Angurie e Buddismo

Ciascuna delle tre principali tradizioni buddiste adopera diversi metodi per giungere alla stessa esperienza.

Poniamo, per esempio, che tu non sappia cos’è un’anguria perché non ne hai mai mangiata una prima. Se chiedessi ad un Buddista Hinayana di insegnarti cos’è un’anguria, ti verrebbe detto che tutto parte da un seme, un piccolo seme nero piantato nel terreno. Poi questo seme germoglia e diventa una piantina che cresce cone un rampicante e si ricopre di fiorellini. Da questi fiori inizia a crescere un frutto, che diventa sempre più grande, fino a trasformarsi in un’anguria matura. Ad un certo punto qualcuno la mangia, oppure si decompone, e i semi tornano nel terreno. Il ciclo ricomincia da capo: seme, germoglio, rampicante, bocciolo, fiore, frutto; seme, germoglio, rampicante, bocciolo, fiore, frutto. Questo tipo di insegnamento si focalizza sul tempo, o comunque su qualcosa che cambia nel tempo.

Il Buddismo Mahayana invece non si preoccupa molto del tempo, possiamo dire che la sua preoccupazione sia lo spazio o “forma”. Quindi se chiedessi ad un Buddista Mahayana cos’è un’anguria, potrebbe risponderti: “Dunque, un’anguria ha una buccia verde, con striature di verde chiaro e scuro. Può essere piuttosto pesante. Se sei in Occidente, un’anguria assomiglia un po’ ad un pallone da football, mente in Corea ha la forma di un pallone da calcio. L’anguria è dura all’esterno e morbida all’interno. Quando è matura, il suo interno è rosso e contiene piccoli semi neri. La parte rossa è dolce, la parte bianca non lo è più di tanto, mentre la parte verte è un po’ aspra”. Il Buddismo Mahayana si interessa della forma, di quella che è la realtà dell’anguria. Un Buddista Mahayana potrebbe anche spiegare come quelle caratteristiche — colore, peso, sapore e forma — siano tutte vacue.

Lo Zen a uno stile di insegnamento molto semplice e diretto. Zen significa che se tu vuoi capire che cosa sia un’anguria, devi prenderne una, tagliarla con un coltello e metterne in bocca una fetta. BOOM! La tua esperienza! Parole, discorsi, libri e insegnamenti non possono trasmettere questo tipo di conoscenza. Anche se leggessi un centinaio di libri sulle angurie, o ascoltassi centinaia di lezioni, tutto ciò non potrà erudirti in misura maggiore di quanto possa fare un singolo assaggio. “Cos’è un’anguria?” Boom! “Ahhh! Quella è un’anguria!”. Ecco il motivo per cui l’insegnamento zen è descritto come “Indipendente da parole e discorsi, una speciale trasmissione al di fuori dei Sutra che punta diretta alla mente; guarda la tua vera natura, diventa Buddha”. Comprendere cosa sia un’anguria non ha bisogno di parole e discorsi, anche un bambino lo può capire! Questa è la via dello Zen.

— Seung Sahn in The Compass Of Zen

Su virtù, femminismo ed eredità culturali

Da un po’ di tempo ho riscoperto il mio interesse per la linguistica, in particolar modo per l’etimologia. Il motivo, a ben pensarci, è evidente sin da subito: “etimo” deriva dal Greco étymos, ossia “reale”, “genuino”; l’etimologia studia quindi il significato più profondo delle parole. Dal momento che il linguaggio gioca un ruolo essenziale nel determinare il modo in cui percepiamo la realtà, credo sia importante — oltre che affascinante — comprendere il modo in cui questo si è evoluto.

In effetti i prodotti culturali (quale è il linguaggio), in modo non dissimile dagli organismi biologici, hanno una natura adattiva: reagiscono alle condizioni ambientali e si modellano in modo funzionale al contesto. Val la pena sottolineare che ogni successivo adattamento avviene sempre su una consolidata base pre-esistente, questo fa sì che il significato odierno di una parola sia inevitabilmente condizionato dal suo etimo risalente a millenni or sono.

Qualche mese fa ho assistito ad una lectio magistralis tenuta dal professor Massimo Cacciari intitolata “Virtù antiche, virtù moderne” e ne ho tratto spunti molto interessanti. Cacciari ha iniziato il discorso sottolineando come la radice della parola “virtù” sia vir, che in latino significa “maschio”, e ha rintracciato lo stesso suono nella parola sanscrita arhat, usata per indicare coloro che hanno raggiunto l’illuminazione. Ne deriva quindi che in tutte le lingue appartenenti al ceppo indoeuropeo l’immagine della rettitudine morale sia indissolubilmente legata al sesso maschile, motivo per cui — parole di Cacciari — “Il femminismo è stata l’unica vera rivoluzione culturale avvenuta in Occidente”.

Questo mi ha dato da pensare: se siamo portati inconsciamente a collegare la rettitudine ad un modello maschile, potrebbe darsi che nel corso della loro emancipazione ci sia il rischio per le donne di far proprio esattamente quel modello e, in un certo senso, “mascolinizzarsi”. Questa preoccupazione mi è sorta pensando al filosofo Cartesio che provò a spogliarsi di ogni covinzione pregressa per ricercare la verità delle cose, ma il peso della sua formazione cattolica era così ingente che egli si trovò a dimostrare l’esistenza di Dio. Per non parlare del movimento illuminista che, nella fretta di rimuovere la fede cristiana dall’equazione, non si accorse di starne adottando in pieno i principi cardine, esemplificati dal trittico “liberté, égalité, fraternité”. Analogamente, le donne che lottano per indipendenza e riconscimenti potrebbero ottenere quello a cui aspirano solo rendendosi più simili agli uomini, trovandosi quindi a subire un nuovo e più sottile tipo di oppressione.

È per me estremamente difficile parlare di questo argomento perché “uomo” e “donna” sono statiche categorie binarie e portano con loro un bagaglio di significati troppo ingombrante. Per questo motivo voglio adottare una prospettiva che trovo molto più funzionale e parlare di “polarità”, dicendo che non c’è di per sé nulla di male a familiarizzare con una polarità tradizionalmente non associata al proprio genere, ma è necessario valorizzare entrambe; in particolar modo ci si dovrebbe soffermare su quella che è stata a lungo mistrattata dalla nostra cultura.

Non conosco abbastanza l’argomento per permettermi di adottare un tono precettivo, questo post è più che altro un monito a considerare sempre che le nostre azioni possono entrare in relazione con variabili di cui non si sospettava l’esistenza e avere effetti imprevedibili.

Concludo con le parole di Cacciari: “Se non conosciamo i termini che usiamo per esprimerci, noi non parliamo: siamo parlati”.

Donald Trump è colpa nostra

Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.

Non mi lancio in nessun tipo di analisi, francamente non ne ho voglia, tanto nei prossimi giorni vi troverete bombardati dal parere di personaggi illustri e non. Scrivo soltanto per comunicare il mio disgusto verso i responsabili di questo declino dell’Occidente che sembra destinato a non arrestarsi tanto presto: noi.

Con “noi” mi riferisco al frammento demografico cui gioco forza mi trovo ad appartenere: quello composto da persone mediamente colte, provenienti dall’ormai quasi estinta classe media, promotrici di valori liberali; persone che hanno fatto il liceo (magari il classico) con l’idea poi di iscriversi all’università, laurearsi, ottenere un lavoro rispettabile ed entrare a fare parte della “classe dirigente”. Le stesse persone che ora si sdegnano per la Brexit e Trump, invocando un ritorno al passato, ad un’oligarchia aristocratica priva del poco conveniente suffragio universale. Già, perché il problema è la “gggente”, mentre noi siamo virtuosi, vero? Non abbiamo capito un cazzo.

Ci siamo dati pacche sulle spalle nelle nostre torri d’avorio, ridendo del “popolino” e dei loro ridicoli rappresentanti, ignorando e male interpretando un disagio che ha continuato a crescere e bollando i suoi sfoghi come “ignoranza”. Certo, l’ignoranza è un fattore, ma è da stupidi puntare il dito verso la fiammella invece che occuparsi di chi ci sta soffiando sopra. No, non sto parlando di Salvini o Grillo (il loro ruolo viene dopo), sto parlando delle passate generazioni che, spreco dopo spreco, hanno rotto le finestre del condominio dove questa gente abita, fregandosene delle lamentele e deridendo apertamente chi invece — (forse) per opportunismo — ha mostrato di dar loro ascolto.

A furia di tirare, la corda si spezza e si finisce con la schiena nel fango. I cosiddetti (e spesso auto-proclamati) intellettuali non sono più visti come guide autorevoli, ma come antagonisti; nel migliore dei casi come una manica di egoisti boriosi, incapaci di prevedere la crisi economica1 o anche solo di avere una stima affidabile dei risultati elettorali poche ore prima del voto. La reazione di chi ha perso ogni fiducia nello status quo mira a sovvertirlo, dando nuovo impeto a tutti quei movimenti che contrastano i valori cari all’élite, dalla scienza alla democrazia.

La rabbia è molto facile da incanalare, se si toccano i punti giusti: è un meccanismo vecchissimo esemplificato molto bene da Freud nel saggio “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”.

La folla giunge subito agli estremi. Un accenno di sospetto si trasforma immediatamente in indiscutibile evidenza. Una semplice antipatia diviene subito odio feroce. Portata a tutti gli eccessi, la folla è influenzata solo da eccitazioni esasperate. Chiunque voglia agire su di essa, non ha bisogno di dare ai propri argomenti un carattere logico: deve presentare immagini dai colori più stridenti, esagerare, ripetere incessantemente la stessa cosa.2

Non c’è da stupirsi di Trump, Grillo o Salvini, ma soprattutto non è loro la colpa: sono solo sintomi, manifestazioni di un profondo disagio di cui noi siamo concausa. Possiamo fare autocritica e cercare di riunificare la frattura che si è creata all’interno del nostro (ma non solo) Paese, oppure possiamo fare come al solito e puntare il dito contro la proverbiale “casalinga di Voghera”.


In questo mio sfogo ho ricondotto l’elezioni di Trump allo scenario italiano perché è quello a me più familiare. Senza dubbio si tratta di una forzatura, ma non così importante come potrebbe sembrare, dal momento che l’intero Occidente è piuttosto omogeneo sotto alcuni punti di vista. A riprova di ciò metto qui di seguito un paio di link ad articoli che trattano le stesse tematiche dalla prospettiva statunitense (entrambi in Inglese, mi spiace).

  • How Half Of America Lost Its F**king Mind: il giornalista che scrive, cresciuto in uno Stato rurale, conservatore e ultra-cristiano, prova a dare una spiegazione del sucesso elettorale di Trump fornendo una prospettiva diversa dal solito.
  • The Intellectual Yet Idiot: il filosofo Nassim Nicholas Taleb critica aspramente gli odierni intellettuali, evidenziando in modo un po’ comico le contraddizioni insite nel loro modo di pensare.

  1. Nel novembre 2008 la Regina Elisabetta II chiese ai docenti di economia della London School of Economics come mai non avessero previsto il sopraggiungere della crisi. Dopo mesi di consultazioni risposero con una lettera aperta, dicendo di aver perso di vista il cosiddetto “rischio sistemico” e di essersi abbandonati ad una “psicologia del diniego”. Fonte: D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011. 
  2. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Bollati Boringhieri, Torino, 1978. 

Cosa vuol dire “Sii te stesso?”

Quante volte avete dato (o ricevuto) il consiglio “Sii te stesso”? È una frase talmente abusata da aver quasi perso significato, attirando anche un sacco di critiche, più o meno sensate. Ma cosa vuol dire “essere se stessi”?

Non intendo attaccare un pippone senza fine sull’origine dell’Io e sul concetto di identità perché sarebbe fuori luogo e forse anche al di là delle mie possibilità, intendo invece riflettere un attimo su cosa si intenda davvero suggerire quando si dà quel consiglio e sul perché il più delle volte non lo si capisca realmente. Il vero problema non risiede nel suggerimento in sé, ma in come viene strutturato: “Sii te stesso” rimanda all’immagine che la persona ha di sé e la spinge a tenerla ben presente nel corso della situazione che questa si trova ad affrontare.

Credo di averlo già detto in altri post, ma mi ripeto: il problema delle immagini è che sono statiche, mentre le persone si evolvono continuamente1. La differenza è notevole tra un anno e l’altro, ma può essere percepibile anche a distanza di qualche mese, cambiamo così rapidamente che la nostra immagine non è mai adeguatamente aggiornata. Un problema correlato è poi la bidimensionalità delle immagini, le quali sono mere rappresentazioni della realtà e non riescono a trasmetterne tutta la complessità. In sostanza, cercando attivamente di essere “noi stessi” finiamo per indossare degli abiti di cartongesso che inibiscono i movimenti e ostacolano la nostra performance. Eppure lo scenario descritto è il male minore, poiché il più delle volte si ha in mente come ci si dovrebbe comportare in determinate situazioni e si cerca l’allineamento a questo modello aprioristico calato dall’alto; non c’è nemmeno bisogno di dire che il risultato è spesso disastroso.

Quello di cui realmente abbiamo bisogno non è l’immagine giusta da presentare, ciò che ci serve è la capacità di essere spontanei. Ok ma, ora che abbiamo strutturato meglio il concetto, come si diventa spontanei2? Altra domanda su cui si sono arrovellate parecchie scuole di pensiero (specialmente in Oriente) e che richiederebbe un trattato per rispondere. Questo post è però più una chiacchierata informale atta a fornire spunti riflessivi, quindi rispondo con una sola parola: rilassandosi.

“Take it easy”, “Stai sciallato”, “Non farti seghe mentali”, sono tutti consigli eccellenti è molto più puntuali dell’abusato “Sii te stesso”! Quanta saggezza che c’è nei cliché, vero? Chi l’avrebbe mai detto?! Continuando a pensare e pianificare le cose giuste da fare o dire la mente si ingolfa di pensieri, l’attenzione cala, la reattività diminuisce, la tensione muscolare aumenta, l’ansia cresce; tutto questo finirà per mettervi i bastoni fra le ruote e aumenterà la vostra avversione verso un certo tipo di situazioni. Non sono però le circostanze a generare il disagio, bensì l’atteggiamento che si ha nei loro confronti.

Va benissimo cercare di migliorare alcune caratteristiche di sé, è necessario studiare per gli esami universitari, è sempre meglio prepararsi prima di un colloquio lavorativo o prima di parlare in pubblico, ma il lavoro concettuale deve fermarsi a quella fase preliminare. Quando arriva il momento di agire tutto il resto deve passare in secondo piano, perché quando i pensieri interferiscono con le azioni il risultato non è mai ottimale3; non può esistere una “spontaneità controllata”4.

Inspira, fai vuoto nella mente. Espira, sciogli le tue ansie. Avanza e inizia lo spettacolo.


  1. J. Baggini, Is there a real you? 
  2. Ho il sospetto che tornerò sull’argomento, in futuro; ad ogni modo la meditazione aiuta senza dubbio. 
  3. B. Sian & C. Thomas, On the fragility of skilled performance: What governs choking under pressure? in “Journal of Experimental Psychology: General”, 2001. 
  4.  Essere spontanei non è importante solo perché piacevole e perché garantisce un maggior grado di efficienza in determinati contesti, ma ha anche il pregio di essere ben recepita dagli altri. Paradossalmente si ha una maggiore probabilità di fare una buona impressione se non ci si preoccupa troppo dell’impressione che si vuole dare. 

Un approccio pragmatico all’idealismo

Come chi mi conosce bene sa (e come ho già avuto modo di scrivere) mi sento spesso attanagliato da un’angosciante sensazione di ignoranza, dalla consapevolezza di non sapere mai abbastanza. Certo, questo è un ottimo propellente per la mia già vorace curiosità, mi spinge ad informarmi sempre di più ed ampliare la mia cultura, ma più conoscenza acquisisco, più la consapevolezza della mia ignoranza aumenta. È un paradosso noto fin dai tempi di Socrate, che oggi va sotto il nome di effetto Dunning-Kruger, Bertrand Russell lo ha così riassunto: “Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e di indecisioni”.

Il fatto di poter dare un nome a questa condizione non allevia però il disagio di doverci avere a che fare, soprattutto se hai 25 anni e devi impegnarti a costruire il tuo futuro, devi incanalare il fuoco che hai dentro. “A vent’anni è tutto ancora intero“, cantava Guccini, beh qualcuno lo dica alla mia testa perché non c’è ideale a me caro che un’attenta analisi di realtà non riduca in pezzi. Perché io sono un idealista, ma sono anche quello che gli anglofoni definirebbero un overthinker e queste due caratteristiche collidono tra loro, alimentando un malessere interiore che non sempre riesco a gestire.

Eppure bisogna credere in qualcosa, nonostante tutto, bisogna attivarsi per lasciare la propria impronta nel mondo, non per una qualche spinta narcisistica (sebbene quella aiuti) ma perché è importante dare uno scopo a ciò che si fa, dovesse anche essere traballante o posticcio. Il problema degli idealisti è che — più o meno consciamente — vogliono cambiare il mondo e hanno la presunzione di sapere qual è la direzione giusta da prendere per migliorare le cose. Il problema dei cinici invece è che non provano mai davvero a migliorare le cose, preferendo occuparsi del proprio tornaconto personale; molti di loro sono però ex-idealisti che si sono scontrati con il potere che lo status quo ha di corrompere anche i più nobili progetti, così si sono arresi.

Un mese fa stavo parlando con una donna che lavora per un’importante associazione senza scopo di lucro, mi ha raccontato schifata della corruzione dilagante e degli sprechi che affliggono simili realtà. È arrivata a dire che lei, da quando è venuta a conoscenza di come vengono usati i soldi che le varie No Profit o ONG raccolgono tramite le donazioni, non donerà più nemmeno un Euro per supportarle. Qualcosa di simile lo aveva detto, poco tempo prima, Umberto Galimberti durante una conferenza a cui ho assistito: se fai una donazione all’Unicef o simili, è molto probabile che vada a pagare gli hotel cinque stelle degli operatori mandati in missione. E pensare che io stavo accarezzando l’idea di avvicinarmi al mondo delle Organizzazioni Non Governative, con l’intento di aiutare gli altri.

La signora di cui sopra, alla fine del suo discorso ha chiosato: “Viviamo in mondo brutto, che ci vuoi fare”. Ecco, io però — nel mio piccolo — qualcosa vorrei fare. Ho notato che si ha sempre il (lodevole) istinto di pensare in grande, mentre forse quando si affrontano argomenti molto complessi si dovrebbe pensare in piccolo, molto in piccolo: sono un fan dei miglioramenti incrementali e credo che chiunque possa fare la differenza per l’equilibrio generale, se agisce in modo consapevole. All’inizio di questo post ho parlato dell’effetto Dunning-Kruger e di come contribuisca al senso di impotenza che sento dentro di me: ho abbastanza nozioni per comprendere la complessità delle sfide che la nostra epoca storica ci sta lanciando, ma non ho minimamente le competenze per abbozzare possibili soluzioni. Forse non avrò mai queste competenze, ma credo di poter lo stesso dare il mio decisivo contributo.

L’approccio che ho deciso di adottare si basa in larga parte sulle riflessioni pubblicate da Hagop Sarkissian nel saggio “Minor tweaks, major payoffs: The problems and promise of situationism in moral philosophy” in cui illustra il tema del situazionismo.

Per chi non lo sapesse, i situazionisti ridimensionano la portata che i tratti caratteriali hanno nel determinare i comportamenti individuali, affermando anzi che le persone sono molto malleabili e le loro azioni sono grandemente influenzate dal tipo di ambiente in cui si trovano. A tal proposito non può non venire in mente il celeberrimo esperimento condotto da Philip Zimbardo all’Università di Stanford, capace di trasformare dei bravissimi ragazzi in veri e propri aguzzini; il libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” che Zimbardo scrisse in seguito, spiega quali sono le condizioni ambientali in grado di far germogliare il male nell’animo umano.

Sarkissian però non si arrocca su una posizione di determinismo ambientale, figlia del dualismo che troppo spesso permea il nostro modo di ragionare. Scrive:

Siamo variabili importanti delle nostre relazioni interpersonali, essendo le nostre azioni legate indissolubilmente a quelle altrui. […] Gli individui possono essere visti come parti di un contesto, come punti focali di una rete sociale. Da questa prospettiva un individuo, per quanto unico, resta connesso a ed influenzato da una più larga struttura sociale, mentre al contempo ne condizona le dinamiche con il suo stesso comportamento.

L’idea, benché non convenzionale, non è certo nuova1 ed è comune presso le culture asiatiche, abituate ad avere una visione olistica sul mondo. Sarkissian stesso arriva a citare gli Annali di Confucio, abbracciando la tesi dell’autocoltivazione come mezzo per influenzare positivamente l’ambiente in cui ci si trova, di modo da migliorarlo ed esserne a nostra volta positivamente influenzati.

Non entro nel merito di tutti gli argomenti discussi: il saggio è ben fatto, scorrevole e piuttosto breve (10 pagine), quindi ne consiglio vivamente la lettura. Quello che mi interessa, al fine di questa riflessione mista a sfogo, è spiegare quello che da un po’ di tempo sto cercando di fare, mentre finisco di sistemare i dettagli necessari per iniziare una vera e propria carriera lavorativa. Invece di mirare a cambiare il mondo, sto cercando di migliorare il più possibile quel pezzo di mondo che mi circonda, scegliendo consapevolmente di agire in modo costruttivo ogni volta che me ne si presenti l’occasione.

Da un lato cerco di frequentare ambienti che stimolino la mia crescità anziché ostacolarla, dall’altro coltivo in vari modi una disposizione d’animo che abbia un’influenza positiva sulle persone con cui interagisco. Come si evince dal lavoro di Sarkissian (e come scrissi anni fa), persino un sorriso o una parola cordiale possono avere un potere trasformativo sulla giornata di chi li riceve e, per riflesso, su quella di molta altra gente. Non mi spingo troppo in là cercando di incarnare il jūnzǐ di confuciana memoria — credo diventerei nevrotico nel provarci — ma voglio assumermi la piena responsabilità delle mie azioni (anche piccole) e prendere coscienza del fatto che sì: posso fare la differenza, anche come sig. Nessuno.

Forse è troppo sperare che questa idea prenda piede presso un numero abbastanza corposo di persone da mitigare in modo sostanziale i conflitti presenti nella società odierna, fino magari a raggiungere una massa critica tale da operare un cambio di paradigma culturale, ma ormai lo sapete: sono un idealista, lasciatemi sognare.


  1. Anche Epitteto aveva affrontato il problema, in qualche modo. 

Più liberi o più sicuri? Riflessioni sul caso “Apple vs FBI”

A meno che non siate completamente disconnessi dal mondo, è probabile che abbiate sentito parlare della controversia sorta tra Apple e FBI riguardo l’accesso ai dati contenuti nell’iPhone appartenuto all’attentatore della strage di San Bernardino.1

Cerco di riportare i fatti in breve. Il 16 febbraio scorso, in una lettera aperta, il CEO di Apple Tim Cook ha reso noto che l’FBI ha chiesto e ottenuto un’ordinanza per indurre l’azienda a collaborare nel recupero dei dati contenuti in un iPhone trovato durante le indagini. Chiaramente Apple aveva già fatto la sua parte, fornendo alle autorità le informazioni presenti nei server di Cupertino, ma il sistema operativo degli iPhone è strutturato in modo tale da rendere impossibile l’accesso al contenuto del dispositivo senza conoscere il codice di sblocco.

Dopo due mesi ti tentativi infruttuosi, l’FBI ha dunque chiesto ad Apple di compilare ad hoc una versione di iOS priva di alcuni sistemi di sicurezza, di modo da poterla poi installare sul telefono in loro possesso e accedere ai dati con maggiore facilità. L’ordinanza del giudice impugnata dai Federali non è però vincolante e lascia all’azienda la possibilità di opporvisi, facoltà che Tim Cook ha deciso di esercitare, spiegando le sue ragioni nella lettera citata in apertura.

A fronte di questa spinosa vicenda, come spesso accade, l’opinione pubblica si è polarizzata: da un lato chi vede Apple come paladina della privacy, dall’altro chi ritiene che un’azienda non possa metter becco nelle questioni di sicurezza nazionale.

Tempo fa scrissi un post dal titolo “Ecco perché continuerò ad usare iPhone”, il che non lascia dubbi su quale sia la mia opinione. In quel post non provai nemmeno a nascondere la natura ideologica della mia posizione, ma per quanto riguarda questa vicenda ho invece un parere ben più ragionato che credo valga la pena esporre; lo farò sotto forma di risposta alle due critiche che maggiormente ho visto rivolgere a Tim Cook.

 

Critica 1 – L’FBI è interessata a quello specifico iPhone, accontentarla non mette a rischio tutti gli utenti.

Occorre innazitutto ricordare che l’Intelligence degli Stati Uniti ha un pessimo precedente in materia di violazione della privacy: poco più di due anni fa Edward Snowden rivelò pubblicamente i dettagli dei programmi di sorveglianza di massa svolti dall’NSA, il che fa sollevare più di un legittimo dubbio riguardo le intenzioni dei federali e la loro effettiva volontà di distruggere la versione modificata di iOS, una volta raggiunto il loro scopo.

La vera risposta alla critica però la fornisce già Tim Cook nella sua lettera aperta: la sola esistenza di una simile versione di iOS sarebbe un rischio enorme per la sicurezza di moltissimi utenti. Non esistono infatti “mani” abbastanza sicure quando si tratta di custodire del codice informatico, figurarsi poi se l’oggetto in questione è la chiave d’accesso ai dati contenuti in un numero impressionante di dispositivi; i migliori (o peggiori, dipende dai punti di vista) cybercriminali in circolazione non esiterebbero un minuto a cercare di impadronirsene.

Infine, per sgretolare la tanto abusata tesi “ma tanto non ho nulla da nascondere”, basta citare il recente caso riguardante Hacking Team. Per chi non lo sapesse, Hacking Team è una società Italiana che vende software di sorveglianza elettronica a governi e servizi segreti di tutto il mondo, è talmente famigerata che Reporter senza frontiere l’ha inserita nella lista dei “nemici di Internet”. È balzata agli onori della cronaca per essere stata vittima — ironia della sorte — di un attacco informatico, in seguito al quale tantissime informazioni riservate sono diventate di dominio pubblico tramite il sito WikiLeaks. Si è venuti quindi a conoscenza di dettagli preoccupanti, quali trattative con governi non rispettosi dei diritti umani e verso cui vige l’embargo dell’ONU (ad esempio il Sudan), oppure l’ultilizzo di exploit per fabbricare false prove con cui incriminare dei bersagli.

Questa vicenda non insegna solo che gli strumenti di sorveglianza possono essere utilizzati per fini malevoli, ma anche che persino chi lavora nell’ambito della sicurezza informatica può cadere vittima di attacchi esterni e venire pesantemente danneggiata. Ne consegue che le mani dell’FBI non possono dirsi sicure.

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Critica 2 – La mancanza di fiducia in governo ed autorità giudiziaria compromette il contratto sociale su cui la società stessa si basa.

Questa critica è stata mossa, tra gli altri, anche da Beppe Severgnini in un suo articolo e solleva una tematica tanto spinosa quanto interessante.

Il contratto sociale è, secondo diversi filosofi, l’atto con cui gli esseri umani superano l’incertezza dello stato di natura, cedendo una parte della loro libertà in cambio della protezione statale.

Il tradeoff “libertà-sicurezza” è al centro della prospettiva contrattualistica ed ha assunto primissima rilevanza in seguito all’attentato dell’11 settembre 2001, data di inizio di quella che è stata battezzata la “guerra al terrore”. Ora, dando per scontato che vivere in una democrazia sia ampiamente desiderabile, occorre sottolineare che nel passaggio da un’organizzazione autoritaria ad una democratica dei poteri dello Stato, pari quantità di sicurezza dovrebbero essere compatibili con più elevate quantità di libertà.

Il deflagare del terrorismo nel nuovo millennio e le risposte messe in campo da molti governi occidentali, hanno conferito nuovo smalto all’entità statale quale garante della sicurezza dei propri cittadini; come risultato stiamo assistendo alla proposizione di politiche che limitano la libertà dei cittadini promettendo in cambio maggiore sicurezza. Questa tesi è la stessa da cui muoveva le sue riflessioni Thomas Hobbes e può essere sintetizzata nella domanda fondamentale: “Più liberi o più sicuri?”. La prospettiva del filosofo britannico vede necessario rinunciare a qualche grado di libertà per ottenere un po’ più di ordine e sicurezza; qua di seguito vediamo la “curva di Hobbes” rappresentata su un piano cartesiano.

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Ad integrare il punto di vista pessimistico appena illustrato, conviene segnalare l’osservazione di John Locke che, diversamente dal suo connazionale, era più preoccupato dalle minacce alla sicurezza che governi autoritari possono attuare nei confronti dei loro cittadini. Alla domanda “Più liberi o più sicuri?” Locke risponde: “Sicuri perché liberi!”; se per Hobbes il trade-off “libertà-sicurezza” è negativo, per Locke diventa invece positivo: la crescita della prima è garanzia per la crescita della seconda. Ecco di seguito la “retta di Locke”.

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Chi dei due ha ragione? La risposta è piuttosto banale: entrambi. La garanzia di stabilità interna e di difesa dall’esterno non elimina i potenziali danni dello Stato nei confronti della sicurezza individuale, la quale risulta tutelata da una serie di diritti fondamentali che le istituzioni sono strutturate per garantire. Ecco infatti quello che accade combinando la “curva di Hobbes” con la “retta di Locke”.

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Al di sopra un livello minimo di libertà (L1) prevale la curva, ma quando si scende al di sotto di tale soglia inizia a prevalere la retta, dal momento che alle minacce provenienti dalla società o dall’esterno si sommano quelle causate da governanti autoritari: sotto il livello L1 ogni rinuncia — anche piccola — in termini di libertà produce solo minore sicurezza.

Quindi, a mano a mano che si decidesse di rinunciare (anche provvisoriamente) all’esercizio e alla tutela di qualche diritto legittimo nella speranza di recuperare sicurezza, si finirebbe in realtà con l’alimentare una spirale diretta al peggioramento tanto in termini di libertà quanto in termini di sicurezza.2 È proprio per questo che, a mio modo di vedere, Apple ha tutte le ragioni di questo mondo per opporsi alla decisione dell’FBI.

 

Recentemente intervistato sulla vicenda, l’amministratore delegato di Apple ha rivelato che negli ultimi cinque mesi i federali hanno avanzato simili richieste ben quindici volte, segnale dunque di un interesse non circoscritto agli avvenimenti di San Bernardino. Acconsentire vorrebbe dire creare un precedente con implicazioni ben al di là di quello che possiamo immaginare. Non viviamo affatto in una società perfetta, ma quel minimo di conquiste di cui oggi possiamo godere sono state ottenute grazie a persone che hanno dato la vita per costruire un futuro migliore; dobbiamo riflettere molto a lungo prima di concedere anche solo una minima ed (apparentemente) insignificante deroga a quelli che sono i pilastri di un ordinamento democratico.

Spero che questo mio post possa fungere da invito a riflettere su di una posizione che non ho visto molto considerata — per lo meno dalla stampa italiana.


AGGIORNAMENTO 15/03/2016: John Oliver, nell’episodio di Last Week Tonight andato in onda tre giorni fa, parla di crittografia e mette in luce la complessità del caso Apple vs FBI anche da punti di vista che non ho considerato. Lo aggiungo di seguito, in quanto credo possa essere una buona integrazione al discorso.


  1. Per avere un quadro completo della vicenda, suggerisco la lettura di questo articolo del Post e di quest’ottima analisi scritta da Fabio Chiusi per ValigiaBlu. 
  2. Cfr. F. Andreatta, M. Clementi, A. Colombo, M. Koenig-Archibugi
    V. E. Parsi, Relazioni Internazionali – Seconda edizione, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 269-271. 

Avventurati nelle terre selvagge

Premessa: questo post contiene una riflessione sul film “Into the Wild – Nelle terre selvagge” e contiene pertanto degli spoiler. Non proseguite la lettura se non ne conoscete la trama.

La settimana scorsa ho deciso di rivedere il film “Into The Wild”, che tanto avevo apprezzato anni fa. Mi ha fatto uno strano, ma piacevole effetto: alla luce della mia evoluzione caratteriale (una maturazione, si spera), ho potuto notare delle sfumature che in prima istanza mi erano sfuggite, o che avevo finto di non vedere.

Questa volta, pur comprendendo in pieno le motivazioni di Christopher McCandless, sono stato in grado di cogliere a pieno anche le contraddizioni (o, se si vuole, i paradossi) interni al suo percorso. Il protagonista decide di imbarcarsi in un viaggio verso le terre selvagge dell’Alaska, così da riscoprire cosa significhi “Vivere” nella sua accezione più pura, libera da condizionamenti sociali e preconcetti mentali. È quindi interessante notare come, in perfetta sintonia con uno dei più grandi cliché, la parte fondamentale per il suo processo di crescita non è data dalle esperienze che vive quando giunge a destinazione, bensì da quelle avute durante il viaggio che compie. Fondamentali risultano in particolar modo le amicizie che stringe: ogni persona incontrata durante il suo vagabondare verso nord, gli trasmette importanti insegnamenti o abilità che gli saranno poi utili per sopravvivere in Alaska.

Christopher Johnson McCandless fugge dalla famiglia e dall’intera società spinto da una incessante sete di libertà, crea quindi l’alter ego Alexander Supertramp e si imbarca in una lunga epopea tramite cui comprende che sin dal principio non c’era mai stato nulla da cui fuggire. Impara la lezione nel modo più brutale, scrivendo la frase: “La felicità è reale solo quando condivisa” e riappropriandosi in punto di morte del suo nome di battesimo.

È una storia — tragica — di formazione, la sua. Il motivo per cui risalta tra le mille altre esistenti è che si tratta di una biografia: Christopher McCandless è realmente esistito e ha fatto davvero tutto ciò che è narrato nel film. Le sue azioni sono state il risultato dell’estremizzazione e spettacolarizzazione di un processo che, in un modo nell’altro, vive ciascuno di noi. Nel mio piccolo, mi illudo di aver capito che strade anche radicalmente diverse portano alle stesse destinazioni, che per arrivare alle conclusioni di Christopher non sia necessario andare ad invischiarsi in situazioni di palese rischio vita; a ben vedere sono anche concetti triti e ritriti, cliché che possono essere letti in moltissimi libri, ma per coglierne la verità, interiorizzarla ed uscirne trasformati dobbiamo sperimentarli sulla nostra pelle.

In un certo qual modo dobbiamo soffrire, dobbiamo morire. Non parlo della morte fisica, bensì di quella trasmutazione che emerge dallo smantellamento di precedenti schemi mentali, di quel terremoto che riduce in briciole le fondamenta della tua stessa esistenza e ti lascia vuoto, impotente. È in questa condizione che, più o meno consapevolmente, avviene il passaggio ad una fase nuova della vita, si arriva ad avere una prospettiva più ampia sulle cose e aumenta la consapevolezza di quanto ancora si deve imparare. Non credo che si attraversi una volta sola questo passaggio, penso lo si affronti ciclicamente, talvolta imparando sempre una stessa lezione che fatica ad essere assimilata a dovere.

In questo, credo, siamo tutti perfettamente uguali. Penso che la vita consista in un flusso di coscienza che, cristallizatosi in un Io, attraversa sempre le stesse fasi, imparando le stesse lezioni e arrivando grossomodo alle stesse conclusioni; ciò che cambia è solo l’angolazione della prospettiva. Il cammino della nostra crescita è prima di tutto un percorso interiore e gli accidenti esterni non fanno altro che innescare una proiezione della nostra psiche sul mondo, esteriore ed interiore si fondono in perfetta identità.

Le terre selvagge le abbiamo dentro e non ci resta che esplorarle.

 

Una risata ci libererà

Ho sempre l’impulso di cercare la posizione intermedia, conciliante tra i due estremi, tanto che col tempo sono arrivato a definirmi un “cultore della via di mezzo”; magari è uno dei motivi per cui sono attratto dal Buddismo, che ha questo principio tra i capisaldi. Forse questa mia necessità di comprendere ciò che succede, di cogliere anche la più piccola sfumatura cromatica deriva dalla tendenza che ho, quando sotto stress, ad adottare istanze manichee.

Non è però un vizio soltanto mio: più si analizza qualcosa, più ci si rende conto di quanto questa sia complessa e di quanto la nostra prospettiva sia estremamente limitata. Siamo sempre ignoranti in un modo o nell’altro, l’ignoranza porta insicurezza e, siccome la precarietà non ci piace, il nostro bisogno di ordine ci porta a semplificare; vedere il mondo in codice binario è rassicurante: ogni cosa è al proprio posto, c’è il bene e c’è il male. Fine.

Poco importa che la morale sia estremamente relativa e che il concetto di “bene” sia solitamente associato al proprio gruppo di appartenenza (e quindi a sé stessi), mentre il “male“ è il “diverso da noi”. Se il modello è semplice e rassicurante ci attrae, quindi lo si accetta e si finisce a vedere soltanto conferme della propria opinione.

Purtroppo rendersi conto dei propri bias non è sufficiente per non cadere nelle loro trappole. Il problema del cercare la via di mezzo è lo stesso di ogni soteriologia: stabilisci un obiettivo desiderabile e lo rendi “il bene”, ma per far ciò hai già ben chiaro in testa quale sia “il male“; ecco che hai radicalizzato la tua posizione, rendendo la “via di mezzo” nient’altro che l’estremo di un continuum. Serve grande umiltà per accettare la propria impotenza di fronte a questo meccanismo perverso.

Ho esposto il problema della “via di mezzo”, ma credo che il concetto abbia applicazione universale: un’idea nobile mossa dai migliori intenti corre sempre il rischio di venire snaturata dalle persone che cercano di attuarla, trasformandosi così in ideologia. Visto il periodo che stiamo vivendo non possono non venirmi in mente i moti per l’equità sociale, tematica verso cui sono estremamente sensibile e a cui mi trovo a pensare spesso. Vuoi per emergenza, vuoi per eccesso di enfasi, vuoi per strumentalizzazione politica, credo che certe questioni non vengano analizzate con l’accortezza che meritano. Il dibattito pubblico si traduce inevitabilmente in uno scontro tra posizioni, “noi” contro “loro”, “giusto” contro “sbagliato”. È follia.

Da una parte vengono coniati neologismi come “Social Justice Warrior” o il nostrano “buonista”1 per identificare il nemico, mentre dall’altra fioccano epiteti dal sapore partigiano. Tutto ciò non è funzionale a risolvere un problema, ma solo a vedere chiaramente chi è colui contro il quale si deve combattere. Non ci sono più proposte, tutto si riduce a slogan.

Oltre a questo, come accennavo in apertura, la cosa davvero preoccupante è la snaturazione delle intenzioni iniziali per cui il desiderio di equità, nella foga dello scontro, diventa richiesta di privilegi discriminanti in senso opposto; a tal proposito non possono non venirmi in mente le quote rosa, provvedimento palesemente incostituzionale ed iniquo. Le disparità di trattamento ovviamente esistono e c’è esigenza che vengano appianate,2 ma bisogna che ogni mossa sia studiata nei minimi dettagli poiché il più piccolo errore potrebbe avere conseguenze inaspettate e molto gravi, data la natura olistica della società.

Purtroppo però non ho dati e conoscenze adeguate per parlare in dettaglio dell’argomento. Mi sono messo a scrivere questa riflessione perché, nella mia limitata esperienza, mi sono reso conto che i paradossi sono ovunque e il modo migliore per affrontarli senza rimetterci la salute (fisica e mentale) è imparare a riderne. È qua che volevo arrivare: abbiamo un bisogno disperato della satira.

Immagino abbiate tutti presente il detto “scherza con i fanti, ma lascia stare i santi”. Ebbene, la satira deve prendersela soprattutto con i santi: deve dissacrare, cioè “mettere in discussione il sacro”. Noi Occidentali siamo così influenzati dalle religioni abramitiche che colleghiamo automaticamente la sacralità alla fede, ma tale visione riduttiva è strettamente correlata a quella che vede la parola “religione” necessariamente connessa ad una qualche forma di teismo.

Ho già scritto un post a riguardo, ma ci torno brevemente al fine di maggior chiarezza. Émile Durkheim definiva la religione come “un complesso unificato di pratiche e credenze relative al sacro” che crea un legame sociale tra persone,3 tale complesso è un sistema di simboli che impregna di significato la vita sociale e individuale.4 Dal momento che le società odierne sono molto eterogenee, gruppi di persone diversi hanno differenti concezioni del mondo, diversi valori, ossia diverse opinioni su ciò che è sacro.

In questo contesto si inserisce la satira: il suo ruolo è mettere alla berlina le nostre convinzioni, esplorare i paradossi, puntare il dito verso le nevrosi della nostra società. La satira deve essere scomoda, metterci a disagio, come disse Daniele Luttazzi: “La satira informa, deforma e fa quel cazzo che le pare”, per questo corre sempre il rischio di venire censurata. Certo, essendo comicità deve fare ridere, ma sono risate con lo stesso sapore di un rumore improvviso che ti sveglia da un bel sogno.

L’autore satirico non è un cerchiobottista5 che prende in giro entrambi gli schieramenti, per par condicio: chi fa satira colpisce tutti perché prende di mira il tessuto stesso della società; una volta ridi di gusto perché è stato detto ciò che hai sempre pensato, la volta dopo scuoti la testa perché viene espressa un’opinione che giudichi troppo estrema.

Ogni cultura ha elaborato strumenti per evadere da sé stessa, nella nostra tradizionalmente si fa uso dei buffoni. Sarà anche vero che giullari e re rimangono tali anche dopo che è stata rivelata la nudità di questi ultimi, ma l’importante è che l’audience abbia aperto gli occhi anche solo per un istante e compreso la precarietà dello status quo.

Rimaneggiando un vecchio motto: “Una risata ci libererà”.


  1. Quanto odio quel termine, mi dà l’orticaria! 
  2. Di recente sono venuto a conoscenza del problema costituito dal razzismo istituzionale, sul tema consiglio la lettura del libro “Razzisti per legge: L’Italia che discrimina”. 
  3. Cfr. E. Durkheim, “Le forme elementari della vita religiosa” 
  4. Cfr. P. Berger, “La sacra volta: elementi per una teoria sociologica della religione” 
  5. Ironicamente, vista l’apertura di questo post, potrei rientrare in questa categoria. Beh, ridiamoci su! ;) 

Il bicchiere è già rotto

Un giorno alcune persone vennero dal maestro e chiesero: “Come fai ad essere così felice in un mondo tanto precario, in cui non puoi far nulla per proteggere coloro che ami da dolore, malattia e morte?”. Il maestro prese un bicchiere e disse: “Tempo fa mi è stato regalato questo bicchiere, mi piace davvero molto. Tiene l’acqua a mia disposizione e luccica quando esposto al sole. Lo tocco e tintinna! Un giorno il vento potrebbe farlo cadere dalla mensola, oppure potrei accidentalmente urtarlo con il gomito e buttarlo giù dal tavolo. So che questo bicchiere è già rotto, quindi posso goderne davvero.

Ajahn Chah Chah Subhaddo

Il momento in cui ottieni qualcosa è il momento in cui inizi a perderla.

La Vita, istruzioni per l’uso

Ci sono degli autori — di cinema, letteratura, musica, arte in generale — che mi rimangono sconosciuti per lungo tempo, poi quando finalmente entrano nel mio radar mi chiedo: “Ma come ho fatto a vivere fino ad ora senza conoscere questo tizio?!”. Spesso a quel punto sono già morti o a fine carriera, il che fa aumentare il mio disappunto.

Alessandro Bergonzoni è uno di questi artisti: l’ho scoperto forse al momento giusto per poterne apprezzare il genio, ma probabilmente troppo tardi per poter godere in tempo reale dei suoi picchi creativi. Ciò che me lo ha fatto apprezzare subito è la sua grandissima abilità nel giocare con le parole e sovvertire gli schemi; è un anticonformista, ma non per partito preso: la sua profonda consapevolezza delle “strutture” gli consente di scomporle e ricomporle a piacimento, con un effetto disorientante e proprio per questo molto potente.

Il video con cui l’ho conosciuto è intitolato: “La Vita, istruzioni per l’uso” ed è un monologo che il comico ha tenuto nel 2011 alla Festa dell’Unità di Pesaro. Lo posto qui di seguito assieme all’invito di trovare il tempo per vederlo; siccome però so che 50 minuti sono tanti per le soglie di attenzione odierne, ho pensato di trascrivere un frammento del monologo — a mo’ di teaser — per dare un’idea dei temi trattati.

A me piaceva il granché: molti mi avevano insegnato che una cosa “non è un granché”, noi sappiamo cosa non è un granché, ma cos’è il granché? La mia biografia mi ha raccontato che c’è anche un granché: non t’accontentare, non dire “va bene così”, non andare mai a letto — vacci qualche volta, ma stai sempre con gli occhi aperti. […] Io ho il bisogno di andare a vedere, di andare a cercare. Mia madre mi diceva di passarci attraverso il concetto cattolico di “colpa”, io non ci arrivo così, io passo attraverso il caso artistico, il bisogno anche di dire: “Come può un attore finire di fare il proprio lavoro ed essere un attore?! Deve incominciare a diventare malato, deve incominciare ad essere carcerato! Quand’è che si capirà — mi dicevo allora, quasi presagendo — che i mestieri non sono scollegati?! Quand’è che si capirà che un politico non può non essere un malato, non può non essere un carcerato, non può non essere una madre, non può non essere un figlio, non può non essere un soldato?! Devi fare quel mestiere lì! Perché non ti puoi interessare quando ti capita!”. Allora, è tutto collegato…questo granché! È quello lì! Non è che la morte ti interessa alla fine della vita, quando ci sei vicino…perché, quando nasci non sei vicino al fine vita? Vedo dei bambini di due mesi in passeggino, chiedo “Quanti mesi ha?” e la tata mi dice: “Due mesi di vita”, poi vedo degli anziani in carrozzina, chiedo alla badante: “Quanti mesi ha?” e mi dice: “Due mesi di vita”…e allora! Vedi?! Il concetto del tempo…! Qualcuno mi disse da piccolo — forse ero io: “La bara è una culla che non dondola!”. Cioè, che cosa devo aspettare ancora?! La rivoluzione la devo fare io! In questa vita ho capito che non puoi essere solo padre, non puoi essere solo — Spirito Santo —…cioè, devi essere altre cose! Devi essere Tutto! Non puoi dire: “Beh adesso sono attore, vivo la mia vita, sono padre, ho dei figli…” sono figli che puoi perdere in un attimo! Gli industriali degli anni ’60 si sentivano degli dei quando producevano grandi quantità di denaro, di automobili…poi gli moriva un figlio e si sentivano delle merde. Allora io studiavo e dicevo: “Ma perché non ti senti una merda quando produci e basta, e non ti senti un dio quando muore qualcuno e quando vieni privato di qualcosa? C’è qualcosa che devi osservare della vita!”. Non puoi pensare veramente sempre alla tua condizione! “Noi” è “ioᴺ”, “io un numero infinito di volte”! Molti mi chiedono quando ho iniziato a giocare con le parole, ma non ho mai incominciato! È il pensiero che mi interessa, non le parole! È cercare di collegare pensiero ed anima! Anche la parola che io amo di più, che non posso lasciare alla Chiesa…la parola “anima” non la posso lasciare alla Chiesa e basta! La lascio all’artista, la devo lasciare all’artista anche! La devo lasciare a me! Mi dicono: “Ai tempi tuoi c’era un’altra politica, come si fa a cambiare la politica?”, deve cambiare l’anima! Un uomo che mette nel cemento armato un bambino è sì una questione politica, delinquenziale, ma è di “anima”! Com’è possibile che un uomo, un essere, abbia questa mancanza di spiritualità?! È un concetto profondo! Non di religione! Com’è possibile che la gente non si renda conto che non può essere tutta gestione economica, amministrativa, della vita?! Ci vuole un ottimo amministratore delegato che sia un poeta! Qui mancano i poeti, non gli economisti! Qui mancano i poeti! […] Un partito politico nuovo è il nostro governo interiore, il Parlamento interiore! Io decido tutti i giorni! Io ho capito che io voto tutti i giorni! Quando vedo un handicappato, in quel momento voto, sto votando! Non posso aspettare che facciano una legge su questo!