Errare

Mi è stato più volte detto che sono un tipo strano che fa cose strane. Fra queste “cose strane” che ogni tanto mi piace fare vi è l’andare a seguire conferenze (possibilmente gratuite) su temi che sembrano stimolanti; devo dire che si è rivelata una buona abitudine, in grado di fornirmi notevoli spunti di riflessione.

Il 22 maggio del 2015 andai ad un incontro organizzato dal gruppo Bridge Partners dedicato all’argomento dell’errore ed intitolato “Il Modo Giusto di Sbagliare”. La conferenza era moderata da una giornalista del Sole 24 Ore e i relatori erano tutti di un certo spessore: Giovanna Leone, docente di Psicologia Sociale all’Università Sapienza di Roma, Marco Delmastro, fisico ricercatore presso il CERN di Ginevra e il CNRS francese, Salvatore De Rienzo, consulente di Egon Zehnder, Alberto Fusi, Chief Human Capital Officer di ERG e Umberto Pelizzari, ex campione mondiale di apnea.

L’incontro è stato molto interessante in ogni sua parte (sorprendenti in modo particolare gli interventi di Pelizzari), tant’è che vi consiglio vivamente di ascoltare la registrazione integrale da me fatta. In questa sede vorrei parlare però dei contributi che in me hanno lasciato maggiormente il segno: quelli di Giovanna Leone. Dopo le doverose premesse, fatte anche dagli altri relatori, su quanto l’errore sia un indispensabile strumento didattico e di crescita professionale oltre che personale, ha parlato in modo molto interessante dell’educazione infantile.

Il bambino che non usa più le rotelline per andare in bicicletta fa questo passo perché un adulto ha scommesso su di lui e ha detto “ce la puoi fare”. È terribile quando le persone ti dicono “non ce la farai mai” perché se tu ci credi finirai effettivamente per non farlo: si chiama profezia che si auto-determina.

Questo è il motivo per cui il grande psicoterapeuta Viktor Frankl asseriva che le persone vanno sempre sovra-stimate ed incentivate a sperimentare cose nuove, a mettersi alla prova, mentre in parallelo si ricorda loro che la possibilità di fallire è sempre presente. L’errore però non va demonizzato: se viene visto come un qualcosa da evitare a tutti i costi, si interiorizza l’idea che non ci si può permettere di sbagliare perché la posta in palio è troppo alta; a volte le persone non cambiano perché non si mettono mai in gioco, poiché pensano che il fallimento sia la fine del mondo.

[…] L’errore è diverso dalla sciatteria: la sciatteria è quando non ti sei preparato abbastanza, invece l’errore — come dice l’etimo — vuol dire che sto errando, vagando qua e là, sperimentando; l’errore è figlio del fatto che tu stai provando. Ci sono persone che hanno il coraggio di provare, che si buttano, e poi ci sono persone che invece hanno paura. Io però non vedo tanto dei profili di personalità, quanto più delle situazioni tipiche (pur non negando aspetti caratteriali e genetici). Ci sono degli ambiti che permettono alle persone di sbagliare, di provarci.

Ad esempio a noi è capitato di osservare situazioni di bambini che giocano con vicino l’insegnante — che sa di essere filmata, quindi cerca di ottenere il massimo rendimento — e sono alla presa, ad esempio, con un puzzle adeguato alle loro capacità. Emergono dati interessanti, ad esempio un bambino viene di solito lasciato più libero di sbagliare rispetto ad una bambina: c’è più tolleranza per gli errori commessi dai maschi; questo atteggiamento educativo può essere alla base del cattivo rapporto che spesso le donne hanno con gli errori. Se guardiamo poi a contesti in cui sono presenti bambini appartenenti a minoranze svantaggiate (ad esempio minori Rom) riscontriamo situazioni di sovra-aiuto benevolo in cui il bambino viene continuamente corretto: lui inizia a fare il puzzle e la maestra gira i pezzi al posto suo; questo suona come dire “chissà se tu ce la fai”. Tale aspetto lo abbiamo riscontrato soprattutto nelle madri dei bambini malati cronici, che tipicamente fanno il puzzle al posto dei figli per evitare loro ulteriori fattori di stress. Questo può aumentare la paura di sbagliare, e se tu temi di sbagliare impari di meno perché la risposta più ovvia alla paura è l’inazione. Questo riconduce al problema dei genitori ansiosi che vogliono iper-controllare tutto per timore che i figli si facciano male: a volte è importante che la persona sbagli un po’.

Questo è un tema che noto tornare ciclicamente nelle mie esperienze e nelle mie letture, al punto che inizio a ritenere sia una costante su cui poter fare sempre affidamento: l’unico modo per crescere ed evolvere la propria situazione è sperimentare, correre rischi ed esporsi alla prospettiva di un fallimento che non va visto come condanna, bensì come opportunità. Tutti i discorsi sull’uscire dalla comfort zone, che fioccano a destra e a manca tanto da esser quasi diventati cliché, si basano su questa regola fondamentale.

Instaurare un rapporto costruttivo con l’errore significa ridimensionare le proprie paure, aumentare la capacità di adattamento migliorare la relazione che si ha con sé stessi1 e soprattutto facilitare l’apprendimento di nuove abilità; c’è solo un modo per riuscirci: fare cose nuove. Gli unici che non sbagliano mai sono quelli che non fanno nulla, cioè quelli che rimangono sempre uguali a loro stessi.


  1. C’è un curioso slittamento semantico che in molti hanno nel parlare degli errori commessi da sé e/o altri: “ho sbagliato” diventa automaticamente “sono sbagliato”, ma questo tipo di giudizio morale, oltre a non avere alcuna base, risulta un ostacolo insidioso ad ogni cambiamento costruttivo. 

Portare su Marte l’atmosfera di Venere

Stavo riflettendo sul fatto che mi è sempre stato molto più facile entrare in sintonia con le ragazze, piuttosto che con i ragazzi. Non ho mai provato ad indagare le cause, forse perché pensavo fosse un mio difetto o semplicemente un’abitudine consolidata dopo che, anni fa, alcuni miei grandi amici mi voltarono le spalle da un giorno all’altro. Oggi però, riflettendo su ciò che apprezzo davvero in un rapporto inter-personale, credo di aver capito dove stia la differenza tra le due categorie di persone: le donne tendono ad essere molto più disposte all’introspezione e non hanno grossi problemi a mostrarsi vulnerabili, una volta che si sentono a loro agio1.

Ormai ho capito da un po’ che io bramo connessione nei rapporti umani e provo un gran senso di appagamento quando riesco ad entrare in sintonia con una persona, è una tematica che mi è capitato di toccare anche in questo blog, un paio di anni fa. Ebbene, questa intesa si realizza se entrambe le parti sono disposte ad abbassare le difese e lasciarsi completamente andare; è come una trust fall: quel gioco in cui ti lasci cadere all’indietro, sicuro che la persona alle tue spalle ti prenderà tra le sue braccia, arrestando la caduta. Questo meccanismo funziona solo se c’è quel senso di cieca fiducia nel fatto che nessuno approfitterà di questa tua condizione svantaggiosa, ma fidarsi a tal punto da esporsi in questo modo è molto difficile.

È difficile per tutti, ma la mia esperienza mi dice che lo è di più per gli uomini che per le donne. Chiariamoci: sono riuscito ad instaurare questo tipo di rapporto anche con alcuni miei amici maschi, ma ci è voluto tanto tempo e ancora oggi noto occasionali resistenze. Di solito quando mi trovo a conversare con ragazzo e cerco di virare verso argomenti più introspettivi, finisco per trovarmi davanti ad un blocco monolitico da erodere pezzo dopo pezzo per arrivare al nucleo vitale, come risultato tendo ad irrigidirmi anche io e proiettare un’immagine di me che sarà anche quella più appropriata alla circostanza, ma non è rappresentativa di ciò che sento davvero. Spesso e volentieri, invece, una ragazza quasi mi invita a sciogliermi, mi mette a mio agio e si verifica quella compenetrazione di anime che tanto mi piace.

Nel primo caso l’interazione finisce spesso per risultare stressante e priva di significato, mentre nel secondo è molto più rilassante ed appagante. Non ho fatto alcuna ricerca in merito, ma penso che queste diverse modalità possano essere dovute in parte a differenze biologiche (e ormonali) che rendono più intuitivi certi comportamenti, e in parte da modelli interiorizzati durante la crescita. La biologia consente però margini di variazione, così come i modelli possono essere alterati e rimpiazzati; forse se le donne stanno imparando ad essere più assertive, anche gli uomini dovrebbero allenarsi all’introspezione e raggiungere così una maggiore maturità emotiva.

Questo pensiero può sembrare fin troppo campato in aria e infatti ero restio a condividerlo su queste pagine, ma poi sono incappato in un video molto interessante. Si tratta dell’esperienza di una donna che, per capire il più possibile cosa significhi essere uomo, decide di vestirne i panni per 18 mesi; tra le varie considerazioni ve ne sono anche di simili alle mie, con la differenza che le sue hanno un peso decisamente maggiore per via del modo in cui sono maturate.


  1. Quasi sicuramente esiste continuum che presenta varie posizioni, il mio discorso è una semplificazione a fini esplicativi. 

Donald Trump è colpa nostra

Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.

Non mi lancio in nessun tipo di analisi, francamente non ne ho voglia, tanto nei prossimi giorni vi troverete bombardati dal parere di personaggi illustri e non. Scrivo soltanto per comunicare il mio disgusto verso i responsabili di questo declino dell’Occidente che sembra destinato a non arrestarsi tanto presto: noi.

Con “noi” mi riferisco al frammento demografico cui gioco forza mi trovo ad appartenere: quello composto da persone mediamente colte, provenienti dall’ormai quasi estinta classe media, promotrici di valori liberali; persone che hanno fatto il liceo (magari il classico) con l’idea poi di iscriversi all’università, laurearsi, ottenere un lavoro rispettabile ed entrare a fare parte della “classe dirigente”. Le stesse persone che ora si sdegnano per la Brexit e Trump, invocando un ritorno al passato, ad un’oligarchia aristocratica priva del poco conveniente suffragio universale. Già, perché il problema è la “gggente”, mentre noi siamo virtuosi, vero? Non abbiamo capito un cazzo.

Ci siamo dati pacche sulle spalle nelle nostre torri d’avorio, ridendo del “popolino” e dei loro ridicoli rappresentanti, ignorando e male interpretando un disagio che ha continuato a crescere e bollando i suoi sfoghi come “ignoranza”. Certo, l’ignoranza è un fattore, ma è da stupidi puntare il dito verso la fiammella invece che occuparsi di chi ci sta soffiando sopra. No, non sto parlando di Salvini o Grillo (il loro ruolo viene dopo), sto parlando delle passate generazioni che, spreco dopo spreco, hanno rotto le finestre del condominio dove questa gente abita, fregandosene delle lamentele e deridendo apertamente chi invece — (forse) per opportunismo — ha mostrato di dar loro ascolto.

A furia di tirare, la corda si spezza e si finisce con la schiena nel fango. I cosiddetti (e spesso auto-proclamati) intellettuali non sono più visti come guide autorevoli, ma come antagonisti; nel migliore dei casi come una manica di egoisti boriosi, incapaci di prevedere la crisi economica1 o anche solo di avere una stima affidabile dei risultati elettorali poche ore prima del voto. La reazione di chi ha perso ogni fiducia nello status quo mira a sovvertirlo, dando nuovo impeto a tutti quei movimenti che contrastano i valori cari all’élite, dalla scienza alla democrazia.

La rabbia è molto facile da incanalare, se si toccano i punti giusti: è un meccanismo vecchissimo esemplificato molto bene da Freud nel saggio “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”.

La folla giunge subito agli estremi. Un accenno di sospetto si trasforma immediatamente in indiscutibile evidenza. Una semplice antipatia diviene subito odio feroce. Portata a tutti gli eccessi, la folla è influenzata solo da eccitazioni esasperate. Chiunque voglia agire su di essa, non ha bisogno di dare ai propri argomenti un carattere logico: deve presentare immagini dai colori più stridenti, esagerare, ripetere incessantemente la stessa cosa.2

Non c’è da stupirsi di Trump, Grillo o Salvini, ma soprattutto non è loro la colpa: sono solo sintomi, manifestazioni di un profondo disagio di cui noi siamo concausa. Possiamo fare autocritica e cercare di riunificare la frattura che si è creata all’interno del nostro (ma non solo) Paese, oppure possiamo fare come al solito e puntare il dito contro la proverbiale “casalinga di Voghera”.


In questo mio sfogo ho ricondotto l’elezioni di Trump allo scenario italiano perché è quello a me più familiare. Senza dubbio si tratta di una forzatura, ma non così importante come potrebbe sembrare, dal momento che l’intero Occidente è piuttosto omogeneo sotto alcuni punti di vista. A riprova di ciò metto qui di seguito un paio di link ad articoli che trattano le stesse tematiche dalla prospettiva statunitense (entrambi in Inglese, mi spiace).

  • How Half Of America Lost Its F**king Mind: il giornalista che scrive, cresciuto in uno Stato rurale, conservatore e ultra-cristiano, prova a dare una spiegazione del sucesso elettorale di Trump fornendo una prospettiva diversa dal solito.
  • The Intellectual Yet Idiot: il filosofo Nassim Nicholas Taleb critica aspramente gli odierni intellettuali, evidenziando in modo un po’ comico le contraddizioni insite nel loro modo di pensare.

  1. Nel novembre 2008 la Regina Elisabetta II chiese ai docenti di economia della London School of Economics come mai non avessero previsto il sopraggiungere della crisi. Dopo mesi di consultazioni risposero con una lettera aperta, dicendo di aver perso di vista il cosiddetto “rischio sistemico” e di essersi abbandonati ad una “psicologia del diniego”. Fonte: D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011. 
  2. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Bollati Boringhieri, Torino, 1978. 

Cosa vuol dire “Sii te stesso?”

Quante volte avete dato (o ricevuto) il consiglio “Sii te stesso”? È una frase talmente abusata da aver quasi perso significato, attirando anche un sacco di critiche, più o meno sensate. Ma cosa vuol dire “essere se stessi”?

Non intendo attaccare un pippone senza fine sull’origine dell’Io e sul concetto di identità perché sarebbe fuori luogo e forse anche al di là delle mie possibilità, intendo invece riflettere un attimo su cosa si intenda davvero suggerire quando si dà quel consiglio e sul perché il più delle volte non lo si capisca realmente. Il vero problema non risiede nel suggerimento in sé, ma in come viene strutturato: “Sii te stesso” rimanda all’immagine che la persona ha di sé e la spinge a tenerla ben presente nel corso della situazione che questa si trova ad affrontare.

Credo di averlo già detto in altri post, ma mi ripeto: il problema delle immagini è che sono statiche, mentre le persone si evolvono continuamente1. La differenza è notevole tra un anno e l’altro, ma può essere percepibile anche a distanza di qualche mese, cambiamo così rapidamente che la nostra immagine non è mai adeguatamente aggiornata. Un problema correlato è poi la bidimensionalità delle immagini, le quali sono mere rappresentazioni della realtà e non riescono a trasmetterne tutta la complessità. In sostanza, cercando attivamente di essere “noi stessi” finiamo per indossare degli abiti di cartongesso che inibiscono i movimenti e ostacolano la nostra performance. Eppure lo scenario descritto è il male minore, poiché il più delle volte si ha in mente come ci si dovrebbe comportare in determinate situazioni e si cerca l’allineamento a questo modello aprioristico calato dall’alto; non c’è nemmeno bisogno di dire che il risultato è spesso disastroso.

Quello di cui realmente abbiamo bisogno non è l’immagine giusta da presentare, ciò che ci serve è la capacità di essere spontanei. Ok ma, ora che abbiamo strutturato meglio il concetto, come si diventa spontanei2? Altra domanda su cui si sono arrovellate parecchie scuole di pensiero (specialmente in Oriente) e che richiederebbe un trattato per rispondere. Questo post è però più una chiacchierata informale atta a fornire spunti riflessivi, quindi rispondo con una sola parola: rilassandosi.

“Take it easy”, “Stai sciallato”, “Non farti seghe mentali”, sono tutti consigli eccellenti è molto più puntuali dell’abusato “Sii te stesso”! Quanta saggezza che c’è nei cliché, vero? Chi l’avrebbe mai detto?! Continuando a pensare e pianificare le cose giuste da fare o dire la mente si ingolfa di pensieri, l’attenzione cala, la reattività diminuisce, la tensione muscolare aumenta, l’ansia cresce; tutto questo finirà per mettervi i bastoni fra le ruote e aumenterà la vostra avversione verso un certo tipo di situazioni. Non sono però le circostanze a generare il disagio, bensì l’atteggiamento che si ha nei loro confronti.

Va benissimo cercare di migliorare alcune caratteristiche di sé, è necessario studiare per gli esami universitari, è sempre meglio prepararsi prima di un colloquio lavorativo o prima di parlare in pubblico, ma il lavoro concettuale deve fermarsi a quella fase preliminare. Quando arriva il momento di agire tutto il resto deve passare in secondo piano, perché quando i pensieri interferiscono con le azioni il risultato non è mai ottimale3; non può esistere una “spontaneità controllata”4.

Inspira, fai vuoto nella mente. Espira, sciogli le tue ansie. Avanza e inizia lo spettacolo.


  1. J. Baggini, Is there a real you? 
  2. Ho il sospetto che tornerò sull’argomento, in futuro; ad ogni modo la meditazione aiuta senza dubbio. 
  3. B. Sian & C. Thomas, On the fragility of skilled performance: What governs choking under pressure? in “Journal of Experimental Psychology: General”, 2001. 
  4.  Essere spontanei non è importante solo perché piacevole e perché garantisce un maggior grado di efficienza in determinati contesti, ma ha anche il pregio di essere ben recepita dagli altri. Paradossalmente si ha una maggiore probabilità di fare una buona impressione se non ci si preoccupa troppo dell’impressione che si vuole dare. 

Autobiografia in cinque brevi capitoli

  1. Cammino per la strada.
    C’è una buca profonda sul marciapiede.
    Ci casco dentro.
    Sono perduto, sono disperato.
    Non è colpa mia.
    Mi ci vuole parecchio per uscirne.

  2. Cammino per la stessa strada.
    C’è una buca profonda sul marciapiede.
    Fingo di non vederla
    e ci casco dentro di nuovo.
    Non posso credere di essere nello stesso posto.
    Ma non è colpa mia.
    Mi ci vuole di nuovo parecchio per uscirne.

  3. Cammino per la stessa strada.
    C’è una buca profonda sul marciapiede.
    Vedo che è lì.
    Ci casco dentro comunque…è diventata un’abitudine.
    Ho gli occhi aperti,
    so dove sono.
    È proprio colpa mia.
    Ne esco immediatamente.

  4. Cammino per la stessa strada.
    C’è una buca profonda sul marciapiede.
    Ci giro attorno.

  5. Cambio strada.

Portia Nelson

Un approccio pragmatico all’idealismo

Come chi mi conosce bene sa (e come ho già avuto modo di scrivere) mi sento spesso attanagliato da un’angosciante sensazione di ignoranza, dalla consapevolezza di non sapere mai abbastanza. Certo, questo è un ottimo propellente per la mia già vorace curiosità, mi spinge ad informarmi sempre di più ed ampliare la mia cultura, ma più conoscenza acquisisco, più la consapevolezza della mia ignoranza aumenta. È un paradosso noto fin dai tempi di Socrate, che oggi va sotto il nome di effetto Dunning-Kruger, Bertrand Russell lo ha così riassunto: “Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e di indecisioni”.

Il fatto di poter dare un nome a questa condizione non allevia però il disagio di doverci avere a che fare, soprattutto se hai 25 anni e devi impegnarti a costruire il tuo futuro, devi incanalare il fuoco che hai dentro. “A vent’anni è tutto ancora intero“, cantava Guccini, beh qualcuno lo dica alla mia testa perché non c’è ideale a me caro che un’attenta analisi di realtà non riduca in pezzi. Perché io sono un idealista, ma sono anche quello che gli anglofoni definirebbero un overthinker e queste due caratteristiche collidono tra loro, alimentando un malessere interiore che non sempre riesco a gestire.

Eppure bisogna credere in qualcosa, nonostante tutto, bisogna attivarsi per lasciare la propria impronta nel mondo, non per una qualche spinta narcisistica (sebbene quella aiuti) ma perché è importante dare uno scopo a ciò che si fa, dovesse anche essere traballante o posticcio. Il problema degli idealisti è che — più o meno consciamente — vogliono cambiare il mondo e hanno la presunzione di sapere qual è la direzione giusta da prendere per migliorare le cose. Il problema dei cinici invece è che non provano mai davvero a migliorare le cose, preferendo occuparsi del proprio tornaconto personale; molti di loro sono però ex-idealisti che si sono scontrati con il potere che lo status quo ha di corrompere anche i più nobili progetti, così si sono arresi.

Un mese fa stavo parlando con una donna che lavora per un’importante associazione senza scopo di lucro, mi ha raccontato schifata della corruzione dilagante e degli sprechi che affliggono simili realtà. È arrivata a dire che lei, da quando è venuta a conoscenza di come vengono usati i soldi che le varie No Profit o ONG raccolgono tramite le donazioni, non donerà più nemmeno un Euro per supportarle. Qualcosa di simile lo aveva detto, poco tempo prima, Umberto Galimberti durante una conferenza a cui ho assistito: se fai una donazione all’Unicef o simili, è molto probabile che vada a pagare gli hotel cinque stelle degli operatori mandati in missione. E pensare che io stavo accarezzando l’idea di avvicinarmi al mondo delle Organizzazioni Non Governative, con l’intento di aiutare gli altri.

La signora di cui sopra, alla fine del suo discorso ha chiosato: “Viviamo in mondo brutto, che ci vuoi fare”. Ecco, io però — nel mio piccolo — qualcosa vorrei fare. Ho notato che si ha sempre il (lodevole) istinto di pensare in grande, mentre forse quando si affrontano argomenti molto complessi si dovrebbe pensare in piccolo, molto in piccolo: sono un fan dei miglioramenti incrementali e credo che chiunque possa fare la differenza per l’equilibrio generale, se agisce in modo consapevole. All’inizio di questo post ho parlato dell’effetto Dunning-Kruger e di come contribuisca al senso di impotenza che sento dentro di me: ho abbastanza nozioni per comprendere la complessità delle sfide che la nostra epoca storica ci sta lanciando, ma non ho minimamente le competenze per abbozzare possibili soluzioni. Forse non avrò mai queste competenze, ma credo di poter lo stesso dare il mio decisivo contributo.

L’approccio che ho deciso di adottare si basa in larga parte sulle riflessioni pubblicate da Hagop Sarkissian nel saggio “Minor tweaks, major payoffs: The problems and promise of situationism in moral philosophy” in cui illustra il tema del situazionismo.

Per chi non lo sapesse, i situazionisti ridimensionano la portata che i tratti caratteriali hanno nel determinare i comportamenti individuali, affermando anzi che le persone sono molto malleabili e le loro azioni sono grandemente influenzate dal tipo di ambiente in cui si trovano. A tal proposito non può non venire in mente il celeberrimo esperimento condotto da Philip Zimbardo all’Università di Stanford, capace di trasformare dei bravissimi ragazzi in veri e propri aguzzini; il libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” che Zimbardo scrisse in seguito, spiega quali sono le condizioni ambientali in grado di far germogliare il male nell’animo umano.

Sarkissian però non si arrocca su una posizione di determinismo ambientale, figlia del dualismo che troppo spesso permea il nostro modo di ragionare. Scrive:

Siamo variabili importanti delle nostre relazioni interpersonali, essendo le nostre azioni legate indissolubilmente a quelle altrui. […] Gli individui possono essere visti come parti di un contesto, come punti focali di una rete sociale. Da questa prospettiva un individuo, per quanto unico, resta connesso a ed influenzato da una più larga struttura sociale, mentre al contempo ne condizona le dinamiche con il suo stesso comportamento.

L’idea, benché non convenzionale, non è certo nuova1 ed è comune presso le culture asiatiche, abituate ad avere una visione olistica sul mondo. Sarkissian stesso arriva a citare gli Annali di Confucio, abbracciando la tesi dell’autocoltivazione come mezzo per influenzare positivamente l’ambiente in cui ci si trova, di modo da migliorarlo ed esserne a nostra volta positivamente influenzati.

Non entro nel merito di tutti gli argomenti discussi: il saggio è ben fatto, scorrevole e piuttosto breve (10 pagine), quindi ne consiglio vivamente la lettura. Quello che mi interessa, al fine di questa riflessione mista a sfogo, è spiegare quello che da un po’ di tempo sto cercando di fare, mentre finisco di sistemare i dettagli necessari per iniziare una vera e propria carriera lavorativa. Invece di mirare a cambiare il mondo, sto cercando di migliorare il più possibile quel pezzo di mondo che mi circonda, scegliendo consapevolmente di agire in modo costruttivo ogni volta che me ne si presenti l’occasione.

Da un lato cerco di frequentare ambienti che stimolino la mia crescità anziché ostacolarla, dall’altro coltivo in vari modi una disposizione d’animo che abbia un’influenza positiva sulle persone con cui interagisco. Come si evince dal lavoro di Sarkissian (e come scrissi anni fa), persino un sorriso o una parola cordiale possono avere un potere trasformativo sulla giornata di chi li riceve e, per riflesso, su quella di molta altra gente. Non mi spingo troppo in là cercando di incarnare il jūnzǐ di confuciana memoria — credo diventerei nevrotico nel provarci — ma voglio assumermi la piena responsabilità delle mie azioni (anche piccole) e prendere coscienza del fatto che sì: posso fare la differenza, anche come sig. Nessuno.

Forse è troppo sperare che questa idea prenda piede presso un numero abbastanza corposo di persone da mitigare in modo sostanziale i conflitti presenti nella società odierna, fino magari a raggiungere una massa critica tale da operare un cambio di paradigma culturale, ma ormai lo sapete: sono un idealista, lasciatemi sognare.


  1. Anche Epitteto aveva affrontato il problema, in qualche modo. 

L’odio si adatta a tutto

X-Men

 

La formazione primigenia dell’identità avviene tramite un processo chiamato identificazione contro: definiamo noi stessi come “ciò che non è altro”. Questo meccanismo si estende al gruppo sociale di appartenenza, tramite cui si sviluppa un’identità collettiva che contiene ed influenza quella individuale; siamo spinti al conformismo, a compiacere i nostri simili, al punto che un gruppo isolato arriva ad avere una mentalità quasi perfettamente omogenea.

I gruppi però raramente sono isolati, per questo si arriva a distinguere tra in-group e out-group: il primo rappresenta i valori di riferimento (ciò che è bene), mentre il secondo rappresenta il “diverso” e potenzialmente minaccioso (ciò che è male). La maggior parte dei conflitti, se non proprio tutti, ricalca questo schema di base. In una società abbastanza complessa e stratificata si hanno vari gruppi di appartenenza, alcuni dei quali si sovrappongono, per cui è necessario avere gli strumenti — culturali e istituzionali — idonei a limare gli attriti e promuovere un livello accettabile di ordine.

Il sistema che al giorno d’oggi è assunto a modello vede uno dei punti chiave nella tutela di determinati diritti e libertà considerati fondamentali e votati all’inclusione. Così come i pesci che nuotano hanno difficoltà a comprendere cosa sia l’acqua, noi esseri umani ci lasciamo intorpidire dall’abitudine e ci accorgiamo di ciò che realmente è importante solo quando iniziamo a perderlo. Il muro più solido può crollare come un castello di carte facendo leva su di una minima crepa, per questo è importante che determinati diritti siano estesi a tutti e considerati inviolabili indipendentemente dalle circostanze.

Finché — almeno formalmente — siamo tutti uguali (leggi: abbiamo uguali diritti) godiamo di una complessiva immunità di gregge nei confronti di soprusi provenienti da chi ha una posizione di potere, ma nel momento in cui alcuni diventano più uguali degli altri ha inizio un effetto domino che prima o poi finirà per colpire anche coloro che inizialmente, magari scherzando, auspicavano tale cambiamento.

Il problema del promuovere l’esclusività in nome di un “bene più grande” è che si tratta di una visione estremamente miope e sottende un concetto così fumoso da poter essere adattato per giustificare ogni aberrazione; sfugge presto di mano e produce effetti inizialmente non previsti. Misure simili vengono prese in considerazione quando si è di fronte ad una minaccia e questo è più che comprensibile, ma è proprio quando ciò a cui teniamo di più viene minacciato che bisogna astenersi dal reagire di istinto.

Quando le minoranze sono discriminate istituzionalmente, tutti noi ci troviamo in una posizione precaria.

 

Avventurati nelle terre selvagge

Premessa: questo post contiene una riflessione sul film “Into the Wild – Nelle terre selvagge” e contiene pertanto degli spoiler. Non proseguite la lettura se non ne conoscete la trama.

La settimana scorsa ho deciso di rivedere il film “Into The Wild”, che tanto avevo apprezzato anni fa. Mi ha fatto uno strano, ma piacevole effetto: alla luce della mia evoluzione caratteriale (una maturazione, si spera), ho potuto notare delle sfumature che in prima istanza mi erano sfuggite, o che avevo finto di non vedere.

Questa volta, pur comprendendo in pieno le motivazioni di Christopher McCandless, sono stato in grado di cogliere a pieno anche le contraddizioni (o, se si vuole, i paradossi) interni al suo percorso. Il protagonista decide di imbarcarsi in un viaggio verso le terre selvagge dell’Alaska, così da riscoprire cosa significhi “Vivere” nella sua accezione più pura, libera da condizionamenti sociali e preconcetti mentali. È quindi interessante notare come, in perfetta sintonia con uno dei più grandi cliché, la parte fondamentale per il suo processo di crescita non è data dalle esperienze che vive quando giunge a destinazione, bensì da quelle avute durante il viaggio che compie. Fondamentali risultano in particolar modo le amicizie che stringe: ogni persona incontrata durante il suo vagabondare verso nord, gli trasmette importanti insegnamenti o abilità che gli saranno poi utili per sopravvivere in Alaska.

Christopher Johnson McCandless fugge dalla famiglia e dall’intera società spinto da una incessante sete di libertà, crea quindi l’alter ego Alexander Supertramp e si imbarca in una lunga epopea tramite cui comprende che sin dal principio non c’era mai stato nulla da cui fuggire. Impara la lezione nel modo più brutale, scrivendo la frase: “La felicità è reale solo quando condivisa” e riappropriandosi in punto di morte del suo nome di battesimo.

È una storia — tragica — di formazione, la sua. Il motivo per cui risalta tra le mille altre esistenti è che si tratta di una biografia: Christopher McCandless è realmente esistito e ha fatto davvero tutto ciò che è narrato nel film. Le sue azioni sono state il risultato dell’estremizzazione e spettacolarizzazione di un processo che, in un modo nell’altro, vive ciascuno di noi. Nel mio piccolo, mi illudo di aver capito che strade anche radicalmente diverse portano alle stesse destinazioni, che per arrivare alle conclusioni di Christopher non sia necessario andare ad invischiarsi in situazioni di palese rischio vita; a ben vedere sono anche concetti triti e ritriti, cliché che possono essere letti in moltissimi libri, ma per coglierne la verità, interiorizzarla ed uscirne trasformati dobbiamo sperimentarli sulla nostra pelle.

In un certo qual modo dobbiamo soffrire, dobbiamo morire. Non parlo della morte fisica, bensì di quella trasmutazione che emerge dallo smantellamento di precedenti schemi mentali, di quel terremoto che riduce in briciole le fondamenta della tua stessa esistenza e ti lascia vuoto, impotente. È in questa condizione che, più o meno consapevolmente, avviene il passaggio ad una fase nuova della vita, si arriva ad avere una prospettiva più ampia sulle cose e aumenta la consapevolezza di quanto ancora si deve imparare. Non credo che si attraversi una volta sola questo passaggio, penso lo si affronti ciclicamente, talvolta imparando sempre una stessa lezione che fatica ad essere assimilata a dovere.

In questo, credo, siamo tutti perfettamente uguali. Penso che la vita consista in un flusso di coscienza che, cristallizatosi in un Io, attraversa sempre le stesse fasi, imparando le stesse lezioni e arrivando grossomodo alle stesse conclusioni; ciò che cambia è solo l’angolazione della prospettiva. Il cammino della nostra crescita è prima di tutto un percorso interiore e gli accidenti esterni non fanno altro che innescare una proiezione della nostra psiche sul mondo, esteriore ed interiore si fondono in perfetta identità.

Le terre selvagge le abbiamo dentro e non ci resta che esplorarle.

 

Una risata ci libererà

Ho sempre l’impulso di cercare la posizione intermedia, conciliante tra i due estremi, tanto che col tempo sono arrivato a definirmi un “cultore della via di mezzo”; magari è uno dei motivi per cui sono attratto dal Buddismo, che ha questo principio tra i capisaldi. Forse questa mia necessità di comprendere ciò che succede, di cogliere anche la più piccola sfumatura cromatica deriva dalla tendenza che ho, quando sotto stress, ad adottare istanze manichee.

Non è però un vizio soltanto mio: più si analizza qualcosa, più ci si rende conto di quanto questa sia complessa e di quanto la nostra prospettiva sia estremamente limitata. Siamo sempre ignoranti in un modo o nell’altro, l’ignoranza porta insicurezza e, siccome la precarietà non ci piace, il nostro bisogno di ordine ci porta a semplificare; vedere il mondo in codice binario è rassicurante: ogni cosa è al proprio posto, c’è il bene e c’è il male. Fine.

Poco importa che la morale sia estremamente relativa e che il concetto di “bene” sia solitamente associato al proprio gruppo di appartenenza (e quindi a sé stessi), mentre il “male“ è il “diverso da noi”. Se il modello è semplice e rassicurante ci attrae, quindi lo si accetta e si finisce a vedere soltanto conferme della propria opinione.

Purtroppo rendersi conto dei propri bias non è sufficiente per non cadere nelle loro trappole. Il problema del cercare la via di mezzo è lo stesso di ogni soteriologia: stabilisci un obiettivo desiderabile e lo rendi “il bene”, ma per far ciò hai già ben chiaro in testa quale sia “il male“; ecco che hai radicalizzato la tua posizione, rendendo la “via di mezzo” nient’altro che l’estremo di un continuum. Serve grande umiltà per accettare la propria impotenza di fronte a questo meccanismo perverso.

Ho esposto il problema della “via di mezzo”, ma credo che il concetto abbia applicazione universale: un’idea nobile mossa dai migliori intenti corre sempre il rischio di venire snaturata dalle persone che cercano di attuarla, trasformandosi così in ideologia. Visto il periodo che stiamo vivendo non possono non venirmi in mente i moti per l’equità sociale, tematica verso cui sono estremamente sensibile e a cui mi trovo a pensare spesso. Vuoi per emergenza, vuoi per eccesso di enfasi, vuoi per strumentalizzazione politica, credo che certe questioni non vengano analizzate con l’accortezza che meritano. Il dibattito pubblico si traduce inevitabilmente in uno scontro tra posizioni, “noi” contro “loro”, “giusto” contro “sbagliato”. È follia.

Da una parte vengono coniati neologismi come “Social Justice Warrior” o il nostrano “buonista”1 per identificare il nemico, mentre dall’altra fioccano epiteti dal sapore partigiano. Tutto ciò non è funzionale a risolvere un problema, ma solo a vedere chiaramente chi è colui contro il quale si deve combattere. Non ci sono più proposte, tutto si riduce a slogan.

Oltre a questo, come accennavo in apertura, la cosa davvero preoccupante è la snaturazione delle intenzioni iniziali per cui il desiderio di equità, nella foga dello scontro, diventa richiesta di privilegi discriminanti in senso opposto; a tal proposito non possono non venirmi in mente le quote rosa, provvedimento palesemente incostituzionale ed iniquo. Le disparità di trattamento ovviamente esistono e c’è esigenza che vengano appianate,2 ma bisogna che ogni mossa sia studiata nei minimi dettagli poiché il più piccolo errore potrebbe avere conseguenze inaspettate e molto gravi, data la natura olistica della società.

Purtroppo però non ho dati e conoscenze adeguate per parlare in dettaglio dell’argomento. Mi sono messo a scrivere questa riflessione perché, nella mia limitata esperienza, mi sono reso conto che i paradossi sono ovunque e il modo migliore per affrontarli senza rimetterci la salute (fisica e mentale) è imparare a riderne. È qua che volevo arrivare: abbiamo un bisogno disperato della satira.

Immagino abbiate tutti presente il detto “scherza con i fanti, ma lascia stare i santi”. Ebbene, la satira deve prendersela soprattutto con i santi: deve dissacrare, cioè “mettere in discussione il sacro”. Noi Occidentali siamo così influenzati dalle religioni abramitiche che colleghiamo automaticamente la sacralità alla fede, ma tale visione riduttiva è strettamente correlata a quella che vede la parola “religione” necessariamente connessa ad una qualche forma di teismo.

Ho già scritto un post a riguardo, ma ci torno brevemente al fine di maggior chiarezza. Émile Durkheim definiva la religione come “un complesso unificato di pratiche e credenze relative al sacro” che crea un legame sociale tra persone,3 tale complesso è un sistema di simboli che impregna di significato la vita sociale e individuale.4 Dal momento che le società odierne sono molto eterogenee, gruppi di persone diversi hanno differenti concezioni del mondo, diversi valori, ossia diverse opinioni su ciò che è sacro.

In questo contesto si inserisce la satira: il suo ruolo è mettere alla berlina le nostre convinzioni, esplorare i paradossi, puntare il dito verso le nevrosi della nostra società. La satira deve essere scomoda, metterci a disagio, come disse Daniele Luttazzi: “La satira informa, deforma e fa quel cazzo che le pare”, per questo corre sempre il rischio di venire censurata. Certo, essendo comicità deve fare ridere, ma sono risate con lo stesso sapore di un rumore improvviso che ti sveglia da un bel sogno.

L’autore satirico non è un cerchiobottista5 che prende in giro entrambi gli schieramenti, per par condicio: chi fa satira colpisce tutti perché prende di mira il tessuto stesso della società; una volta ridi di gusto perché è stato detto ciò che hai sempre pensato, la volta dopo scuoti la testa perché viene espressa un’opinione che giudichi troppo estrema.

Ogni cultura ha elaborato strumenti per evadere da sé stessa, nella nostra tradizionalmente si fa uso dei buffoni. Sarà anche vero che giullari e re rimangono tali anche dopo che è stata rivelata la nudità di questi ultimi, ma l’importante è che l’audience abbia aperto gli occhi anche solo per un istante e compreso la precarietà dello status quo.

Rimaneggiando un vecchio motto: “Una risata ci libererà”.


  1. Quanto odio quel termine, mi dà l’orticaria! 
  2. Di recente sono venuto a conoscenza del problema costituito dal razzismo istituzionale, sul tema consiglio la lettura del libro “Razzisti per legge: L’Italia che discrimina”. 
  3. Cfr. E. Durkheim, “Le forme elementari della vita religiosa” 
  4. Cfr. P. Berger, “La sacra volta: elementi per una teoria sociologica della religione” 
  5. Ironicamente, vista l’apertura di questo post, potrei rientrare in questa categoria. Beh, ridiamoci su! ;) 

Drògati di esseri umani

Chi segue questo blog da un po’ di tempo avrà notato la mia tendenza a parlare di rapporti umani e di quanto sia importante stabilire una connessione profonda con altri individui, al fine di vivere in modo gratificante; parallelamente ho spesso affrontato la pericolosità del comfort eccessivo quale fattore deleterio per rapporti sociali e foriero di insoddisfazione, suggerendo pratiche meditative come antidoto al nostro stile di vita nevrotico (benché sappia che non è l’unica strada percorribile).

Oggi mi sono imbattuto in un video video del canale YouTube Kurzgesagt 1 che, parlando della dipendenza da droghe, finisce per trattare proprio questo argomento a me tanto caro. Ho pensato di proporlo qua sul blog (ci sono persino i sottotitoli in Italiano, tra le opzioni).


  1. Dovete iscrivervi. Fidatevi.