Scribo, ergo sum

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Ultimamente scrivo poco e in effetti mi sembra di “essere”, di vivere, meno di quel che dovrei. Se non metto nero su bianco i miei pensieri, la mente si ingolfa e i sensi si attenuano: l’impressione è di essere immersi in una cortina di nebbia che puoi diradare un po’, con qualche sforzo, ma mai dissolvere completamente. Scrivere è per me un bisogno fondamentale.

L’odio si adatta a tutto

X-Men

 

La formazione primigenia dell’identità avviene tramite un processo chiamato identificazione contro: definiamo noi stessi come “ciò che non è altro”. Questo meccanismo si estende al gruppo sociale di appartenenza, tramite cui si sviluppa un’identità collettiva che contiene ed influenza quella individuale; siamo spinti al conformismo, a compiacere i nostri simili, al punto che un gruppo isolato arriva ad avere una mentalità quasi perfettamente omogenea.

I gruppi però raramente sono isolati, per questo si arriva a distinguere tra in-group e out-group: il primo rappresenta i valori di riferimento (ciò che è bene), mentre il secondo rappresenta il “diverso” e potenzialmente minaccioso (ciò che è male). La maggior parte dei conflitti, se non proprio tutti, ricalca questo schema di base. In una società abbastanza complessa e stratificata si hanno vari gruppi di appartenenza, alcuni dei quali si sovrappongono, per cui è necessario avere gli strumenti — culturali e istituzionali — idonei a limare gli attriti e promuovere un livello accettabile di ordine.

Il sistema che al giorno d’oggi è assunto a modello vede uno dei punti chiave nella tutela di determinati diritti e libertà considerati fondamentali e votati all’inclusione. Così come i pesci che nuotano hanno difficoltà a comprendere cosa sia l’acqua, noi esseri umani ci lasciamo intorpidire dall’abitudine e ci accorgiamo di ciò che realmente è importante solo quando iniziamo a perderlo. Il muro più solido può crollare come un castello di carte facendo leva su di una minima crepa, per questo è importante che determinati diritti siano estesi a tutti e considerati inviolabili indipendentemente dalle circostanze.

Finché — almeno formalmente — siamo tutti uguali (leggi: abbiamo uguali diritti) godiamo di una complessiva immunità di gregge nei confronti di soprusi provenienti da chi ha una posizione di potere, ma nel momento in cui alcuni diventano più uguali degli altri ha inizio un effetto domino che prima o poi finirà per colpire anche coloro che inizialmente, magari scherzando, auspicavano tale cambiamento.

Il problema del promuovere l’esclusività in nome di un “bene più grande” è che si tratta di una visione estremamente miope e sottende un concetto così fumoso da poter essere adattato per giustificare ogni aberrazione; sfugge presto di mano e produce effetti inizialmente non previsti. Misure simili vengono prese in considerazione quando si è di fronte ad una minaccia e questo è più che comprensibile, ma è proprio quando ciò a cui teniamo di più viene minacciato che bisogna astenersi dal reagire di istinto.

Quando le minoranze sono discriminate istituzionalmente, tutti noi ci troviamo in una posizione precaria.

 

Uno spreco di energie

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Mi sono spesso trovato davanti a quest’immagine dell’introverso come di una persona che spende le proprie energie quando è in mezzo alla gente e si ricarica quando rimane per i fatti propri, mentre per un estroverso funziona nel modo opposto. Non ho letto libri sull’argomento e non mi sono fermato a riflettere se sia effettivamente così, ma — essendo io stesso introverso — mi sono rivisto in questa sommaria descrizione: a volte essere in compagnia di altre persone (specie se sconosciute) lo trovo drenante.

La mente umana, poi, è davvero curiosa: vuole talmente tanto trovare un senso a ciò che sperimenta, che crea all’istante collegamenti dall’apparente logica impeccabile, di modo da avere una spiegazione per tutto; gran parte dei nostri bias hanno origine da questo difetto congenito. Se ci si trova in difficoltà si pensa sempre vi sia qualcosa di sbagliato, si cerca questo elemento di disturbo e si stabiliscono possibili rimedi. Nel caso degli introversi si spazia dal vittimismo all’elitarismo, passando per una visione romantica di questa inclinazione che sembra aver preso parecchio piede su Internet.

Qual’è l’interpretazione giusta? Non ne ho idea, però è da qualche tempo che ho notato un comune denominatore per queste situazioni di disagio: la paura. Quando porto l’attenzione al mio corpo1, noto una sottilissima e costante tensione muscolare, localizzata soprattutto sulle spalle, in cui hi riconosciuto un meccanismo istintivo di difesa. Ma difesa da cosa? Cosa può capitare di male ad un party o ad una cena di gruppo? Ci si può perdere in digressioni filosofiche su questo argomento, ma ciò non avrebbe alcun senso: sono meccanismi inconsci, condizionamenti caratteriali che non scompaiono grazie ad una mera presa di coscienza.

Ciò che ho scritto è frutto di un’osservazione compiuta su me stesso, quindi non posso certo formulare un giudizio universale, ma voglio invitare gli eventuali lettori introversi a verificare se c’è del vero in quanto dico. Nell’immagine iniziale, l’autore ha usato i Dissennatori della saga letteraria Harry Potter come analogia per quello che prova quando si reca alle feste, io voglio riportare per un attimo il locus of control all’interno, dicendo che il disagio potrebbe essere causato dalla nostra reazione all’evento e non dall’evento stesso: è normale sentirsi “svuotati di energie” se si passa tutto il tempo a difendersi e contrarre muscoli.

Detto ciò, l’introversione è anche e soprattutto un modo di pensare e relazionarsi, dunque il superamento di vari automatismi difensivi non credo comporterebbe un cambio radicale della personalità; tuttavia si potrebbe, forse, vivere con una maggiore serenità.


  1. Devo ringraziare la meditazione per questo genere di intuizioni. 

Rompi lo schema

Find the others
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Non sono (più) un fan del “non sei come loro” che fa da incipit all’illustrazione, trovo infatti che in qualche modo si sia tutti sulla stessa barca, la sola differenza è che alcuni sono più consapevoli di altri delle costrizioni a cui si sottopongono, dell’essere portati ad adattarsi ad un’immagine che rientri nella normalità. Bisogna sottolineare che per “normalità” si intende la normalità statistica, ossia il comportamento più diffuso; va da sé che tale comportamento può anche essere, a seconda dei casi, la peggiore modalità adottabile.

Bisogna mettere in discussione ciò in cui si crede per poter crescere e maturare, bisogna essere senza forma per poter assumere qualsiasi forma, non per niente l’acqua — che si adatta ad ogni situazione — è il soggetto preferito delle metafore Zen. Rinunciare alle proprie certezze, uscire dall’armatura, apre nuovi scenari e permette un vero incontro con altre persone, incontro che potrebbe cambiarti la vita. Per fare questo, però, è necessario rivelare le proprie vulnerabilità.

Uscire dagli schemi è tremendamente importante, comportarsi come formiche significa rinunciare a vivere in virtù di un comfort che non esiste.

Il mondo nella nostra testa

Some People
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Guardati allo specchio. La vedi quella immagine? Poco importa se quel volto suscita in te sentimenti di stima, vergogna, preoccupazione, o tutti quanti assieme: l’individuo che stai fissando è tutto il tuo mondo. È l’unica persona che puoi dire di conoscere realmente (anche se, forse, la conosci meno di ciò che credi), l’unica persona che è sempre stata con te e che — puoi star sicuro — rimarrà fino alla fine, l’unica persona di cui sai con certezza pensieri ed opinioni. Quella persona è il perno di tutta la tua esistenza, la sola di cui puoi verosimilmente dare una valutazione complessiva.

Per ognuno di noi è così. Eppure continuiamo a proiettarci sugli altri, negli altri; continuiamo imperterriti ad attribuire a terze persone una serie di pensieri, atteggiamenti, modi di essere, categorizzazioni, spesso senza neanche mettere in dubbio il nostro giudizio. Che titolo abbiamo per farlo? Sarebbe un azzardo anche se conoscessimo per filo e per segno la loro storia, figurarsi quando — come spesso accade — ci basiamo sulla singola diapositiva catturata dai nostri occhi e passata sotto il filtro di esperienze passate, pregiudizi e comun sentire. Stabiliamo come una persona è e, talvolta, persino come o cosa diventerà.

Non ha senso dare giudizi sulle persone, perché nessuno è sempre in un modo, e spesso non capiamo nemmeno ciò che si trova sotto i nostri occhi. Definire un individuo come “buono” o “cattivo”, significa condannarlo ad essere sempre identico a sé stesso;1 è come compiere un omicidio: nella nostra mente noi uccidiamo qualcuno, per sostituirlo con l’immagine che ci siamo creati di lui, tramite l’assolutizzazione delle nostre percezioni.

Questo comportamento è figlio della malsana ossessione che abbiamo per noi stessi, la stessa ossessione che alimenta lo Spotlight Effect e rende la nostra vita quotidiana sempre più stressante. Temiamo il giudizio altrui, eppure siamo i primi a giudicare il prossimo: è un cane che si morde la coda.

È bene tener presente il confine tra pensiero e realtà.


  1. Questa frase è tratta da un più ampio discorso che una monaca zen ha tenuto allo scorso Festival dell’Oriente, a Milano.