e la neve alta rende difficoltosa la loro andatura. Il monaco più anziano scivola in fosso a lato del percorso, trovandosi imprigionato da pareti di neve alte svariati metri. Il monaco più giovane studia la situazione è constata con rammarico che non c’è modo di trarre in salvo il compagno. Che cosa deve fare, dunque?

La risposta al quesito è semplice e bellissima: il monaco deve saltare nel fosso assieme al suo compagno.

A volte la sola cosa che possiamo fare quando vediamo soffrire una persona a noi cara è semplicemente starle a fianco. Senza sprecare fiumi di parole, senza elargire consigli (spesso non richiesti): basta la nostra completa presenza e partecipazione per il dolore altrui, nient’altro.

Nei momenti più difficili ciò che conta è sapere di non essere soli.

Messaggio in bottiglia

Sono sempre stato solito preferire la comunicazione scritta a quella a voce. Scrivere mi viene naturale quasi come respirare, i pensieri scorrono fluidi, liberi, e le parole si intrecciano per dipingere immagini e comunicare concetti in un modo che non riuscirei mai a fare esprimendomi a voce. Questo è possibile anche perché, durante la scrittura, ci si può fermare e riflettere a fondo sulle parole da scegliere, fino a trovare l’alchimia capace — si spera — di pizzicare le corde giuste nel lettore, che poi spesso sono le stesse che vibrano in me quando faccio danzare le dita sulla tastiera del computer; la scrittura è quasi una forma di psicoterapia, un modo per ordinare i miei pensieri e dare un senso a ciò che in altri momenti non riesco a razionalizzare. È inoltre un processo che non finisce mai: si possono spendere interi minuti su di una frase per perfezionarne la punteggiatura e trovare il ritmo migliore. Scrivere vuol dire trasformare l’animo umano in una sinfonia; se ciò che leggi non suscita nulla dentro di te, l’autore ha fallito il suo compito.

La scrittura mi piace, dunque, mi piace tanto, per questo risulta molto frustrante quando non riesco ad esprimere ciò che sento realmente. Tempo fa ho detto ad un’amica: “Se dovessi togliere il superfluo da tutte le conversazioni che tengo solitamente, è probabile che finisca per non aprire bocca tutto il tempo”. Non era una spocchiosa lamentela sulle chiacchiere di circostanza (che pure non gradisco), ma una presa di coscienza sul fatto che “l’essenziale” — come scrisse Antoine de Saint-Exupéry — non solo “è invisibile agli occhi”, ma è addirittura inesprimibile.

La tecnologia che avrà davvero successo sarà quella in grado di veicolare efficacemente il risonante senso di vacua meraviglia che risulta dal contemplare la notte stellata a 2000 metri di quota, una tecnologia che riesca a gettare ponti di collegamento tra noi — uomini-isola — e donarci finalmente la connessione di cui abbiamo un bisogno disperato. Magari a quel punto sarà possibile smetterla di affidare messaggi alla corrente, sperando che arrivino a destinazione.

In attesa che questa utopia venga realizzata, consegno al mare l’ennesima bottiglia.

Buddhism and Modern Psychology

Nel corso degli ultimi due mesi, ho avuto il grande piacere di seguire il corso online ‘Buddhism and Modern Psychology’ tenuto da Robert Wright, professore alla Princeton University ed autore di apprezzati libri sul tema della psicologia evolutiva.

Ho trovato ogni lezione illuminante su vari aspetti e ho particolarmente apprezzato le “office hours”, piccole sessioni extra in cui Wright provava a rispondere alle principali perplessità degli utenti riguardo i temi affrontati. Il docente ha saputo trattare in modo molto chiaro e lineare una materia complessa e vastissima, tentando di capire se le intuizioni buddiste riguardo la mente umana siano attendibili dal punto di vista della moderna psicologia.

Personalmente consiglio il corso a chiunque fosse anche solo lontanamente interessato a queste tematiche. Purtroppo non so se verrà riproposto in futuro, ma per vostra fortuna (e per mia utilità) ho deciso di caricare tutte le lezioni, i relativi sottotitoli e alcuni interessanti extra, su una cartella in MEGA.

Spero di aver fatto una cosa gradita e spero che, al termine della visione, condividerete con me l’ansiosa attesa del libro che Robert Wright sta scrivendo sull’argomento.

Non c’è nessun manuale

Esiste un modo di dire Zen che ricorre spesso in varie forme, può essere esemplificato con: “Qualsiasi atteggiamento è inappropriato, eccetto quando è appropriato”. Ovviamente non c’è una spiegazione del concetto e, nel sentirlo per la prima volta, si rimane sempre un po’ spiazzati, però si può capire abbastanza in fretta a cosa si riferisca: puoi spendere quanto tempo vuoi ad elaborare complesse strategie di azione, ma non arriverai mai ad ottenere regole generali sempre applicabili, perché ogni momento è unico.

È difficile non aggrapparsi a qualcosa, è difficile accettare l’incertezza, ma non hai molte alternative. Liberati da illusioni ed immagini mentali; passo dopo passo, affronta ciò che c’è. Se la mente vuole catturarti per farti sprofondare in una voragine senza fine, tratta questa illusione come un rumore di fondo e riporta l’attenzione a ciò che stai vivendo. Le contrazioni dei tuoi muscoli, l’acqua sulla tua pelle, le lacrime, la tua voce che vibra nella trachea, le emozioni che ti riempiono il petto: tutto questo è reale, è ciò che sei adesso. I pensieri che sorgono spontanei sono solo l’eco delle tue insicurezze, sono privi di realtà.

La realtà, già. Magari non ti piace, magari preferisci cullarti in una fantasia, cercare un modo qualsiasi per scappare, ma alla fine non c’è nessun posto dove puoi andare. Puoi soltanto affrontare ciò che ti si presenta davanti, sapendo che qualsiasi reazione è appropriata, fintanto che non fuggi; se poi dovessi compiere qualche errore, non perdere tempo coi sensi di colpa (anche quelli senza realtà) e affronta le conseguenze con lo stesso spirito. Soprattutto, però, impara a perdonarti. Sempre.

Rompi lo schema

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Fonte

Non sono (più) un fan del “non sei come loro” che fa da incipit all’illustrazione, trovo infatti che in qualche modo si sia tutti sulla stessa barca, la sola differenza è che alcuni sono più consapevoli di altri delle costrizioni a cui si sottopongono, dell’essere portati ad adattarsi ad un’immagine che rientri nella normalità. Bisogna sottolineare che per “normalità” si intende la normalità statistica, ossia il comportamento più diffuso; va da sé che tale comportamento può anche essere, a seconda dei casi, la peggiore modalità adottabile.

Bisogna mettere in discussione ciò in cui si crede per poter crescere e maturare, bisogna essere senza forma per poter assumere qualsiasi forma, non per niente l’acqua — che si adatta ad ogni situazione — è il soggetto preferito delle metafore Zen. Rinunciare alle proprie certezze, uscire dall’armatura, apre nuovi scenari e permette un vero incontro con altre persone, incontro che potrebbe cambiarti la vita. Per fare questo, però, è necessario rivelare le proprie vulnerabilità.

Uscire dagli schemi è tremendamente importante, comportarsi come formiche significa rinunciare a vivere in virtù di un comfort che non esiste.