Scosse di assestamento

Può sembrare che non mi stia dedicando molto al blog, ma la calma è solo apparente: in realtà sto sfruttando ogni momento per dei piccoli ritocchi qua e là, appena percettibili, eppure molto importanti. Uno di questi ha però sufficiente rilevanza da meritare menzione in un post apposito.

Come forse avrete notato, nel menù in alto la voce “Libri e Film” ha lasciato il posto ad una più succinta ed appropriata “Bibliografia”. Questa nuova sezione raccoglie tutte (o quasi) le fonti che hanno ispirato la stesura dei miei post, alcune di queste sono esplicitamente menzionate all’interno degli articoli, mentre altre hanno avuto un’influenza più generale.

È probabile che nei prossimi giorni modificherò leggermente anche le altre pagine principali del blog, così da dargli una struttura più omogenea e definita. Quando queste scosse di assestamento saranno terminate, Pagine Passate sarà grossomodo come prima, ma avrà le fondamenta giuste per evolversi ulteriormente in una direzione che non mi è ancora chiarissima, ma che se non altro ora so che c’è.

Stay tuned!

Genealogia della violenza maschile, tra combustibili e acceleranti

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo del Post intitolato “Perché la maggior parte delle violenze è commessa da giovani maschi?”, in cui viene riportata una ricerca condotta da un professore universitario sulla violenza maschile. La ricerca mette in risalto come la necessità di affermare la propria virilità — percepita come impellente nei giovani maschi — sia alla base di una spiccata aggressività e della propensione alla violenza. La radice della questione non è solamente culturale, ma ha anche una importante componente biologica: più alti sono i livelli di testosterone, più probabili sono i comportamenti violenti. Significativa è questa frase contenuta nell’ultimo paragrafo:

[…] secondo McAndrews, la violenza tra i giovani maschi è più diffusa tra quelli che non riescono a ottenere il rispetto degli altri e a costruirsi uno status sociale, e di conseguenza a guadagnare quello che McAndrews definisce «l’accesso alle donne».

La ricerca è senza dubbio interessante, ma la si potrebbe benissimo inserire nel filone di quegli approfondimenti atti a dimostrare che l’acqua calda è, a tutti gli effetti, calda: ribadisce ciò che molti quantomeno sospettavano, senza aggiungere granché al dibattito. Al netto dei fattori ambientali — mai da sottovalutare — vi sono chiare differenze tra uomini e donne, fra cui la predisposizione maschile alla competizione per guadagnarsi il rispetto dei propri pari e migliorare il proprio status. La ricerca del professor McAndrews si concentra sull’effetto che il solo maneggiare armi ha sui livelli di testosterone, specie se maneggiate da individui “disadattati”, a mio parere però quelle osservazioni dovrebbero essere integrate da un altro interessante dato: il coefficiente di Gini.

Per chi non lo sapesse, il coefficiente di Gini è utilizzato in economia per misurare la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Una ricerca condotta analizzando i dati raccolti in quaranta Paesi nel periodo tra il 1962 e il 2008, ha evidenziato una significativa correlazione con la frequenza delle “morti violente”. Prima di quest’indagine era convinzione diffusa che fosse la povertà assoluta ad essere foriera di criminalità (la disperazione porta a delinquere), ma alla luce dei nuovi dati possiamo affermare che il maggiore problema risiede nella povertà relativa: se io ho i mezzi per sopravvivere, ma tu vivi molto merglio di me, allora sono più incline ad avere comportamenti aggressivi.

È innegabile una propensione maschile alla violenza, ma è altrettanto vero che a gettare benzina sul fuoco sono le diseguaglianze sociali — in primo luogo economiche. Come ribadito poc’anzi, la competizione per lo status è centrale per gli uomini, tant’è che tutti, in un modo o nell’altro, vi partecipano. È però essenziale che le regole del gioco vengano percepite come eque: se le disparità sono tali da far percepire come essenzialmente inutile il mio impegno per raggiungere la vetta, allora subentra la frustrazione. Quando il gioco appare truccato, vengono meno gli incentivi a seguire le regole e cresce il desiderio di ribellione, di cui la violenza è istintivo sfogo.

Seguendo la scia di questa tematica, vale forse la pena spendere due parole un po’ provocatorie sul tema caldo di questo periodo: lo stupro. Immedesimatevi, per un attimo, in un ragazzo nel pieno dei suoi anni che è costretto a lasciare tutto ed emigrare verso un Paese di cui sa poco o nulla e in cui verosimilmente non ha contatti. Vi trovate allo scalino più basso della gerarchia sociale, indipendentemente da competenze o qualità, soltanto per il fatto di essere un immigrato; verosimilmente dovete quotidianamente affrontare varie forme di discriminazione (se non vero e proprio razzismo), alimentati anche da personalità istituzionali del Paese che vi ospita. Siete frustrati, arrabbiati, disperati, sfruttati per paghe così basse da rendere le sirene della criminalità sorprendentemente seducenti.

A tutto ciò si aggiunge un dettaglio non da poco: le vostre chance di trovare partner sessuali sono molto scarse, se non quasi inesistenti. Quest’ultimo è un aspetto da non sottovalutare, in quanto il sesso è da sempre il principale incentivo alla sopravvivenza: ognuno di noi è il risultato di una ininterrotta catena riproduttiva che ha origine dal primo organismo unicellulare. Non essere in grado di concretizzare questi istinti porta ad una frustrazione indicibile, che si inserisce in un contesto già da sé precario in cui la tendenza al disprezzo delle regole è incoraggiata. Unendo tutto ciò ad un substrato culturale che spesso e volentieri vede la donna in una posizione subordinata e quasi priva di diritti, possiamo capire il perché le percentuali di stupratori tra i giovani immigrati sia così elevata. Per citare le poco felici parole di Debora Serracchiani: lo stupro commesso da un profugo è forse “più grave“ (in quanto ospite), ma è senza dubbio “più intelligibile”.

Il ricorso alla biologia per la spiegazioni di fenomeni umani è senza dubbio importante e troppo poco considerato nel dibattito pubblico. Se però vogliamo davvero comprendere le cause di certi fenomeni ed ipotizzare soluzioni, bisogna scongiurare le iper-semplificazioni e contestualizzare i fenomeni che si osservano. Solo così si può evitare di stigmatizzare e fossilizzare determinati tratti in una sorta di “Peccato Originale” 2.0, agendo invece su elementi che possiamo in qualche modo controllare per scongiurare pericolose derive.

Angurie e Buddismo

Ciascuna delle tre principali tradizioni buddiste adopera diversi metodi per giungere alla stessa esperienza.

Poniamo, per esempio, che tu non sappia cos’è un’anguria perché non ne hai mai mangiata una prima. Se chiedessi ad un Buddista Hinayana di insegnarti cos’è un’anguria, ti verrebbe detto che tutto parte da un seme, un piccolo seme nero piantato nel terreno. Poi questo seme germoglia e diventa una piantina che cresce cone un rampicante e si ricopre di fiorellini. Da questi fiori inizia a crescere un frutto, che diventa sempre più grande, fino a trasformarsi in un’anguria matura. Ad un certo punto qualcuno la mangia, oppure si decompone, e i semi tornano nel terreno. Il ciclo ricomincia da capo: seme, germoglio, rampicante, bocciolo, fiore, frutto; seme, germoglio, rampicante, bocciolo, fiore, frutto. Questo tipo di insegnamento si focalizza sul tempo, o comunque su qualcosa che cambia nel tempo.

Il Buddismo Mahayana invece non si preoccupa molto del tempo, possiamo dire che la sua preoccupazione sia lo spazio o “forma”. Quindi se chiedessi ad un Buddista Mahayana cos’è un’anguria, potrebbe risponderti: “Dunque, un’anguria ha una buccia verde, con striature di verde chiaro e scuro. Può essere piuttosto pesante. Se sei in Occidente, un’anguria assomiglia un po’ ad un pallone da football, mente in Corea ha la forma di un pallone da calcio. L’anguria è dura all’esterno e morbida all’interno. Quando è matura, il suo interno è rosso e contiene piccoli semi neri. La parte rossa è dolce, la parte bianca non lo è più di tanto, mentre la parte verte è un po’ aspra”. Il Buddismo Mahayana si interessa della forma, di quella che è la realtà dell’anguria. Un Buddista Mahayana potrebbe anche spiegare come quelle caratteristiche — colore, peso, sapore e forma — siano tutte vacue.

Lo Zen a uno stile di insegnamento molto semplice e diretto. Zen significa che se tu vuoi capire che cosa sia un’anguria, devi prenderne una, tagliarla con un coltello e metterne in bocca una fetta. BOOM! La tua esperienza! Parole, discorsi, libri e insegnamenti non possono trasmettere questo tipo di conoscenza. Anche se leggessi un centinaio di libri sulle angurie, o ascoltassi centinaia di lezioni, tutto ciò non potrà erudirti in misura maggiore di quanto possa fare un singolo assaggio. “Cos’è un’anguria?” Boom! “Ahhh! Quella è un’anguria!”. Ecco il motivo per cui l’insegnamento zen è descritto come “Indipendente da parole e discorsi, una speciale trasmissione al di fuori dei Sutra che punta diretta alla mente; guarda la tua vera natura, diventa Buddha”. Comprendere cosa sia un’anguria non ha bisogno di parole e discorsi, anche un bambino lo può capire! Questa è la via dello Zen.

— Seung Sahn in The Compass Of Zen

Close enough is perfect

Quando ho aperto questo blog avevo molte poche pretese: tutto ciò che mi interessava era dare voce alle mie riflessioni ed esercitarmi nella scrittura. Non avendo in mente di monetizzare, né di scrivere per un pubblico, ero davvero libero di trattare qualsiasi argomento in qualsiasi modo volessi, senza preoccuparmi troppo di mantenere standard qualitativi.

Come spesso accade, spontaneità e libertà creativa sono state premiate e queste pagine hanno iniziato a raccogliere visitatori; pochi, certo, ma abbastanza affezionati da scrivermi talvolta mail per avere uno scambio privato con me, o semplicemente farmi i complimenti per qualcosa che avevo scritto. Rendersi conto di avere un pubblico — per quanto piccolo — è estremamente gratificante, ma mette una leggera pressione riguardo il creare contenuti di qualità; ciò di per sé è un bene, ma bisogna stare attenti a non finire nella trappola del perfezionismo. Inutile dire che alla fine ci sono caduto con tutte le scarpe.

C’è stato un preciso momento in cui la voglia di dare di più e la consapevolezza di poterlo fare mi hanno spinto verso una sorta di paralisi, ossia la pubblicazione di quello che forse è il miglior pezzo che abbia mai scritto: L’origine della morale. Stendere quel post è stato come comporre un puzzle, ha richiesto ore tra leggere e visionare materiale, ragionare, nonché ovviamente scrivere. L’intero processo è risultato per me estremamente gratificante e ha trasformato in parte la mia visione del mondo. Mi ha anche dato una ulteriore conferma della complessità e della interdipendenza dei fenomeni umani con cui facciamo i conti tutti i giorni, suscitando in me il desiderio di saperne di più. Insomma: è un qualcosa che vorrei ripetere con altri argomenti che mi stanno a cuore.

Qua però subentrano i due elementi che mi hanno messo con le spalle al muro. Anzitutto, la stesura di pezzi simili richiede tempo, tempo che è sempre più difficile reperire. In secondo luogo, ci sarà sempre qualcosa che si ignora, qualche informazione pertinente (magari decisiva) di cui si giunge a conoscenza in un secondo momento. Qua si insinua il perfezionismo: non posso iniziare a scrivere se non ho tutti i pezzi, se non ho letto tutti i libri nella mia reading-list, se non ho fatto sufficienti esperienze e così via. Il risultato di questa ricerca del post perfetto è che si finisce per non scrivere nulla perché tutte le buone idee vengono messe in standby, nell’attesa di avere un quadro completo dell’argomento.

Questa situazione, molto simile (se non identica) alla paralisi da analisi, mi ha riportato alla mente il libro “Improv Wisdom: Don’t Prepare, Just Show Up” di Patricia Ryan Madson, dove ad un certo punto si fa riferimento al motto di una compagnia, cambiato da “Perfect is close enough” a “Close enough is perfect”.

Il paradosso è che quando ci sforizamo di dare il massimo il risultato è spesso deludente. Un clima più sano è quello in cui ci diamo il permesso di essere mediocri, perché ci libera dalla pressione. […] Quando ti sforzi di fare del tuo meglio, il risultato sulla tua performance è spesso quello di azzopparla. In ogni scenario c’è sempre qualcosa da perdere. Questo può aumentare la tensione e portare a stati di ansia.

[…]

Per Samuel, un analista finanziario, questa massima fu la sua salvezza. “Mi sono logorato per anni lavorando come un pazzo, passando notti in bianco, per fare in modo che i miei rapporti raggiungessero standard che ora capisco essere semplicemente ossessivi. Mi sembrava di non combinare mai nulla perchè cercavo sempre di raggiungere la perfezione. Il tuo suggerimento riguardo il permettermi di essere mediocre è stato una rivelazione. Ora semplicemente svolgo il mio lavoro senza torturarmi fino alla morte e i risultati sono davvero buoni. Sono più produttivo adesso rispetto a prima”.

Il mio post sull’origine della morale è invecchiato sorprendentemente bene, ma se dovessi scriverlo oggi, aggiungerei ulteriori nozioni che ho acquisito più di recente, e probabilmente cambierei del tutto la conclusione. Se due anni fa fossi stato attanagliato dal perfezionismo, mi sarei trovato iper-consapevole delle mie lacune e forse quel pezzo non avrebbe mai visto la luce.

D’ora in poi, se ne avrò voglia, mi permetterò di scrivere post “a caldo“ senza farmi troppi problemi riguardo standard di qualità; al limite potrò sempre scrivere in seguito post integrativi o rinuire il corpus di informazioni raccolte in un pezzo composito. Ho già parlato brevemente di come per me la scrittura sia praticamente un’esigenza, ebbene: non ha senso nutrirsi quotidianamente a pane ed acqua in attesa del giorno in cui finalmente si potrà cenare all’Osteria Francescana.

Close enough is perfect

Scribo, ergo sum

Fonte

 

Ultimamente scrivo poco e in effetti mi sembra di “essere”, di vivere, meno di quel che dovrei. Se non metto nero su bianco i miei pensieri, la mente si ingolfa e i sensi si attenuano: l’impressione è di essere immersi in una cortina di nebbia che puoi diradare un po’, con qualche sforzo, ma mai dissolvere completamente. Scrivere è per me un bisogno fondamentale.

Su virtù, femminismo ed eredità culturali

Da un po’ di tempo ho riscoperto il mio interesse per la linguistica, in particolar modo per l’etimologia. Il motivo, a ben pensarci, è evidente sin da subito: “etimo” deriva dal Greco étymos, ossia “reale”, “genuino”; l’etimologia studia quindi il significato più profondo delle parole. Dal momento che il linguaggio gioca un ruolo essenziale nel determinare il modo in cui percepiamo la realtà, credo sia importante — oltre che affascinante — comprendere il modo in cui questo si è evoluto.

In effetti i prodotti culturali (quale è il linguaggio), in modo non dissimile dagli organismi biologici, hanno una natura adattiva: reagiscono alle condizioni ambientali e si modellano in modo funzionale al contesto. Val la pena sottolineare che ogni successivo adattamento avviene sempre su una consolidata base pre-esistente, questo fa sì che il significato odierno di una parola sia inevitabilmente condizionato dal suo etimo risalente a millenni or sono.

Qualche mese fa ho assistito ad una lectio magistralis tenuta dal professor Massimo Cacciari intitolata “Virtù antiche, virtù moderne” e ne ho tratto spunti molto interessanti. Cacciari ha iniziato il discorso sottolineando come la radice della parola “virtù” sia vir, che in latino significa “maschio”, e ha rintracciato lo stesso suono nella parola sanscrita arhat, usata per indicare coloro che hanno raggiunto l’illuminazione. Ne deriva quindi che in tutte le lingue appartenenti al ceppo indoeuropeo l’immagine della rettitudine morale sia indissolubilmente legata al sesso maschile, motivo per cui — parole di Cacciari — “Il femminismo è stata l’unica vera rivoluzione culturale avvenuta in Occidente”.

Questo mi ha dato da pensare: se siamo portati inconsciamente a collegare la rettitudine ad un modello maschile, potrebbe darsi che nel corso della loro emancipazione ci sia il rischio per le donne di far proprio esattamente quel modello e, in un certo senso, “mascolinizzarsi”. Questa preoccupazione mi è sorta pensando al filosofo Cartesio che provò a spogliarsi di ogni covinzione pregressa per ricercare la verità delle cose, ma il peso della sua formazione cattolica era così ingente che egli si trovò a dimostrare l’esistenza di Dio. Per non parlare del movimento illuminista che, nella fretta di rimuovere la fede cristiana dall’equazione, non si accorse di starne adottando in pieno i principi cardine, esemplificati dal trittico “liberté, égalité, fraternité”. Analogamente, le donne che lottano per indipendenza e riconscimenti potrebbero ottenere quello a cui aspirano solo rendendosi più simili agli uomini, trovandosi quindi a subire un nuovo e più sottile tipo di oppressione.

È per me estremamente difficile parlare di questo argomento perché “uomo” e “donna” sono statiche categorie binarie e portano con loro un bagaglio di significati troppo ingombrante. Per questo motivo voglio adottare una prospettiva che trovo molto più funzionale e parlare di “polarità”, dicendo che non c’è di per sé nulla di male a familiarizzare con una polarità tradizionalmente non associata al proprio genere, ma è necessario valorizzare entrambe; in particolar modo ci si dovrebbe soffermare su quella che è stata a lungo mistrattata dalla nostra cultura.

Non conosco abbastanza l’argomento per permettermi di adottare un tono precettivo, questo post è più che altro un monito a considerare sempre che le nostre azioni possono entrare in relazione con variabili di cui non si sospettava l’esistenza e avere effetti imprevedibili.

Concludo con le parole di Cacciari: “Se non conosciamo i termini che usiamo per esprimerci, noi non parliamo: siamo parlati”.

All along the watchtower: interpretazione di una profezia

Poco fa stavo navigando in Internet mentre era in riproduzione “All along the watchtower”, quel capolavoro scritto da Bob Dylan e re-interpretato da Jimi Hendrix. Avrò ascoltato questa canzone centinaia di volte, ma oggi l’ho vista sotto una luce completamente nuova: mi è sembrata una profezia estremamente descrittiva dei nostri tempi, forse di tutte le epoche.

There must be some way out of here
Said the joker to the thief
There’s too much confusion, I can’t get no relief
Businessmen, they drink my wine
Plowmen dig my earth
None of them along the line know what any of it is worth

No reason to get excited,the thief, he kindly spoke
There are many here among us who feel that life is but a joke
But you and I, we’ve been through that, and this is not our fate
So let us not talk falsely now, the hour is getting late

All along the watchtower, princes kept the view
While all the women came and went, barefoot servants, too

Outside in the distance a wildcat did growl
Two riders were approaching, the wind began to howl

Io non so davvero come si possa mettere tutto questo in una manciata di versi: non una parola è fuori posto, tutto è estremamente evocativo. I protagonisti della storia sono un giullare ed un ladro, due figure aliene alla società: guardato con scherno il primo, con rabbia e timore il secondo.

È il giullare a parlare all’inizio, esprimendo la sua frustrazione per un mondo confusionario in cui nulla sembra avere senso: chi è in cima alla società gode dei frutti del lavoro di chi è alla base, ma nessuna delle parti coinvolte è davvero consapevole del suo ruolo, tutto procede per inerzia.

A questo punto il ladro tranquillizza il compagno: fra gli outsider sono in molti a razionalizzare queste assurdità e concludere che la vita non è altro che un gioco, ma loro due sono diversi perché hanno capito che un cambiamento è possibile. Non c’è tempo per le chiacchiere, è ora di agire.

Gli ultimi versi mostrano il contesto in cui si svolge il tutto: in un ambiente ostile, due figure (il giullare ed il ladro) si avvicinano ad una roccaforte, dalla cui torre di controllo i principi monitorano ogni cosa, attenti a mantenere intatti i propri privilegi.

La “watchtower” simboleggia uno status quo che giova soltanto ai membri dell’élite, mentre i due “riders” sono coloro che distruggeranno la torre, facendo breccia grazie alle crepe accumulate nel tempo. A sovvertire l’ordine generale saranno coloro che, per mestiere (joker) o necessità (thief), sono abituati a relativizzare i valori promossi dai prìncipi, valori che la società erroneamente vede come granitici.

Altro elemento interessante è la struttura della canzone: il tutto inizia in medias res e solo le ultime due strofe forniscono il contesto necessario. Unendo questo aspetto con la musica pensata da Dylan (non me ne voglia Hendrix) si ottiene una circolarità claustrofobica, lasciando intendere che le dinamiche narrate sono in realtà essenzialmente immutabili e che ogni pretesa rivoluzionaria è destinata a cristallizzarsi in status quo: “plus ça change, plus c’est la même chose”.

Tutto questo in 14 versi.

Riflessioni in viaggio

Negli ultimi due mesi ho avuto finalmente la possibilità di viaggiare un po’ in solitaria, per città Europee. Il non avere compagni di viaggio ha due conseguenze importanti, come facce della stessa medaglia: si è liberi di fare ciò che più si vuole; si può contare solo sulle proprie forze.

Fin qui nulla di nuovo, uno ci potrebbe arrivare anche senza vivere l’esperienza in prima persona. C’è però una sfaccettatura del secondo aspetto che non avevo mai considerato a dovere: il piacere, o persino la necessità, di condividere.

“Condividere” vuol dire letteralmente “rendere partecipi altri di ciò che si prova“. Più volte mi sono trovato nella condizione di voler comunicare a qualcuno ciò che avevo visto o ciò che pensavo di una determinata cosa, ma quel qualcuno non era lì con me.

Siamo nel 2017, però, e la condivisione oggi è soprattutto quella — a mio parere un po’ pigra e malsana — dei social network. Eccomi quindi ad usare WhatsApp, Facebook e Twitter più spesso di quello che avrei voluto; eccomi quindi a scoprire l’acqua calda: queste piattaforme vengono usate perché rispondono a dei nostri bisogni primari, nonostante alcuni effetti indesiderati. Siamo animali sociali, anche se ad alcuni di noi questa cosa non va troppo a genio.

Gli effetti collaterali però ci sono: credo fermamente nel valore formativo della solitudine, ma nel mondo odierno è realmente possibile rimanere soli? Fintanto che sei dotato di uno smartphone hai sempre possibilità di interazione — forse sarà surrogata, ma interazione rimane.

L’aiuto altrui è importante per affrontare il mondo esterno, ma la solitudine è essenziale per conoscere il mondo al tuo interno. Se ad ogni minimo segno di disagio la mano corre alla tasca e afferra il telefono, cosa puoi sperare di ottenere da ciò che stai vivendo1? È come quando, da bambino, il tuo sguardo vagava fuori dalla finestra mentre la maestra spiegava le tabelline: prestare attenzione non è piacevole, ma nel lungo periodo paga. Come dice bene Brunori Sas in una delle sue ultime canzoni: “Il dolore serve, tanto quanto serve la felicità”.

Tutti i luoghi comuni sui viaggi che aprono la mente e formano il carattere sono verissimi, ma ho la sensazione che si possa trarre il meglio da queste esperienze preferendo — entro certi limiti — l’analogico al digitale.

Come spesso accade, però, predico bene e razzolo male.


  1. Rimando a questa sempre attuale intervista a Louis CK. 

Errare

Mi è stato più volte detto che sono un tipo strano che fa cose strane. Fra queste “cose strane” che ogni tanto mi piace fare vi è l’andare a seguire conferenze (possibilmente gratuite) su temi che sembrano stimolanti; devo dire che si è rivelata una buona abitudine, in grado di fornirmi notevoli spunti di riflessione.

Il 22 maggio del 2015 andai ad un incontro organizzato dal gruppo Bridge Partners dedicato all’argomento dell’errore ed intitolato “Il Modo Giusto di Sbagliare”. La conferenza era moderata da una giornalista del Sole 24 Ore e i relatori erano tutti di un certo spessore: Giovanna Leone, docente di Psicologia Sociale all’Università Sapienza di Roma, Marco Delmastro, fisico ricercatore presso il CERN di Ginevra e il CNRS francese, Salvatore De Rienzo, consulente di Egon Zehnder, Alberto Fusi, Chief Human Capital Officer di ERG e Umberto Pelizzari, ex campione mondiale di apnea.

L’incontro è stato molto interessante in ogni sua parte (sorprendenti in modo particolare gli interventi di Pelizzari), tant’è che vi consiglio vivamente di ascoltare la registrazione integrale da me fatta. In questa sede vorrei parlare però dei contributi che in me hanno lasciato maggiormente il segno: quelli di Giovanna Leone. Dopo le doverose premesse, fatte anche dagli altri relatori, su quanto l’errore sia un indispensabile strumento didattico e di crescita professionale oltre che personale, ha parlato in modo molto interessante dell’educazione infantile.

Il bambino che non usa più le rotelline per andare in bicicletta fa questo passo perché un adulto ha scommesso su di lui e ha detto “ce la puoi fare”. È terribile quando le persone ti dicono “non ce la farai mai” perché se tu ci credi finirai effettivamente per non farlo: si chiama profezia che si auto-determina.

Questo è il motivo per cui il grande psicoterapeuta Viktor Frankl asseriva che le persone vanno sempre sovra-stimate ed incentivate a sperimentare cose nuove, a mettersi alla prova, mentre in parallelo si ricorda loro che la possibilità di fallire è sempre presente. L’errore però non va demonizzato: se viene visto come un qualcosa da evitare a tutti i costi, si interiorizza l’idea che non ci si può permettere di sbagliare perché la posta in palio è troppo alta; a volte le persone non cambiano perché non si mettono mai in gioco, poiché pensano che il fallimento sia la fine del mondo.

[…] L’errore è diverso dalla sciatteria: la sciatteria è quando non ti sei preparato abbastanza, invece l’errore — come dice l’etimo — vuol dire che sto errando, vagando qua e là, sperimentando; l’errore è figlio del fatto che tu stai provando. Ci sono persone che hanno il coraggio di provare, che si buttano, e poi ci sono persone che invece hanno paura. Io però non vedo tanto dei profili di personalità, quanto più delle situazioni tipiche (pur non negando aspetti caratteriali e genetici). Ci sono degli ambiti che permettono alle persone di sbagliare, di provarci.

Ad esempio a noi è capitato di osservare situazioni di bambini che giocano con vicino l’insegnante — che sa di essere filmata, quindi cerca di ottenere il massimo rendimento — e sono alla presa, ad esempio, con un puzzle adeguato alle loro capacità. Emergono dati interessanti, ad esempio un bambino viene di solito lasciato più libero di sbagliare rispetto ad una bambina: c’è più tolleranza per gli errori commessi dai maschi; questo atteggiamento educativo può essere alla base del cattivo rapporto che spesso le donne hanno con gli errori. Se guardiamo poi a contesti in cui sono presenti bambini appartenenti a minoranze svantaggiate (ad esempio minori Rom) riscontriamo situazioni di sovra-aiuto benevolo in cui il bambino viene continuamente corretto: lui inizia a fare il puzzle e la maestra gira i pezzi al posto suo; questo suona come dire “chissà se tu ce la fai”. Tale aspetto lo abbiamo riscontrato soprattutto nelle madri dei bambini malati cronici, che tipicamente fanno il puzzle al posto dei figli per evitare loro ulteriori fattori di stress. Questo può aumentare la paura di sbagliare, e se tu temi di sbagliare impari di meno perché la risposta più ovvia alla paura è l’inazione. Questo riconduce al problema dei genitori ansiosi che vogliono iper-controllare tutto per timore che i figli si facciano male: a volte è importante che la persona sbagli un po’.

Questo è un tema che noto tornare ciclicamente nelle mie esperienze e nelle mie letture, al punto che inizio a ritenere sia una costante su cui poter fare sempre affidamento: l’unico modo per crescere ed evolvere la propria situazione è sperimentare, correre rischi ed esporsi alla prospettiva di un fallimento che non va visto come condanna, bensì come opportunità. Tutti i discorsi sull’uscire dalla comfort zone, che fioccano a destra e a manca tanto da esser quasi diventati cliché, si basano su questa regola fondamentale.

Instaurare un rapporto costruttivo con l’errore significa ridimensionare le proprie paure, aumentare la capacità di adattamento migliorare la relazione che si ha con sé stessi1 e soprattutto facilitare l’apprendimento di nuove abilità; c’è solo un modo per riuscirci: fare cose nuove. Gli unici che non sbagliano mai sono quelli che non fanno nulla, cioè quelli che rimangono sempre uguali a loro stessi.


  1. C’è un curioso slittamento semantico che in molti hanno nel parlare degli errori commessi da sé e/o altri: “ho sbagliato” diventa automaticamente “sono sbagliato”, ma questo tipo di giudizio morale, oltre a non avere alcuna base, risulta un ostacolo insidioso ad ogni cambiamento costruttivo.