È curioso quanto spesso ci si trovi a cullarsi in un bozzolo di pensieri melodrammatici. Un po’ come quando abbiamo male a un dente e continuiamo imperterriti a stuzzicarlo con la lingua, pur sapendo che ciò non serve a nulla se non ad aumentare il fastidio, allo stesso modo rimuginiamo su situazioni spiacevoli, creiamo film mentali, il tutto esclusivamente per poterci lamentare del dolore da noi stessi inflitto: il dramma ci piace da impazzire, ci fa sentire importanti.
Mi è capitato più volte di lagnarmi perché “è difficile trovare qualcuno che mi capisca”, ma solo di recente ho iniziato a vedere questo pensiero per quello che è: vittimismo. Tale considerazione è strettamente imparentata con una lamentela diffusissima che praticamente chiunque ha espresso almeno una volta, ossia: “perché capitano tutte a me?!”. Non c’è un perché e — soprattutto — non capitano solo a te: tu non sei il centro del mondo, nonostante sia portato a pensarlo. Gli eventi capitano e se li si rifiuta additandoli come ingiusti semplicemente perché non è ciò che si vuole (vittimismo), non si fa altro che aggiungere strati di sofferenza ad una situazione che già di per sé non è rosea. Rimane comunque difficile rinunciare alla culla dell’autocommiserazione, perché significherebbe correre il rischio di mostrarsi vulnerabili, di far vedere che abbiamo una paura fottuta.
Non è difficile “trovare qualcuno che mi capisca”, è difficile entrare davvero in contatto con una persona. Come si entra in contatto con qualcuno? Uscendo dalla corazza e mostrando le proprie vulnerabilità. È però qualcosa che deve avvenire da entrambe le parti: io posso anche spogliarmi di ogni travestimento, ma se l’altra persona non fa altrettanto è difficile che si instauri una vera connessione. Eppure qualcuno deve fare il primo passo.
L’alternativa è il solito cozzare di armature.