Portare su Marte l’atmosfera di Venere

Stavo riflettendo sul fatto che mi è sempre stato molto più facile entrare in sintonia con le ragazze, piuttosto che con i ragazzi. Non ho mai provato ad indagare le cause, forse perché pensavo fosse un mio difetto o semplicemente un’abitudine consolidata dopo che, anni fa, alcuni miei grandi amici mi voltarono le spalle da un giorno all’altro. Oggi però, riflettendo su ciò che apprezzo davvero in un rapporto inter-personale, credo di aver capito dove stia la differenza tra le due categorie di persone: le donne tendono ad essere molto più disposte all’introspezione e non hanno grossi problemi a mostrarsi vulnerabili, una volta che si sentono a loro agio1.

Ormai ho capito da un po’ che io bramo connessione nei rapporti umani e provo un gran senso di appagamento quando riesco ad entrare in sintonia con una persona, è una tematica che mi è capitato di toccare anche in questo blog, un paio di anni fa. Ebbene, questa intesa si realizza se entrambe le parti sono disposte ad abbassare le difese e lasciarsi completamente andare; è come una trust fall: quel gioco in cui ti lasci cadere all’indietro, sicuro che la persona alle tue spalle ti prenderà tra le sue braccia, arrestando la caduta. Questo meccanismo funziona solo se c’è quel senso di cieca fiducia nel fatto che nessuno approfitterà di questa tua condizione svantaggiosa, ma fidarsi a tal punto da esporsi in questo modo è molto difficile.

È difficile per tutti, ma la mia esperienza mi dice che lo è di più per gli uomini che per le donne. Chiariamoci: sono riuscito ad instaurare questo tipo di rapporto anche con alcuni miei amici maschi, ma ci è voluto tanto tempo e ancora oggi noto occasionali resistenze. Di solito quando mi trovo a conversare con ragazzo e cerco di virare verso argomenti più introspettivi, finisco per trovarmi davanti ad un blocco monolitico da erodere pezzo dopo pezzo per arrivare al nucleo vitale, come risultato tendo ad irrigidirmi anche io e proiettare un’immagine di me che sarà anche quella più appropriata alla circostanza, ma non è rappresentativa di ciò che sento davvero. Spesso e volentieri, invece, una ragazza quasi mi invita a sciogliermi, mi mette a mio agio e si verifica quella compenetrazione di anime che tanto mi piace.

Nel primo caso l’interazione finisce spesso per risultare stressante e priva di significato, mentre nel secondo è molto più rilassante ed appagante. Non ho fatto alcuna ricerca in merito, ma penso che queste diverse modalità possano essere dovute in parte a differenze biologiche (e ormonali) che rendono più intuitivi certi comportamenti, e in parte da modelli interiorizzati durante la crescita. La biologia consente però margini di variazione, così come i modelli possono essere alterati e rimpiazzati; forse se le donne stanno imparando ad essere più assertive, anche gli uomini dovrebbero allenarsi all’introspezione e raggiungere così una maggiore maturità emotiva.

Questo pensiero può sembrare fin troppo campato in aria e infatti ero restio a condividerlo su queste pagine, ma poi sono incappato in un video molto interessante. Si tratta dell’esperienza di una donna che, per capire il più possibile cosa significhi essere uomo, decide di vestirne i panni per 18 mesi; tra le varie considerazioni ve ne sono anche di simili alle mie, con la differenza che le sue hanno un peso decisamente maggiore per via del modo in cui sono maturate.


  1. Quasi sicuramente esiste continuum che presenta varie posizioni, il mio discorso è una semplificazione a fini esplicativi. 

Il mondo è un po’ più freddo

Domenica 5 giugno 2016 è morto mio padre.

Non mi viene in mente nulla di sensato da dire. Eppure vorrei. Vorrei parlare di come mi sento in colpa per non avergli dimostrato l’affetto che meritava, quando era in vita. Vorrei scusarmi per tutti i casini che ho causato in famiglia e le preoccupazione che gli ho fatto provare, per colpa del mio carattere non proprio facile. Vorrei ringraziarlo per tutto quello che ha fatto per me, vorrei dirgli che ora capisco quanto fosse importante ogni minima cosa che faceva e vorrei dirgli che i suoi difetti, in fondo, erano poca roba.

Vorrei dirgli che mi rendo conto solo ora di quanto io sia stato fortunato ad avere lui come padre, lui che forse a prima vista poteva non colpire particolarmente, ma che era in grado di essere un grande esempio di correttezza ed era capace di un Amore incredibile. Lui, che con i polmoni quasi completamente divorati dai funghi ha avuto il coraggio di non lamentarsi mai e di dissimulare la sua sofferenza per non allarmare mia madre, dicendo semplicemente: “Mi sento un po’ a disagio”; è in momenti come questi che si vede il coraggio di un uomo e io posso dire che, sì, mio padre era coraggioso e ha lottato come un leone fino alla fine. Mi distrugge pensare che tutte queste qualità ho potuto realizzarle soltanto quando è stato troppo tardi. Soltanto quando ho visto la gente che gremiva la chiesa andare verso mia madre per dirle che persona immensa mio padre fosse.

La sua assenza è straordinariamente presente. Sono in alto mare e ho perso la mia bussola.

Domenica 5 giugno 2016, da quel giorno il mondo è un po’ più freddo.

Un approccio pragmatico all’idealismo

Come chi mi conosce bene sa (e come ho già avuto modo di scrivere) mi sento spesso attanagliato da un’angosciante sensazione di ignoranza, dalla consapevolezza di non sapere mai abbastanza. Certo, questo è un ottimo propellente per la mia già vorace curiosità, mi spinge ad informarmi sempre di più ed ampliare la mia cultura, ma più conoscenza acquisisco, più la consapevolezza della mia ignoranza aumenta. È un paradosso noto fin dai tempi di Socrate, che oggi va sotto il nome di effetto Dunning-Kruger, Bertrand Russell lo ha così riassunto: “Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e di indecisioni”.

Il fatto di poter dare un nome a questa condizione non allevia però il disagio di doverci avere a che fare, soprattutto se hai 25 anni e devi impegnarti a costruire il tuo futuro, devi incanalare il fuoco che hai dentro. “A vent’anni è tutto ancora intero“, cantava Guccini, beh qualcuno lo dica alla mia testa perché non c’è ideale a me caro che un’attenta analisi di realtà non riduca in pezzi. Perché io sono un idealista, ma sono anche quello che gli anglofoni definirebbero un overthinker e queste due caratteristiche collidono tra loro, alimentando un malessere interiore che non sempre riesco a gestire.

Eppure bisogna credere in qualcosa, nonostante tutto, bisogna attivarsi per lasciare la propria impronta nel mondo, non per una qualche spinta narcisistica (sebbene quella aiuti) ma perché è importante dare uno scopo a ciò che si fa, dovesse anche essere traballante o posticcio. Il problema degli idealisti è che — più o meno consciamente — vogliono cambiare il mondo e hanno la presunzione di sapere qual è la direzione giusta da prendere per migliorare le cose. Il problema dei cinici invece è che non provano mai davvero a migliorare le cose, preferendo occuparsi del proprio tornaconto personale; molti di loro sono però ex-idealisti che si sono scontrati con il potere che lo status quo ha di corrompere anche i più nobili progetti, così si sono arresi.

Un mese fa stavo parlando con una donna che lavora per un’importante associazione senza scopo di lucro, mi ha raccontato schifata della corruzione dilagante e degli sprechi che affliggono simili realtà. È arrivata a dire che lei, da quando è venuta a conoscenza di come vengono usati i soldi che le varie No Profit o ONG raccolgono tramite le donazioni, non donerà più nemmeno un Euro per supportarle. Qualcosa di simile lo aveva detto, poco tempo prima, Umberto Galimberti durante una conferenza a cui ho assistito: se fai una donazione all’Unicef o simili, è molto probabile che vada a pagare gli hotel cinque stelle degli operatori mandati in missione. E pensare che io stavo accarezzando l’idea di avvicinarmi al mondo delle Organizzazioni Non Governative, con l’intento di aiutare gli altri.

La signora di cui sopra, alla fine del suo discorso ha chiosato: “Viviamo in mondo brutto, che ci vuoi fare”. Ecco, io però — nel mio piccolo — qualcosa vorrei fare. Ho notato che si ha sempre il (lodevole) istinto di pensare in grande, mentre forse quando si affrontano argomenti molto complessi si dovrebbe pensare in piccolo, molto in piccolo: sono un fan dei miglioramenti incrementali e credo che chiunque possa fare la differenza per l’equilibrio generale, se agisce in modo consapevole. All’inizio di questo post ho parlato dell’effetto Dunning-Kruger e di come contribuisca al senso di impotenza che sento dentro di me: ho abbastanza nozioni per comprendere la complessità delle sfide che la nostra epoca storica ci sta lanciando, ma non ho minimamente le competenze per abbozzare possibili soluzioni. Forse non avrò mai queste competenze, ma credo di poter lo stesso dare il mio decisivo contributo.

L’approccio che ho deciso di adottare si basa in larga parte sulle riflessioni pubblicate da Hagop Sarkissian nel saggio “Minor tweaks, major payoffs: The problems and promise of situationism in moral philosophy” in cui illustra il tema del situazionismo.

Per chi non lo sapesse, i situazionisti ridimensionano la portata che i tratti caratteriali hanno nel determinare i comportamenti individuali, affermando anzi che le persone sono molto malleabili e le loro azioni sono grandemente influenzate dal tipo di ambiente in cui si trovano. A tal proposito non può non venire in mente il celeberrimo esperimento condotto da Philip Zimbardo all’Università di Stanford, capace di trasformare dei bravissimi ragazzi in veri e propri aguzzini; il libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” che Zimbardo scrisse in seguito, spiega quali sono le condizioni ambientali in grado di far germogliare il male nell’animo umano.

Sarkissian però non si arrocca su una posizione di determinismo ambientale, figlia del dualismo che troppo spesso permea il nostro modo di ragionare. Scrive:

Siamo variabili importanti delle nostre relazioni interpersonali, essendo le nostre azioni legate indissolubilmente a quelle altrui. […] Gli individui possono essere visti come parti di un contesto, come punti focali di una rete sociale. Da questa prospettiva un individuo, per quanto unico, resta connesso a ed influenzato da una più larga struttura sociale, mentre al contempo ne condizona le dinamiche con il suo stesso comportamento.

L’idea, benché non convenzionale, non è certo nuova1 ed è comune presso le culture asiatiche, abituate ad avere una visione olistica sul mondo. Sarkissian stesso arriva a citare gli Annali di Confucio, abbracciando la tesi dell’autocoltivazione come mezzo per influenzare positivamente l’ambiente in cui ci si trova, di modo da migliorarlo ed esserne a nostra volta positivamente influenzati.

Non entro nel merito di tutti gli argomenti discussi: il saggio è ben fatto, scorrevole e piuttosto breve (10 pagine), quindi ne consiglio vivamente la lettura. Quello che mi interessa, al fine di questa riflessione mista a sfogo, è spiegare quello che da un po’ di tempo sto cercando di fare, mentre finisco di sistemare i dettagli necessari per iniziare una vera e propria carriera lavorativa. Invece di mirare a cambiare il mondo, sto cercando di migliorare il più possibile quel pezzo di mondo che mi circonda, scegliendo consapevolmente di agire in modo costruttivo ogni volta che me ne si presenti l’occasione.

Da un lato cerco di frequentare ambienti che stimolino la mia crescità anziché ostacolarla, dall’altro coltivo in vari modi una disposizione d’animo che abbia un’influenza positiva sulle persone con cui interagisco. Come si evince dal lavoro di Sarkissian (e come scrissi anni fa), persino un sorriso o una parola cordiale possono avere un potere trasformativo sulla giornata di chi li riceve e, per riflesso, su quella di molta altra gente. Non mi spingo troppo in là cercando di incarnare il jūnzǐ di confuciana memoria — credo diventerei nevrotico nel provarci — ma voglio assumermi la piena responsabilità delle mie azioni (anche piccole) e prendere coscienza del fatto che sì: posso fare la differenza, anche come sig. Nessuno.

Forse è troppo sperare che questa idea prenda piede presso un numero abbastanza corposo di persone da mitigare in modo sostanziale i conflitti presenti nella società odierna, fino magari a raggiungere una massa critica tale da operare un cambio di paradigma culturale, ma ormai lo sapete: sono un idealista, lasciatemi sognare.


  1. Anche Epitteto aveva affrontato il problema, in qualche modo. 

La Vita, istruzioni per l’uso

Ci sono degli autori — di cinema, letteratura, musica, arte in generale — che mi rimangono sconosciuti per lungo tempo, poi quando finalmente entrano nel mio radar mi chiedo: “Ma come ho fatto a vivere fino ad ora senza conoscere questo tizio?!”. Spesso a quel punto sono già morti o a fine carriera, il che fa aumentare il mio disappunto.

Alessandro Bergonzoni è uno di questi artisti: l’ho scoperto forse al momento giusto per poterne apprezzare il genio, ma probabilmente troppo tardi per poter godere in tempo reale dei suoi picchi creativi. Ciò che me lo ha fatto apprezzare subito è la sua grandissima abilità nel giocare con le parole e sovvertire gli schemi; è un anticonformista, ma non per partito preso: la sua profonda consapevolezza delle “strutture” gli consente di scomporle e ricomporle a piacimento, con un effetto disorientante e proprio per questo molto potente.

Il video con cui l’ho conosciuto è intitolato: “La Vita, istruzioni per l’uso” ed è un monologo che il comico ha tenuto nel 2011 alla Festa dell’Unità di Pesaro. Lo posto qui di seguito assieme all’invito di trovare il tempo per vederlo; siccome però so che 50 minuti sono tanti per le soglie di attenzione odierne, ho pensato di trascrivere un frammento del monologo — a mo’ di teaser — per dare un’idea dei temi trattati.

A me piaceva il granché: molti mi avevano insegnato che una cosa “non è un granché”, noi sappiamo cosa non è un granché, ma cos’è il granché? La mia biografia mi ha raccontato che c’è anche un granché: non t’accontentare, non dire “va bene così”, non andare mai a letto — vacci qualche volta, ma stai sempre con gli occhi aperti. […] Io ho il bisogno di andare a vedere, di andare a cercare. Mia madre mi diceva di passarci attraverso il concetto cattolico di “colpa”, io non ci arrivo così, io passo attraverso il caso artistico, il bisogno anche di dire: “Come può un attore finire di fare il proprio lavoro ed essere un attore?! Deve incominciare a diventare malato, deve incominciare ad essere carcerato! Quand’è che si capirà — mi dicevo allora, quasi presagendo — che i mestieri non sono scollegati?! Quand’è che si capirà che un politico non può non essere un malato, non può non essere un carcerato, non può non essere una madre, non può non essere un figlio, non può non essere un soldato?! Devi fare quel mestiere lì! Perché non ti puoi interessare quando ti capita!”. Allora, è tutto collegato…questo granché! È quello lì! Non è che la morte ti interessa alla fine della vita, quando ci sei vicino…perché, quando nasci non sei vicino al fine vita? Vedo dei bambini di due mesi in passeggino, chiedo “Quanti mesi ha?” e la tata mi dice: “Due mesi di vita”, poi vedo degli anziani in carrozzina, chiedo alla badante: “Quanti mesi ha?” e mi dice: “Due mesi di vita”…e allora! Vedi?! Il concetto del tempo…! Qualcuno mi disse da piccolo — forse ero io: “La bara è una culla che non dondola!”. Cioè, che cosa devo aspettare ancora?! La rivoluzione la devo fare io! In questa vita ho capito che non puoi essere solo padre, non puoi essere solo — Spirito Santo —…cioè, devi essere altre cose! Devi essere Tutto! Non puoi dire: “Beh adesso sono attore, vivo la mia vita, sono padre, ho dei figli…” sono figli che puoi perdere in un attimo! Gli industriali degli anni ’60 si sentivano degli dei quando producevano grandi quantità di denaro, di automobili…poi gli moriva un figlio e si sentivano delle merde. Allora io studiavo e dicevo: “Ma perché non ti senti una merda quando produci e basta, e non ti senti un dio quando muore qualcuno e quando vieni privato di qualcosa? C’è qualcosa che devi osservare della vita!”. Non puoi pensare veramente sempre alla tua condizione! “Noi” è “ioᴺ”, “io un numero infinito di volte”! Molti mi chiedono quando ho iniziato a giocare con le parole, ma non ho mai incominciato! È il pensiero che mi interessa, non le parole! È cercare di collegare pensiero ed anima! Anche la parola che io amo di più, che non posso lasciare alla Chiesa…la parola “anima” non la posso lasciare alla Chiesa e basta! La lascio all’artista, la devo lasciare all’artista anche! La devo lasciare a me! Mi dicono: “Ai tempi tuoi c’era un’altra politica, come si fa a cambiare la politica?”, deve cambiare l’anima! Un uomo che mette nel cemento armato un bambino è sì una questione politica, delinquenziale, ma è di “anima”! Com’è possibile che un uomo, un essere, abbia questa mancanza di spiritualità?! È un concetto profondo! Non di religione! Com’è possibile che la gente non si renda conto che non può essere tutta gestione economica, amministrativa, della vita?! Ci vuole un ottimo amministratore delegato che sia un poeta! Qui mancano i poeti, non gli economisti! Qui mancano i poeti! […] Un partito politico nuovo è il nostro governo interiore, il Parlamento interiore! Io decido tutti i giorni! Io ho capito che io voto tutti i giorni! Quando vedo un handicappato, in quel momento voto, sto votando! Non posso aspettare che facciano una legge su questo!

Drògati di esseri umani

Chi segue questo blog da un po’ di tempo avrà notato la mia tendenza a parlare di rapporti umani e di quanto sia importante stabilire una connessione profonda con altri individui, al fine di vivere in modo gratificante; parallelamente ho spesso affrontato la pericolosità del comfort eccessivo quale fattore deleterio per rapporti sociali e foriero di insoddisfazione, suggerendo pratiche meditative come antidoto al nostro stile di vita nevrotico (benché sappia che non è l’unica strada percorribile).

Oggi mi sono imbattuto in un video video del canale YouTube Kurzgesagt 1 che, parlando della dipendenza da droghe, finisce per trattare proprio questo argomento a me tanto caro. Ho pensato di proporlo qua sul blog (ci sono persino i sottotitoli in Italiano, tra le opzioni).


  1. Dovete iscrivervi. Fidatevi. 

Io non parlo delle cose che non conosco

Non so se conoscete qualche film di Nanni Moretti, personalmente non ne ho mai visto uno — nonostante in molti li elogino — tuttavia mi è capitato spesso di guardare con piacere degli spezzoni su Youtube. Uno di questi mi è rimasto particolarmente impresso, lo posto qui di seguito.

La trovo una scena geniale: mette alla berlina in modo impeccabile la tendenza che le persone hanno di dare un’opinione su tutto, nella convinzione che questa sia valida. È un video che potrebbe essere convertito in gif animata da utilizzare a pioggia in gran parte delle discussioni che nascono sui social network, sempre che qualcuno non ci abbia già pensato. Ecco, mi trovo d’accordo con la frase “Io non parlo delle cose che non conosco”, però poi mi fermo un attimo a pensare e mi chiedo “ma io cos’è che so, in definitiva?”.

Più il tempo passa, più mi rendo conto che non so nulla; più approfondisco un argomento, più mi sento ignorante in merito. A volte accetto serenamente questo stato di cose e ridacchio tra me e me, constatando il desiderio di trovare certezze in un Universo imprevedibile, altre volte invece mi sento schiacciato dal peso della mia inadeguatezza. Paragonarsi agli altri è come giocare alla roulette russa e lo so bene, ma non posso fare a meno di guardarmi attorno e notare persone che hanno le idee chiare riguardo i più disparati argomenti; spesso, me ne rendo conto, questa è più una tragedia per loro che per me: se ti esprimi con massima certezza riguardo un ampio numero di argomenti è perché non possiedi sufficienti informazioni da renderti conto della loro complessità.

Ci sono poi quelle rare volte in cui mi sento abbastanza ferrato su una questione, ma capita non venga preso sul serio perché il punto di vista che sto esprimendo riguarda qualcosa che non fa parte del mio percorso formativo. A volte sono io stesso a non prendermi sul serio, dal momento che aver letto un paio di libri e qualche articolo su un argomento, non mi rende necessariamente un conoscitore della materia. È un catch 22 e da quel che vedo in giro è aggirabile soltanto ignorando la sua esistenza o essendo convinti a priori di avere una buona conoscenza; curiosamente mostrarsi arroganti e saccenti sembra pagare, in molte circostanze.

Certo è che non ci sono soltanto impostori a questo mondo ed è qui che il mio disagio si intensifica. Ciò che mi disturba sopra ogni altra cosa è il non avere alcuna competenza: a fine mese compio 25 anni e la sola cosa che posso dire di avere imparato è di non sapere nulla. La società di cui — volente o nolente — mi ritrovo a far parte è basata sulla specializzazione degli individui, premia le competenze approfondite in un campo specifico; io invece mi trovo soltanto ad avere una buona cultura foraggiata da un’insaziabile curiosità, caratteristiche senza dubbio encomiabili, ma che mi lasciano nella condizione di sapere un po’ di tutto e tutto di nulla. Nella mia situazione sarò mai in grado di pagarmi le bollette? Chi lo sa.

Pensando a ciò che faccio e a ciò che potrebbe aspettarmi, mi viene in mente un’altra famosa scena di Moretti.

Un post che volevo scrivere da un po’

C’è un argomento che mi sta abbastanza a cuore e di cui sento da un po’ il bisogno di parlare, ma finisco sempre per demordere. Questo perché vorrei elaborare un discorso composito che possa dare vari spunti di riflessione e nel quale far rientrare anche la mia esperienza, ma purtroppo ogni tentativo si è rivelato terribilmente mediocre, quando non goffo. Siccome però l’esigenza di scriverne sta crescendo, ho deciso di fare spallucce ed incentrare il discorso interamente su di me, parlando di qualcosa che vivo come un problema e sperando in tal modo di esorcizzarlo.

Su questo blog do voce ai miei pensieri cercando di farlo nel modo meno banale possibile, così da allenare un po’ sia la mia scrittura che le mie capacità di ragionare. I post hanno a che fare con gli interessi che coltivo e le esperienze che compio, evidenziano una costante evoluzione del mio pensiero e mi piace considerare questo spazio web come una sorta di mappa che mostra la mia evoluzione; non è detto, però, che Jacopo Ranzani sia sempre fedele a questa rappresentazione.

Capita che alcune persone, colpite dai miei post, mi scrivano per chiedermi consigli di vario genere. Sono ben felice che ripongano fiducia in me e metto impegno nelle mie risposte, ma allo stesso tempo mi rivedo in loro e so che non sono in alcun modo nella posizione di predicare. Analogamente, quando incontro dal vivo persone con cui prima avevo avuto interazioni sono su Internet, mi trovo leggermente a disagio perché l’immagine che loro hanno di me non è completa; per qualche assurdo motivo ho paura di deluderle.1 So che non è solo frutto di mie elucubrazioni: uno di questi ragazzi, dopo un mio discorso abbastanza impegnato, mi ha detto: “Ah ecco! Iniziavo a chiedermi come mai in molti ti definiscono un filosofo!”. Questo mi mette un po’ a disagio, sinceramente.

Ho la sensazione che chi mi legge pensi a me come ad una specie di maestro zen, un filosofo saggio e calmo. Stronzate. Sono un ragazzo di 24 anni che cerca di vivere al meglio la propria vita, risolvendo vari casini e provando a non uscirne matto. Questo significa che sperimento alti e bassi più o meno come tutti, che ho le mie insicurezze e che a volte perdo completamente la bussola. Posso aiutare gli altri ed essere persino bravo nel farlo, ma quando sono io a trovarmi sotto il giogo basta davvero poco per farmi entrare in crisi; non c’è nulla di strano in questo: come mi piace spesso ripetere, siamo tutti sulla stessa barca.

Mi preme mettere questo discorso nero su bianco perché sto notando che il mio blog dà voce principalmente alla mia parte “ispirata” e “costruttiva”, facendo intravedere troppo poco ciò che le permette di esistere: l’ordine nasce dal caos e la compassione si fonda sulla sofferenza più nera. Voglio distruggere un’immagine troppo armoniosa di me perché può facilmente diventare un fardello, perché potrei incatenarmici, appiattendo le varie sfumature di me stesso in nome di una coerenza assolutamente artificiale. Posso scrivere un bellissimo post su come gestire al meglio la rabbia e, due minuti dopo la pubblicazione, litigare furiosamente in famiglia: ciò non fa di me un ipocrita, ma semplicemente un essere umano.

È molto difficile (forse è impossibile) sfuggire alle etichette: quando non sono gli altri ad attaccarle, ce le si cuce addosso da soli senza volerlo. Ogni tanto è bene affermare la propria indipendenza da tali costruzioni mentali, spero di esserci riuscito con questo ennesimo sproloquio.


  1. Ciò lascia intravedere alcune tendenze narcisistiche da parte del sottoscritto. 

Uno sconosciuto è un amico che non hai ancora incontrato

Oggi ho pensato bene di provare ad invertire per una manciata di minuti il negativity bias dei miei lettori. Due settimane fa sono incappato su questo post del sito “Favrify”, in cui l’autrice ha voluto raccogliere foto di gente che sorride da (quasi) tutti i Paesi del mondo. Osservare 196 volti amichevoli, appartenenti a persone di ogni etnia, colore e religione è davvero in grado di dare una svolta positiva alla giornata; soprattutto se accompagnati da una celestiale cover di “What a wonderful world”, come nel video introduttivo che posto di seguito.


Smile, without a reason why

Così diversi, così uguali

Ogni giorno che passa mi rendo sempre più conto di come concetti che riteniamo banali, scontati al punto da non meritare quasi considerazione, abbiano invece un’importanza spesso sottovalutata. Pensate se qualcuno vi facesse notare che, indipendentemente da quanto il vostro 2014 sia stato difficile (se lo è stato), non è il caso di lagnarsi troppo perché ognuno ha i suoi problemi, spesso altrettanto gravi o addirittura peggiori. Sicuramente direste che quella persona manca del necessario tatto — e potreste avere ragione — e che, sebbene la sofferenza sia universale, averlo presente non allevia in modo sostanziale il malessere di chi si trova a vivere un momento difficile. Sarebbe però necessario porre più attenzione a queste supposte banalità, invece di sbottare con un “grazie al cazzo”: tutti sono sulla stessa barca, e in un modo che spesso passa inosservato.

Di recente ho avuto l’opportunità di confrontarmi con diversi miei coetanei in un modo in cui non mi era mai capitato prima e ho potuto constatare quanto persone diverse possano essere assolutamente simili nei loro bisogni. È stato scioccante rivedermi nelle problematiche di un mio amico che sta camminando sul sentiero dell’autodistruzione e avere l’opportunità di tendergli una mano, pur consapevole di quanto limitata sia l’utilità dei miei sforzi. E che dire di quando ho visto un ragazzo, da sempre ritenuto l’opposto rispetto a me, combattere contro gli stessi spettri che cerco di tenere a bada giorno dopo giorno? Vi assicuro che persino chi sembra avere un’incrollabile fiducia in sé stesso e consegue un obiettivo dopo l’altro, in realtà si sta confrontando con problematiche del tutto analoghe alle vostre; le armature si indossano per ovviare alla vulnerabilità della carne

Ciascuna delle persone con cui ho avuto modo di parlare ha ideato i propri stratagemmi per crearsi un sentiero nella selva della Vita, guarda caso il mio modus operandi non assomiglia a nessuno di quelli che ho visto, dimostrando anch’esso la sua peculiarità. Il punto è che non esiste il modo giusto di vivere: ognuno trova il proprio il sentiero e fa i conti con le conseguenze della sua scommessa; perché alla fine — in modo più o meno consapevole — ciò che facciamo è soltanto tirare a indovinare. Quando poi ci confrontiamo con chi ha deciso di seguire un sentiero molto diverso magari avvertiamo della tensione, del disagio fisico, come se qualcosa di molto importante per noi stia correndo un pericolo: la visione che abbiamo del mondo rappresenta la nostra interfaccia principale. Alcuni possono sviluppare un sentimento élitarista perché ritengono il loro propositi più nobili della media di quelli altrui, altri ancora possono leggere questo mio scritto e concludere che le mie parole sono solo le seghe mentali di una persona priva di qualsiasi senso pratico.

Questo però è solo uno scontro tra Ego, bisogna superare il più possibile le nostre differenze per vedere la similitudine alla base: tutti noi abbiamo paura (avevo già affrontato l’argomento), siamo terrorizzati, stiamo giocando il tutto e per tutto senza alcuna garanzia che il nostro investimento dia i suoi frutti. Forse sono troppo idealista, ma sono convinto che condividere le proprie più profonde preoccupazioni sia un metodo efficace per alleggerirne il peso; anche se, alla fine, non c’è un modo per barare al Gioco: si può soltanto continuare a giocare.

Una domanda da non fare mai


Il ruolo che, volenti o nolenti, ci troviamo ad occupare può venire avvertito come un giogo, quando diventa il principale metro di misura per il nostro valore come esseri umani. “Tu non sei il tuo lavoro” urlava Tyler Durden durante la sua crociata contro la Società delle Nevrosi; è una frase così banale, ovvia, eppure tutti se ne dimenticano, diventando oggetto di una pressione sociale che loro stessi contribuiscono ad alimentare. Persino io mi trovo a chiedere meccanicamente: “che lavoro fai?” oppure: “che cosa studi?”, ben sapendo che quando mi trovo nei panni di quello a cui vengono rivolte tali domande finisco immancabilmente per sentirmi a disagio.

Da oggi si cambia, d’ora in poi seguirò il suggerimento di Maddalena e chiederò: “quali sono i tuoi interessi?”; che poi è quello che davvero mi preme sapere quando conosco qualcuno.