Un approccio pragmatico all’idealismo

Come chi mi conosce bene sa (e come ho già avuto modo di scrivere) mi sento spesso attanagliato da un’angosciante sensazione di ignoranza, dalla consapevolezza di non sapere mai abbastanza. Certo, questo è un ottimo propellente per la mia già vorace curiosità, mi spinge ad informarmi sempre di più ed ampliare la mia cultura, ma più conoscenza acquisisco, più la consapevolezza della mia ignoranza aumenta. È un paradosso noto fin dai tempi di Socrate, che oggi va sotto il nome di effetto Dunning-Kruger, Bertrand Russell lo ha così riassunto: “Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e di indecisioni”.

Il fatto di poter dare un nome a questa condizione non allevia però il disagio di doverci avere a che fare, soprattutto se hai 25 anni e devi impegnarti a costruire il tuo futuro, devi incanalare il fuoco che hai dentro. “A vent’anni è tutto ancora intero“, cantava Guccini, beh qualcuno lo dica alla mia testa perché non c’è ideale a me caro che un’attenta analisi di realtà non riduca in pezzi. Perché io sono un idealista, ma sono anche quello che gli anglofoni definirebbero un overthinker e queste due caratteristiche collidono tra loro, alimentando un malessere interiore che non sempre riesco a gestire.

Eppure bisogna credere in qualcosa, nonostante tutto, bisogna attivarsi per lasciare la propria impronta nel mondo, non per una qualche spinta narcisistica (sebbene quella aiuti) ma perché è importante dare uno scopo a ciò che si fa, dovesse anche essere traballante o posticcio. Il problema degli idealisti è che — più o meno consciamente — vogliono cambiare il mondo e hanno la presunzione di sapere qual è la direzione giusta da prendere per migliorare le cose. Il problema dei cinici invece è che non provano mai davvero a migliorare le cose, preferendo occuparsi del proprio tornaconto personale; molti di loro sono però ex-idealisti che si sono scontrati con il potere che lo status quo ha di corrompere anche i più nobili progetti, così si sono arresi.

Un mese fa stavo parlando con una donna che lavora per un’importante associazione senza scopo di lucro, mi ha raccontato schifata della corruzione dilagante e degli sprechi che affliggono simili realtà. È arrivata a dire che lei, da quando è venuta a conoscenza di come vengono usati i soldi che le varie No Profit o ONG raccolgono tramite le donazioni, non donerà più nemmeno un Euro per supportarle. Qualcosa di simile lo aveva detto, poco tempo prima, Umberto Galimberti durante una conferenza a cui ho assistito: se fai una donazione all’Unicef o simili, è molto probabile che vada a pagare gli hotel cinque stelle degli operatori mandati in missione. E pensare che io stavo accarezzando l’idea di avvicinarmi al mondo delle Organizzazioni Non Governative, con l’intento di aiutare gli altri.

La signora di cui sopra, alla fine del suo discorso ha chiosato: “Viviamo in mondo brutto, che ci vuoi fare”. Ecco, io però — nel mio piccolo — qualcosa vorrei fare. Ho notato che si ha sempre il (lodevole) istinto di pensare in grande, mentre forse quando si affrontano argomenti molto complessi si dovrebbe pensare in piccolo, molto in piccolo: sono un fan dei miglioramenti incrementali e credo che chiunque possa fare la differenza per l’equilibrio generale, se agisce in modo consapevole. All’inizio di questo post ho parlato dell’effetto Dunning-Kruger e di come contribuisca al senso di impotenza che sento dentro di me: ho abbastanza nozioni per comprendere la complessità delle sfide che la nostra epoca storica ci sta lanciando, ma non ho minimamente le competenze per abbozzare possibili soluzioni. Forse non avrò mai queste competenze, ma credo di poter lo stesso dare il mio decisivo contributo.

L’approccio che ho deciso di adottare si basa in larga parte sulle riflessioni pubblicate da Hagop Sarkissian nel saggio “Minor tweaks, major payoffs: The problems and promise of situationism in moral philosophy” in cui illustra il tema del situazionismo.

Per chi non lo sapesse, i situazionisti ridimensionano la portata che i tratti caratteriali hanno nel determinare i comportamenti individuali, affermando anzi che le persone sono molto malleabili e le loro azioni sono grandemente influenzate dal tipo di ambiente in cui si trovano. A tal proposito non può non venire in mente il celeberrimo esperimento condotto da Philip Zimbardo all’Università di Stanford, capace di trasformare dei bravissimi ragazzi in veri e propri aguzzini; il libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” che Zimbardo scrisse in seguito, spiega quali sono le condizioni ambientali in grado di far germogliare il male nell’animo umano.

Sarkissian però non si arrocca su una posizione di determinismo ambientale, figlia del dualismo che troppo spesso permea il nostro modo di ragionare. Scrive:

Siamo variabili importanti delle nostre relazioni interpersonali, essendo le nostre azioni legate indissolubilmente a quelle altrui. […] Gli individui possono essere visti come parti di un contesto, come punti focali di una rete sociale. Da questa prospettiva un individuo, per quanto unico, resta connesso a ed influenzato da una più larga struttura sociale, mentre al contempo ne condizona le dinamiche con il suo stesso comportamento.

L’idea, benché non convenzionale, non è certo nuova1 ed è comune presso le culture asiatiche, abituate ad avere una visione olistica sul mondo. Sarkissian stesso arriva a citare gli Annali di Confucio, abbracciando la tesi dell’autocoltivazione come mezzo per influenzare positivamente l’ambiente in cui ci si trova, di modo da migliorarlo ed esserne a nostra volta positivamente influenzati.

Non entro nel merito di tutti gli argomenti discussi: il saggio è ben fatto, scorrevole e piuttosto breve (10 pagine), quindi ne consiglio vivamente la lettura. Quello che mi interessa, al fine di questa riflessione mista a sfogo, è spiegare quello che da un po’ di tempo sto cercando di fare, mentre finisco di sistemare i dettagli necessari per iniziare una vera e propria carriera lavorativa. Invece di mirare a cambiare il mondo, sto cercando di migliorare il più possibile quel pezzo di mondo che mi circonda, scegliendo consapevolmente di agire in modo costruttivo ogni volta che me ne si presenti l’occasione.

Da un lato cerco di frequentare ambienti che stimolino la mia crescità anziché ostacolarla, dall’altro coltivo in vari modi una disposizione d’animo che abbia un’influenza positiva sulle persone con cui interagisco. Come si evince dal lavoro di Sarkissian (e come scrissi anni fa), persino un sorriso o una parola cordiale possono avere un potere trasformativo sulla giornata di chi li riceve e, per riflesso, su quella di molta altra gente. Non mi spingo troppo in là cercando di incarnare il jūnzǐ di confuciana memoria — credo diventerei nevrotico nel provarci — ma voglio assumermi la piena responsabilità delle mie azioni (anche piccole) e prendere coscienza del fatto che sì: posso fare la differenza, anche come sig. Nessuno.

Forse è troppo sperare che questa idea prenda piede presso un numero abbastanza corposo di persone da mitigare in modo sostanziale i conflitti presenti nella società odierna, fino magari a raggiungere una massa critica tale da operare un cambio di paradigma culturale, ma ormai lo sapete: sono un idealista, lasciatemi sognare.


  1. Anche Epitteto aveva affrontato il problema, in qualche modo.