Genealogia della violenza maschile, tra combustibili e acceleranti

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo del Post intitolato “Perché la maggior parte delle violenze è commessa da giovani maschi?”, in cui viene riportata una ricerca condotta da un professore universitario sulla violenza maschile. La ricerca mette in risalto come la necessità di affermare la propria virilità — percepita come impellente nei giovani maschi — sia alla base di una spiccata aggressività e della propensione alla violenza. La radice della questione non è solamente culturale, ma ha anche una importante componente biologica: più alti sono i livelli di testosterone, più probabili sono i comportamenti violenti. Significativa è questa frase contenuta nell’ultimo paragrafo:

[…] secondo McAndrews, la violenza tra i giovani maschi è più diffusa tra quelli che non riescono a ottenere il rispetto degli altri e a costruirsi uno status sociale, e di conseguenza a guadagnare quello che McAndrews definisce «l’accesso alle donne».

La ricerca è senza dubbio interessante, ma la si potrebbe benissimo inserire nel filone di quegli approfondimenti atti a dimostrare che l’acqua calda è, a tutti gli effetti, calda: ribadisce ciò che molti quantomeno sospettavano, senza aggiungere granché al dibattito. Al netto dei fattori ambientali — mai da sottovalutare — vi sono chiare differenze tra uomini e donne, fra cui la predisposizione maschile alla competizione per guadagnarsi il rispetto dei propri pari e migliorare il proprio status. La ricerca del professor McAndrews si concentra sull’effetto che il solo maneggiare armi ha sui livelli di testosterone, specie se maneggiate da individui “disadattati”, a mio parere però quelle osservazioni dovrebbero essere integrate da un altro interessante dato: il coefficiente di Gini.

Per chi non lo sapesse, il coefficiente di Gini è utilizzato in economia per misurare la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Una ricerca condotta analizzando i dati raccolti in quaranta Paesi nel periodo tra il 1962 e il 2008, ha evidenziato una significativa correlazione con la frequenza delle “morti violente”. Prima di quest’indagine era convinzione diffusa che fosse la povertà assoluta ad essere foriera di criminalità (la disperazione porta a delinquere), ma alla luce dei nuovi dati possiamo affermare che il maggiore problema risiede nella povertà relativa: se io ho i mezzi per sopravvivere, ma tu vivi molto merglio di me, allora sono più incline ad avere comportamenti aggressivi.

È innegabile una propensione maschile alla violenza, ma è altrettanto vero che a gettare benzina sul fuoco sono le diseguaglianze sociali — in primo luogo economiche. Come ribadito poc’anzi, la competizione per lo status è centrale per gli uomini, tant’è che tutti, in un modo o nell’altro, vi partecipano. È però essenziale che le regole del gioco vengano percepite come eque: se le disparità sono tali da far percepire come essenzialmente inutile il mio impegno per raggiungere la vetta, allora subentra la frustrazione. Quando il gioco appare truccato, vengono meno gli incentivi a seguire le regole e cresce il desiderio di ribellione, di cui la violenza è istintivo sfogo.

Seguendo la scia di questa tematica, vale forse la pena spendere due parole un po’ provocatorie sul tema caldo di questo periodo: lo stupro. Immedesimatevi, per un attimo, in un ragazzo nel pieno dei suoi anni che è costretto a lasciare tutto ed emigrare verso un Paese di cui sa poco o nulla e in cui verosimilmente non ha contatti. Vi trovate allo scalino più basso della gerarchia sociale, indipendentemente da competenze o qualità, soltanto per il fatto di essere un immigrato; verosimilmente dovete quotidianamente affrontare varie forme di discriminazione (se non vero e proprio razzismo), alimentati anche da personalità istituzionali del Paese che vi ospita. Siete frustrati, arrabbiati, disperati, sfruttati per paghe così basse da rendere le sirene della criminalità sorprendentemente seducenti.

A tutto ciò si aggiunge un dettaglio non da poco: le vostre chance di trovare partner sessuali sono molto scarse, se non quasi inesistenti. Quest’ultimo è un aspetto da non sottovalutare, in quanto il sesso è da sempre il principale incentivo alla sopravvivenza: ognuno di noi è il risultato di una ininterrotta catena riproduttiva che ha origine dal primo organismo unicellulare. Non essere in grado di concretizzare questi istinti porta ad una frustrazione indicibile, che si inserisce in un contesto già da sé precario in cui la tendenza al disprezzo delle regole è incoraggiata. Unendo tutto ciò ad un substrato culturale che spesso e volentieri vede la donna in una posizione subordinata e quasi priva di diritti, possiamo capire il perché le percentuali di stupratori tra i giovani immigrati sia così elevata. Per citare le poco felici parole di Debora Serracchiani: lo stupro commesso da un profugo è forse “più grave“ (in quanto ospite), ma è senza dubbio “più intelligibile”.

Il ricorso alla biologia per la spiegazioni di fenomeni umani è senza dubbio importante e troppo poco considerato nel dibattito pubblico. Se però vogliamo davvero comprendere le cause di certi fenomeni ed ipotizzare soluzioni, bisogna scongiurare le iper-semplificazioni e contestualizzare i fenomeni che si osservano. Solo così si può evitare di stigmatizzare e fossilizzare determinati tratti in una sorta di “Peccato Originale” 2.0, agendo invece su elementi che possiamo in qualche modo controllare per scongiurare pericolose derive.

La Biblioteca di Babele

Non so quanti di voi conoscano la Biblioteca di Babele, quindi faccio una breve introduzione. Si tratta di un posto descritto da Jorge Luis Borges nella sua omonima opera; lo scrittore descrive una struttura con estensione infinita, composta da sale esagonali, ciascuna delle quali ha quattro pareti adibite a libreria, con cinque scaffali ciascuna e 32 volumi di 410 pagine in ogni mensola; ciascun libro di questa biblioteca presenta sequenze di caratteri senza ordine, in tutte le loro possibili combinazioni. Nel racconto gli uomini si muovono con affanno in questo luogo alla ricerca del libro contenente la Verità.

Ho deciso di scriverne perché a quanto pare qualcuno ha creato un sito web con lo scopo di emulare questa biblioteca: Library of Babel. Tramite un algoritmo sono state generate e raccolte in volumi tutte le possibili combinazioni delle 26 lettere dell’alfabeto inglese, con l’aggiunta di spazio, virgola e punto; l’intero catalogo è liberamente consultabile è ha come unico fastidioso limite l’assenza delle lettere accentate (non previste dalla lingua Inglese), il che castra un po’ l’esperienza se si prova a cercare del testo in lingua italiana. Usando la funzione di ricerca potete trovare ogni frase che la vostra mente sta pensando, generata automaticamente dal sistema molto tempo prima che voi abbiate iniziato ad articolarla. La frase che ho appena scritto, ad esempio, si trova nel volume intitolato “dbj,ljviawt”, a pagina 390.

Nonostante l’estrema banalità del principio alla base del sito, non posso fare a meno di provare un misto di ammirazione ed irrequietezza ad ogni ricerca. Ricordate la teoria secondo cui delle scimmie che battono a caso di tasti di una macchina da scrivere, dato un tempo sufficientemente lungo, sarebbero in grado di comporre tutte le opere di Shakespeare? Ecco, avete sotto gli occhi la dimostrazione pratica della veridicità di questa ipotesi (che a quanto pare ha origine nella Grecia antica, tanto per cambiare1).

All’inizio volevo strutturare questo post come una riflessione su creatività ed originalità, ma poi ho desistito perché mi sono reso conto che l’impianto era un po’ troppo pretestuoso; una volta ogni tanto è bello anche semplicemente fare una segnalazione e basta, senza dilungarsi troppo oltre.

Quindi che dire ancora…buona ricerca!


  1. Un’affermazione molto diffusa in ambito accademico e che ho sentito fare dal vivo al Professor Umberto Galimberti può essere così riassunta: “Il picco della civiltà Occidentale è stato raggiunto nella Grecia antica, da lì in poi si è soltanto regrediti”. All’inizio mi sembrava quasi oltraggiosa, ma adesso inizio a credere che ci sia un fondo di verità. 

Ecco perché continuerò ad usare iPhone

Chi mi conosce sa che c’è stato un tempo in cui mi sarei tranquillamente potuto definire un Apple Evangelist, una di quelle persone talmente appassionate dei prodotti Apple da essere capaci di parlarne per ore senza stancarsi. Tessevo le lodi degli iGadget, deridendo Microsoft, compatendo Linux e snobbando Google; talvolta il mio punto di vista era sensato, altre volte decisamente distorto.

Fortunatamente questa fase si può dire superata: sono ancora generalmente molto soddisfatto di essere utente Apple, ma non ritengo più che i suoi prodotti siano sempre e comunque migliori di quelli concorrenti, li utilizzo perché mi piacciono, trovo appagante usarli e hanno tutte le funzioni di cui ho bisogno. Non nascondo però di essermi fatto più di uno scrupolo, un anno fa, ad acquistare l’iPhone 6: 840€ sono tanti per un telefono, troppi contando che non posso più definirmi un appassionato di tecnologia. In testa mi balenavano tutti i modi alternativi in cui potevo spendere quella cifra: “Posso viaggiare, posso tuffarmi in un mare di libri!”, mi dicevo; avrei potuto acquistare uno dei molti validi smartphone Android e risparmiare un sacco di soldi.

Alla fine ho ceduto e l’ho comprato, forse per abitudine, forse per supposta necessità. Quel tarlo però non mi ha mai del tutto abbandonato e ogni tanto, mentre fisso lo schermo in cerca di nuovi stimoli, ho una strana sensazione che mi prende lo stomaco e risale per la gola: rimpianto, occasione sprecata. Oggi però, riflettendo sulla questione, ho avuto una sorta di epifania e ora ho la certezza che anche il mio prossimo telefono sarà un iPhone, così come il successivo. È di questo che voglio parlare: come mai questo repentino cambio di posizione?

Ho detto in apertura che non sono più un fanatico di Apple, perché ora la vedo per quello che è: un azienda votata al profitto, esattamente come la sua concorrenza; Tim Cooks può dirsi preoccupato riguardo la mia custumer satisfaction, ma alla fine è soltanto un mezzo per arrivare al mio portafogli. I soldi sono quello che davvero conta, è uno degli effetti collaterali di essere nati in una società capitalistica. Questa è chiaramente un’ovvietà, eppure come tutti i cliché viene trascurata e si finisce per perdere di vista alcune dinamiche di assoluta importanza, ci si dimentica cos’è l’acqua, per citare David Foster Wallace.

Guardando al mercato degli smartphone troviamo diversi produttori, ma se ci concentriamo sul Sistema Operativo la fanno da padrone due compagnie: Apple e Google, la prima è storicamente focalizzata sui prodotti di consumo, mentre la seconda sui servizi online1. È noto che Big G consenta l’ultilizzo dei propri servizi in cambio delle informazioni appartenenti all’utenza, dati che vengono poi venduti all’industria pubblicitaria fruttando grossi guadagni. Questa è la versione molto semplificata del business model di Google, la realtà è decisamente più complessa2 perché le informazioni costituiscono un capitale a sé stante, strettamente correlato a quello monetario; informazione è potere. I dati raccolti vengono usati per migliorare i servizi offerti, vengono venduti ad un ampio numero di acquirenti, ma anche occasionalmente forniti ai governi — come dimostra lo scandalo relativo all’NSA. Posso passare una giornata pensando a vari modi in cui far fruttare un’insieme di dati e sicuramente non mi verrebbero in mente tutte le possibilità: le informazioni sono tremendamente versatili e questo dà a Google un potere enorme.

Don’t be evil”, recita il vecchio motto di compagnia. Anche a far finta di crederci, c’è poco da stare allegri perchè nella migliore delle ipotesi i dati dell’utenza vengono usati a fini commerciali e questo, ai miei occhi, ha un che di morboso. Le informazioni su di me costituiscono una parte della mia identità, il che significa che io sto “vendendo” me stesso a Google e non ho alcun controllo su quello che la compagnia deciderà di fare con quei “frammenti” di me. La questione relativa alla privacy, che di questi tempi preoccupa almeno tante persone quante sono quelle che lascia pericolosamente indifferenti, ha molte implicazioni perché strettamente legata alla nostra identità, alla nostra libertà; io rifiuto di affidare ciò che mi rende umano ad una azienda votata al profitto!

Il discorso appena fatto potrà sembrare fumoso ed astratto (ho questa tendenza, purtroppo), quindi voglio fare un esempio concreto. La scorsa estate un gruppo di hacker ha sottratto le informazioni degli iscritti al noto sito di incontri Ashley Madison, minacciando di renderle pubbliche se il portale non fosse stato chiuso. Come era prevedibile la minaccia è rimasta inascoltata, al che gli hacker hanno reso pubblici nomi, indirizzi email, domicilio, transazioni e dati di vario genere appartenenti a tutti gli iscritti. Una situazione simile sarebbe spinosa per chiunque, ma lo è stata in particolare per quelle persone di orientamento omosessuale, che si erano serviti della riservatezza garantita da quel sito per potersi incontrare in luoghi dove avere rapporti intimi con un membro dello stesso sesso è reato capitale. Un utente di Reddit ha portato l’attenzione al problema con un thread intitolato: “I May Get Stoned to Death for Gay Sex (Gay Man from Saudi Arabia Who Used Ashley Madison for Hookups)”.

L’orientamento sessuale di una persona è parte della sua identità, così come i suoi gusti in fatto di abbigliamento, le sue idee politiche, e tutto ciò che costituisce la sua visione del mondo; tutto questo può essere compresso in un insieme di dati utilizzabili in tantissimi modi, molti dei quali non riesco nemmeno ad immaginarmeli. Vorrei credere di non aver nulla da temere, dal momento in cui vivo in un regime democratico che garantisce un ampio numero di diritti e libertà, ma la verità è che non è così, basti pensare alle rivelazioni di Edward Snowden e ad Hacking Team! Senza contare che, per quanto lo status quo tenda a perpetrare sé stesso, non possiamo permetterci di dare per scontata l’attuale configurazione della realtà soltanto perché è quella con cui abbiamo sempre avuto a che fare. Potrebbe anche darsi che la polarizzazione del conflitto tra ISIS e Occidente porti ad una presa del potere da parte dei partiti di destra estrema, con conseguenze deleterie per la libertà individuale — come peraltro avvenne in seguito all’11 settembre.

Non posso evitare di lasciare tracce nel Web e sarebbe poco pratico (impossibile?) fare completamente a meno di Google, ma in un mondo in cui gli smartphone sono sempre più importanti per la vita quotidiana, preferisco scegliere i prodotti di una compagnia che si fa pagare alla vecchia maniera e considera la tutela alla privacy uno dei suoi cavalli di battaglia, piuttosto che gettarmi verso un’idrovora di informazioni quale è Google. Ecco perché rimarrò utente Apple, finchè mi sarà possibile.3


  1. Ed è dannatamente brava in questo campo, Apple ha solo da imparare. 
  2. Qua mi tocca alzare le mani al cielo e dichiarare la mia ignoranza, non ho idea di quale sia la stratega di Google nel dettaglio. 
  3. È bene notare che anche Apple ha avuto problemi con la privacy dei suoi utenti, quindi bisognerebbe sempre usare un minimo di buon senso quando si tratta di svolgere operazioni online. 

The Fappening

Internet sta lentamente modificando il concetto di privacy e il ruolo che ha nelle nostre vite. Questo è un bene: l’etica si è sempre modellata sulle esigenze delle varie epoche.

Il dibattito sulla privacy sta diventando sempre più rilevante e ciò che è accaduto oggi con l’evento battezzato “The Fappening” ha evidenziato la necessità di fermarsi a riflettere su di una questione che riguarda tutti, ma che nessuno sente fino al momento in cui non si trova nel ruolo della vittima.

Andiamo con ordine: cos’è “The Fappening”? In data odierna (1 settembre 2014) uno o più hacker hanno postato sul sito 4chan una copiosa serie di foto ritraenti diverse celebrità hollywoodiane completamente nude, spesso in pose erotiche e talvolta intente in atti sessuali. Queste immagini pare provengano dall’account iCloud delle persone interessate e hanno suscitato ovviamente moltissimo interesse, tanto che sul sito Reddit è stata aperta una sezione apposita i cui iscritti aumentano di minuto in minuto. L’hacker ha annunciato che le fotografie da lui divulgate sono solo una piccola parte di quelle in suo possesso, aggiungendo che molte altre seguiranno, non appena avrà ricevuto un adeguato pagamento in bitcoin; dal momeno che in Rete non si sta parlando di altro, suppongo sarà questione di poche ore prima della seconda ondata di immagini.

Come era prevedibile, oltre ad una irrefrenabile curiosità, l’evento ha suscitato diversi dibattiti di natura morale. Personalmente non credo ci sia nemmeno da discutere sulla liceità di questa operazione, ma dopo aver letto su Twitter la frase: “Se vuoi la privacy in rete non stare in rete. Se vuoi che le tue foto zozze non finiscano in rete non farti foto zozze.” penso sia il caso di spendere due paroline in merito.

Quello che è successo è qualcosa di illegale e le celebrità colpite non sono altro che vittime: il fatto che Internet stia limando il concetto di privacy non la rende all’improvviso irrilevante, né attenua in alcun modo un’azione criminale. Quando decidi di condividere delle foto su un social network hai bene in mente — in teoria — che svariate persone andranno a visualizzarle, magari anche gente a cui quella immagine non era specificatamente destinata, si tratta dunque di una tua scelta consapevole. Quando scatti fotografie nell’intimità delle tue mura di casa, per qualsivoglia motivo, non hai in mente di divulgarle. Poco importa se il tuo lavoro ti rende un personaggio pubblico, se hai appesa al collo l’etichetta “Very Important People” e i paparazzi fanno parte della tua routine quotidiana: se un fotografo irrompesse in casa tua per scattare foto di te mentre sei in bagno, avresti tutto il diritto di denunciarlo (e vinceresti facile in tribunale). Sei una persona, prima ancora che un personaggio e in quanto tale hai dei diritti ed una dignità.

Tutto ciò mi ricorda il film ‘One Hour Photo’ in cui Robin Williams intepreta Seymour Parrish, un signore addetto allo sviluppo di rullini fotografici. Questo personaggio, a causa della sua ossessione per una famiglia, arriva a tappezzare la popria casa con le loro foto, circondandosi dei momenti che quelle persone hanno deciso di immortalare su pellicola e venendo a conoscenza anche di alcuni segreti. Ecco, in questo momento siamo tutti un po’ come Seymour Parrish, ma con un durello tra le gambe.

Le celebrità in questione sono state piuttosto ingenue a lasciare attivata la funzione di upload automatico su iCloud, ma nè questo, né tutte le considerazioni sul loro lavoro e sulle loro abitudini nell’intimità (che poi, diciamolo, sono davvero così strane?) possono essere usate per minimizzare il torto da loro subito.

Riguardo la corsa frenetica per accaparrarsi il materiale tabù non posso dire assolutamente nulla. So per certo che in molti si staranno scagliando contro il degrado dei costumi, la società maschilista e chissà quant’altro, ma francamente non vedo nulla di strano, incomprensibile o persino sbagliato in questo: sono reazioni che affondano le loro radici nei nostri istinti più basilari, pulsioni che hanno permesso alla nostra specie di perpetrarsi nel tempo. In tutta questa faccenda l’ultima cosa per cui scandalizzarsi sono i corpi nudi e la corsa alle tette.

Buddhism and Modern Psychology

Nel corso degli ultimi due mesi, ho avuto il grande piacere di seguire il corso online ‘Buddhism and Modern Psychology’ tenuto da Robert Wright, professore alla Princeton University ed autore di apprezzati libri sul tema della psicologia evolutiva.

Ho trovato ogni lezione illuminante su vari aspetti e ho particolarmente apprezzato le “office hours”, piccole sessioni extra in cui Wright provava a rispondere alle principali perplessità degli utenti riguardo i temi affrontati. Il docente ha saputo trattare in modo molto chiaro e lineare una materia complessa e vastissima, tentando di capire se le intuizioni buddiste riguardo la mente umana siano attendibili dal punto di vista della moderna psicologia.

Personalmente consiglio il corso a chiunque fosse anche solo lontanamente interessato a queste tematiche. Purtroppo non so se verrà riproposto in futuro, ma per vostra fortuna (e per mia utilità) ho deciso di caricare tutte le lezioni, i relativi sottotitoli e alcuni interessanti extra, su una cartella in MEGA.

Spero di aver fatto una cosa gradita e spero che, al termine della visione, condividerete con me l’ansiosa attesa del libro che Robert Wright sta scrivendo sull’argomento.

Lo smartphone è un capezzolo

Ho avuto il piacere di partecipare come ospite all’ultima puntata di ‘Metro’, ottimo podcast condotto da alcuni amici1, in cui si è cercato di stilare un discorso organico che parlasse del nostro rapporto con i gadget tecnologici. Come sempre sono partito per la tangente, entrando in una dimensione più intima e riprendendo molti temi conduttori di questo blog. Ve la segnalo perché mi è riuscito di tradurre in parole alcuni concetti che da tempo avevo il desiderio di esprimere e che trovo possano integrare diversi miei post passati.

Ci sono ancora tante (troppe) cose che vorrei dire, ma non ho ancora trovato il modo idoneo per farlo; aspettatevi quindi nuovi post e, perché no, nuovi interventi come ospite di qualche podcast. Chissà, magari sarò in grado di gettare un po’ di luce su alcuni aspetti che mi riesce difficile mettere in risalto e che generano comprensibili perplessità.

Cosa significa l’ansia?

Quest’oggi, il buon Fabrizio Rinaldi ha condiviso su Twitter l’articolo “Cosa significa l’ansia?” che mi ha molto colpito. L’autore parte dal libro ‘My Age of Anxiety‘ di Scott Stossel e tenta di analizzare il fenomeno dell’ansia, ripercorrendo il pensiero di coloro che nel corso della storia si sono interessati al fanomeno (Freud su tutti), e rileggendolo alla luce delle odierne conoscenze neuroscientifiche, nel tentativo di fornire un quadro per cause e soluzioni al disturbo.

L’articolo è senza dubbio ben scritto e l’autore ha evidentemente compiuto diverse ricerche in merito, ciononostante durante tutto il corso della lettura ho provato un senso di avversione per le tesi esposte. Questo mio post è il tentativo di elaborare quella sensazione in un discorso organico, tuttavia mi rendo conto di non poter fare una vera e propria critica alle idee espresse perché la mancanza di un’adeguata preparazione in materia non me lo permette. Come fare, dunque?

Intendo risparmiare qualsiasi riflessione filosofica e riferimento scientifico, di modo da evitare il più possibile le inesattezze, appellandomi soltanto al buon senso. Non so quasi nulla di depressione, ma ho esperienza diretta di ansia e fobia sociale; ovviamente dal mio vissuto non si possono trarre dati universali, ma visto che il giornalista del New Yorker è partito dalla vicenda di Scott Stossel, faccio anche io qualcosa di analogo.

Ciò che emerge abbastanza presto dalla lettura, è la promozione dell’approccio farmacologico all’ansia ed una sostanziale critica al grado di efficacia della psicoanalisi.

Tutto ciò avrebbe dovuto rendere Freud obsoleto. Ma, per molto tempo, nessuno è sembrato accorgersene. Nessuno ha evidenziato che, se i famaci funzionano, allora forse i disturbi emotivi hanno basi neurochimiche, e l’ansia probabilmente non è (come Freud1 era arrivato a supporre) riguardo cose come la paura della castrazione. E se è un disturbo neurologico, qualcosa che ha a che fare con le ammine del cervello, allora forse non ha alcun senso passare anni distesi su un divano a fare libere associazioni riguardo i sogni della notte precedente quando puoi interrompere la sofferenza ingoiando una pillola.

Ora, in quanto organismi siamo soggetti in primo luogo alle reazioni chimiche che avvengono nel nostro corpo. È chiaro che gli psicofarmaci funzionano, così come è chiaro che assumento paracetamolo, la febbre si abbassa. È altrettanto vero che la febbre non è una malattia, ma il sintomo di un’anomalia nel proprio corpo: abbassando la temperatura non si risolve nulla, al massimo si ottiene un sollievo temporaneo. Stessa cosa dicasi per le (tante) persone che trangugiano una soluzione di acqua ed OKi come se fosse la panacea di ogni male.

Al di là di predisposizioni genetiche (parenti ansiosi) e condizionamenti ambientali (lavoro, scuola, ecc), l’ansia è un campanello di allarme: vuol dire che qualcosa non funziona come dovrebbe, ma come ogni sensazione/emozione non è mai ben chiaro a cosa si riferisca. Quasi sempre cercare di controllare o evitare situazioni ansiogene, non fa altro che peggiorare lo stato d’animo di chi le vive, per questo occorre — prima di mettersi a trangugiare farmaci — analizzare un attimo sé stessi.

Il farmaco è un aiuto che ha senso solo se accompagnato da un’adeguata terapia. Non piace la parola “terapia”? Chiamiamola “introspezione guidata orientata allo sviluppo di un comportamento funzionale”. Perché la chimica del cervello influenza il comportamento, ma la relazione vale anche al contrario, quindi c’è sempre il rischio di cadere se non impari a pedalare senza rotelle.

Cosa ho notato (e noto tutt’ora) sulle basi della mia esperienza? Che l’ansia è la degenerazione della paura, è ciò che accade quando la paura viene applicata a dei modelli mentali, invece che a pericoli reali. L’ansioso tipicamente guarda sé stesso in terza persona ed è costantemente preoccupato di fare la scelta giusta, salvo poi finire per non fare nulla (paralisi da analisi). L’ansioso è spesso tormentato dal passato, ossessionato dal futuro ed infatuato di un ideale — magari estrapolato dal contesto sociale in cui si trova — che deve seguire a tutti i costi. L’ansioso non è mai sé stesso, perché si vede come qualcosa di separato da sé, è spesso narciso. Vive come se fosse un personaggio di ‘The Sims’.

Tutto ciò che ho scritto è riferito alla mia esperienza personale e sono sicuro al 100% che non si possa assolutizzare. Sono altresì certo che limitare la propria esperienza da essere vivente ad un insieme di reazioni chimiche sia quantomeno riduttivo, e che “cervello” e “psiche” siano entità diverse, sebbene strettamente correlate.

Mia convinzione (bias) è che l’approccio alla sintomatologia delle nostre nevrosi sia figlio dello stesso meccanismo che ha generato in prima istanza il problema: l’ossessione per il controllo.


  1. Come se, da Freud ad oggi, non si fossero fatti passi avanti in campo psicanalitico. 

In balia del comfort: bloccati in una prigione dorata

comfort
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L’immagine che vedete è stata pubblicata due giorni fa su Reddit con il titolo “Tutta questa tecnologia ci sta facendo diventare asociali”; chiaramente è una provocazione nei confronti di chi demonizza smartphone e affini, accusandoli di star deteriorando le relazioni interpersonali: a quanto sembra, si punta sempre il dito contro un capro espiatorio.

La provocazione è stata colta e rilanciata da Diego Petrucci, che ha anche pubblicato un post sul suo blog, con l’intento di fare una disamina etica sul quando sia lecito isolarsi usando dispositivi vari come scudo, e quando tale atteggiamento sia addirittura sinonimo di inciviltà. Sull’argomento nello specifico non ho molto da aggiungere, ho già abbozzato il mio pensiero in un vecchio post e ho poi cercato, in un altro ancora, di porre l’accento sul caso particolare dei social network.

Qualche giorno fa, mi è capitato di rivedere una vecchia intervista fatta a Louis C.K. da Conan O’Brien, in cui il comico spiega il motivo per cui non ha intenzione di dare alle proprie figlie uno smartphone, illustrando la sua visione della tecnologia: un modo per riempire il vuoto che coviamo dentro di noi, a discapito della nostra capacità di provare empatia. Per chi non sapesse di cosa sto parlando, metto il video di seguito (niente sottotitoli, mi spiace).

Mi trovo pienamente d’accordo con Louis, ma sono convinto che non abbia centrato davvero il problema. Appurato che Internet e gadget vari altro non sono che strumenti dei quali si può fare l’uso che si vuole, come mai la tendenza principale a risultarne è la snaturazione delle comunicazioni interpresonali? Cosa porta l’Uomo — animale sociale per eccellenza — a preferire interazioni surrogate? L’incapacità di affrontare i propri demoni? In parte potrebbe essere così, ma credo sia la conseguenza di qualcos’altro: siamo in balia del comfort.

Scrivo di seguito una citazione tratta dal film “La mia cena con André”:

Voglio dire, se non hai una coperta elettrica, e il tuo appartamento è freddo, e hai bisogno di mettere un’altra coperta o prendere vestiti dall’armadio per impilarli sopra le lenzuola, solo allora saprai che fa freddo. E quella consapevolezza dà il via ad una serie di realizzazioni: hai compassione per l…beh, la persona a tuo fianco ha freddo? Ci sono altre persone al mondo che hanno freddo? Che notte gelida! Mi piace il freddo, Dio mio, non me n’ero mai reso conto, io non voglio una coperta elettrica, è divertente avere freddo, mi posso accoccolare alla persona che ho a fianco perché fa freddo! Sperimenti cose di ogni genere. Ma ecco che accendi la tua coperta elettrica ed è come prendere un tranquillante, come venire lobotomizzati guardando la TV. Entri nel mondo dei sogni. Cioè, cosa pensi ci succeda, Wally, a vivere in un ambiente in cui qualcosa di così intenso e vasto, come le stagioni o l’inverno, non ha alcun effetto su di noi? Siamo animali, dopo tutto. Cosa significa quello che ci sta succedendo? Io penso voglia dire che, invece di vivere sotto il Sole, la Luna, il cielo e le stelle, stiamo vivendo in un mondo di fantasia creato da noi stessi.
[…]
Wally, non capisci che il comfort può essere pericoloso? A te piace essere a tuo agio, e anche a me piace. Ma il comfort può cullarti in una tranquillità pericolosa. Voglio dire, mia madre conosceva una donna, Lady Hatfield, che era una delle persone più ricche al mondo, e morì di inedia perché il suo unico nutrimento era costituito da carne di pollo. Semplicemente, le piaceva il pollo e quindi mangiava solo quello, e il suo corpo stava deperendo, ma lei non se ne accorgeva perché era felice nel suo continuare a mangiare pollo; fino a che non morì! Vedi, onestamente penso che oggi siamo un po’ tutti come Lady Hatfield: abbiamo un’adorabile e comoda vita, con le nostre coperte elettriche e la nostra carne di pollo, e nel frattempo deperiamo perché siamo così disconnessi dalla realtà che non ne traiamo alcun reale sostentamento. Perché non vediamo il mondo. Non vediamo noi stessi. Non vediamo in che modo le nostre azioni hanno conseguenze sugli altri.

Le interazioni sociali hanno sempre una componente di stress e a volte è semplicemente più comodo farsi scudo con qualcosa, che sia una rivista, uno smartphone o delle auricolari. Queste barriere, erette per rendere rassicurante un ambiente potenzialmente ostile, sono al contempo fonti di piacere e spesso oggetti di desiderio; capezzoli. Siamo così immersi nel comfort da non essere più in grado di sopportare un minimo disagio, come quello dato dallo stare per qualche tempo soli: fuggiamo dalla noia, fuggiamo da noi stessi e fuggiamo anche dagli altri, perché una chat non equivale ad una conversazione ed una emoji non è un feedback emotivo.1

Non è mia intenzione demonizzare il comfort: deriva dal progresso, e il progresso è sempre positivo. Tuttavia non si può ottenere nulla senza perdere qualcosa, credo questa sia una regola universale e che quindi si debba cercare di essere consapevoli degli aspetti negativi innescati dalle nostre conquiste, di modo da poterli arginare. Inoltre è bene ricordare che la crescita — personale, così come dell’umanità — ha origine da momenti sgradevoli. Probabilmente è meglio guardare al disagio come un compagno di avventure (o al limite uno strumento), piuttosto che fuggire per lasciarsi cullare da un benessere illusorio.


  1. E se metto il punto a fine frase, non vuol dire che sono arrabbiato, diamine! 

Come avere conversazioni profonde

Oggi mi sono trovato con parecchio tempo libero e ho deciso di spulciare un po’ la Reading List di Safari per leggere un po’ di articoli promettenti che ho salvato negli ultimi mesi. In particolare mi ha colpito uno dei primi che ho salvato: “How To Have Deep Conversations”.

Ho pensato di condividerlo su Twitter, come faccio con tutti i link che ritengo validi, ma poi mi sono fermato; ho pensato che rientrava nella categoria di riflessioni che sono solito postare su questo blog e che — forse — avrei fatto un favore a qualcuno, se avessi tradotto il post in Italiano e lo avessi riportato qui, invece di gettare un link nel torrente impetuoso della timeline di Twitter.

Detto, fatto. Buona lettura.

Cosa rende una conversazione ‘profonda’?

Se avete mai avuto una conversazione profonda, sapete di cosa si tratta. Eppure è difficile definire cosa esattamente separa un’interazione ‘profonda’ da una ‘non profonda’. Alcune persone sottolineano l’importanza di una connessione tra i partecipanti, altri rilevano uno scambio di convinzioni ed opinioni, inoltre si può vedere come densa di significato una conversazione che comprenda un’analisi di qualche tipo, che potrebbe portare ad un cambiamento d’opinione. In questo modo puoi anche comprendere meglio la persona che hai di fronte. Anche se le conversazioni profonde possono avere a che fare con tutto ciò che è intimamente correlato all’essenza di una persona, altri possibili argomenti possono essere la società e l’educazione, per esempio. Importanti attitudini dei partecipanti, che permettono alla conversazione di proseguire, sono rispetto, apertura e curiosità. Detto ciò, credo ci sia un elemento che collega tutti gli aspetti summenzionati: la crescita.

La lista di tratti stilata sopra non è esauriente, ma dovrebbe aiutare a difendere la mia asserzione: una conversazione è profonda quando rafforza il legame tra i partecipanti e stimola in loro un processo di crescita personale, agendo pertanto all’esterno e all’interno delle singole persone, rendendo il tutto (molto vagamente definito) più ampio della somma delle parti (i singoli partecipanti, i loro pensieri, le convinzioni, etc.).

Questo è anche il motivo per cui le persone che cercano di migliorarsi vogliono essere coinvolte maggiormente in questo tipo di conversazioni, che probabilmente le rendono persino più felici. Dunque rimane la domanda: come si fa ad avere più conversazioni profonde?

Il come:

Attitudine

L’attitudine gioca un ruolo importante nell’essere in grado o meno di iniziare e mantenere una conversazione profonda. Questi sono i tratti che dovreste impegnarvi a migliorare:

  • Rispetto: essere rispettosi comprende una lunga lista di qualità da mostrare al proprio interlocutore, alcune delle quali sono in questo elenco.

  • Apertura: condividendo le vostre posizioni e aprendovi alle novità incoraggerete gli altri a fare altrettanto.

  • Apertura mentale: essere ricettivi riguardo ciò che gli altri hanno da dire e, ancora meglio, pronti ad imparare dalle loro parole. Invece di giudicare, accettate le persone per come sono. Questo aumenterà la loro fiducia in voi e le incoraggerà ad aprirsi. Inoltre, considerate sempre la possibilità di cambiare idea. Entrare in una conversazione aspettandosi di finirla rimanendo sulle proprie posizioni è controproducente, se il suo scopo è di stimolare la vostra crescita; giusto?

  • Curiosità: fate domande e ascoltate le risposte. Non c’è nulla di meglio del sapere che il tuo interlocutore vuole conoscere realmente i tuoi pensieri, incoraggiandoti ad esporli.

  • Assertività: se avete dei confini, delineateli. Non temete di metter in chiaro che non vi piace parlare di un determinato argomento. Se non lo fate, gli altri potrebbero continuare a porre domande alle quali voi non volete rispondere e ciò renderebbe l’interazione imbarazzante e poco piacevole per entrambi.

  • Fiducia: fidarsi ed essere degni di fiducia è molto importante. Chi vorrebbe condividere i suoi più reconditi segreti con voi, se sospettasse che diventerebbero di dominio pubblico il giorno seguente?

  • Onestà: non ha senso mentire.

Si spera, se davvero volete apprezzare conversazioni profonde, che voi conosciate l’importanza di questi 7 tratti e che sappiate come applicarli.

A seconda di quanto le persone che frequentate abitualmente sono propense ad avere conversazioni profonde, potreste già avere il piacere di sperimentare questo tipo di interazioni, semplicemente mostrando i tratti elencati sopra. A volte, tuttavia, potreste avere bisogno di far sapere alla persona che avete di fronte che non siete in cerca di chiacchiere generiche e che vi piacerebbe parlare di cose che realmente sono importanti per entrambi. Se tutto va bene, il vostro interlocutore accetterà (non ha senso insistere, se l’altra persona non vuole) e chiederà: “Bene, di cosa vuoi parlare?”

In passato, avrei detto: “Di qualsiasi cosa tu voglia”, il che avrebbe portato ad alcuni round in cui ci si sarebbe scambiati la responsabilità di scegliere l’argomento e presto sarebbe stato chiaro che nessuno dei due aveva idea di cosa parlare. È vero: a volte le persone vogliono semplicemente parlare, vogliono una connessione, non importa quale sia l’argomento. Eppure, per parlare, serve una tematica.

Argomento

Do per scontato che normalmente voi non sappiate di cosa volete parlare. Solitamente quando questo accade, suggerisco di fare il ‘gioco delle domande’, ossia: ciascuno, a turno, fa domande all’altro. Questo può dare molte informazioni riguardo l’interlocutore, senza dover per forza costringere la conversazione ad un solo argomento; oppure può rivelarsi totalmente inutile.

In ogni caso, le domande sono molto utili nel tentativo di iniziare una conversazione profonda. Invece di sperare che l’altra persona se ne esca con un buon tema, provate a prepararvi prima qualche domanda interessante.

Visto che sono una persona molto curiosa, ci sono parecchie domande che mi piacerebbe porre a chiunque. Certo, ce ne sono di specifiche che preferireste porre ad alcuni e non ad altri, ma forse questa lista vi può essere utile:

  1. C’è qualcosa che ti causa ansia? / cosa ti agita in questo momento?

  2. Perché le persone mentono?

  3. Possiamo controllare le nostre emozioni? Come?

  4. Credi in Dio?

  5. Quali sono i tuoi obiettivi?

  6. Cos’è importante per te come persona / in una persona?

  7. Cosa vorresti migliorare di te stesso/a?

  8. La felicità è una scelta?

  9. Fino a che punto possiamo controllare l’amore?

  10. Cosa ne pensi dei matrimoni gay?

  11. Può qualcuno amare più di una persona allo stesso tempo?

  12. Cosa ne pensi delle relazioni poliamorose?

  13. Riusciresti a stare 30 giorni senza lamentarti?

  14. Cosa pensi della meditazione?

  15. Qual’è il senso della vita?

  16. Qual’è il tuo scopo?

  17. Le droghe andrebbero legalizzate? Quali e perché?

  18. Le persone sono intrinsecamente buone/cattive?

  19. Siamo responsabili per tutto ciò che facciamo?

  20. Si può essere felici quando si è tristi?

  21. Cos’è l’amore incondizionato?

Ho scritto le domande a mano a mano che mi venivano in mente. probabilmente ce ne sono molte altre che mi piacerebbe porre, ma la lista assolve comunque alla sua funzione. Quindi ora sta a voi: scrivete le domande che vi piacerebbe porre. Potete anche scriverle pensando a persone specifiche.

Ora sapete come iniziare una conversazione profonda. Il passo successivo è essere in grado di farla fluire.

Flusso

Durante le chiacchiere generiche, è necessario continuare ad aggiungere domande dopo ogni risposta, di modo da impedire che l’interazione giunga al termine. Lo scorrere della conversazione deve essere imposto, in altre parole.

Se state avendo una conversazione profonda, invece, lo scorrere viene naturale. Non dovreste temere di non avere più nulla da aggiungere. Al contrario, vi potreste dover preoccupare sul come porre termine al discorso perché purtroppo non avete tutto il tempo del mondo.

Anche se non dovreste imporre lo scorrere della conversazione, potete creare le condizioni affinché sia facilitato. Fortunatamente, queste sono le stesse che hanno permesso alla conversazione di iniziare, in particolar modo curiosità e apertura. Mantenendo un atteggiamento curioso e aperto renderete il flusso inevitabile. Inoltre, molto importante è la connessione con l’interlocutore, la quale lo renderà disposto a continuare a parlare.

Notate che molte delle domande da me suggerite sono aperte, ossia non possono avere come risposte dei semplici “sì,” o “no”. Le domande aperte incoraggiano la controparte a dire più di ciò che le era stato specificatamente chiesto, facendo quindi sì che la discussione fluisca.

Se la conversazione giunge ad un punto di stallo, potreste voler porlo all’attenzione del vostro interlocutore per capire se vuole continuare a parlare, oppure preferisce cambiare argomento. In tal caso basta scegliere un’altra domanda e ricominciare daccapo.

La pratica rende perfetti

Forse la vostra prima conversazione profonda non durerà molto a lungo o non sarà ad un livello molto intimo. È normale. Continuate a cercare questo tipo di interazione ed allenate le vostre abilità. Potete anche fare pratica online, in siti come Omegle.com dove cui venite assegnati casualmente ad un estraneo con il quale chattare. Siate pazienti, comunque, perché molti su quel sito vorranno solo trollare o avere conversazioni

Craving for likes

The Social Media Generation

Fonte: ZenPencils

Nulla da aggiungere, riprende l’annosa questione che ho abbozzato in un precedente post, ponendo l’accento sulle motivazioni che sottendono questo tipo di dipendenza.

Sì: dipendenza è la parola giusta, dal momento che i meccanismi chimici che si innestano nel nostro cervello quando riceviamo un Like sono — su scala ridotta — gli stessi che sperimenta un eroinomane dopo la sua dose.

Ecco quindi persone che condividono lo stesso stato in diversi momenti del giorno, sperando di ricevere più ‘mi piace’. Persone che giocano a “chi ce l’ha più lungo” con il numero di follower su Twitter. Persone che cambiano la foto profilo quotidianamente, spesso ritoccandola. Persone che condividono ogni momento della propria vita, cercando di farla sembrare più interessante di ciò che è in realtà. Tutte persone che, in definitiva, smaniano di approvazione per ciò che sono, anzi, per ciò che mostrano di essere.

Quanto a me, non sono sicuro di essere fuori dal gruppo.

Vanità…decisamente il mio peccato preferito.
— Al Pacino ne ‘L’avvocato del Diavolo’