Donald Trump è colpa nostra

Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.

Non mi lancio in nessun tipo di analisi, francamente non ne ho voglia, tanto nei prossimi giorni vi troverete bombardati dal parere di personaggi illustri e non. Scrivo soltanto per comunicare il mio disgusto verso i responsabili di questo declino dell’Occidente che sembra destinato a non arrestarsi tanto presto: noi.

Con “noi” mi riferisco al frammento demografico cui gioco forza mi trovo ad appartenere: quello composto da persone mediamente colte, provenienti dall’ormai quasi estinta classe media, promotrici di valori liberali; persone che hanno fatto il liceo (magari il classico) con l’idea poi di iscriversi all’università, laurearsi, ottenere un lavoro rispettabile ed entrare a fare parte della “classe dirigente”. Le stesse persone che ora si sdegnano per la Brexit e Trump, invocando un ritorno al passato, ad un’oligarchia aristocratica priva del poco conveniente suffragio universale. Già, perché il problema è la “gggente”, mentre noi siamo virtuosi, vero? Non abbiamo capito un cazzo.

Ci siamo dati pacche sulle spalle nelle nostre torri d’avorio, ridendo del “popolino” e dei loro ridicoli rappresentanti, ignorando e male interpretando un disagio che ha continuato a crescere e bollando i suoi sfoghi come “ignoranza”. Certo, l’ignoranza è un fattore, ma è da stupidi puntare il dito verso la fiammella invece che occuparsi di chi ci sta soffiando sopra. No, non sto parlando di Salvini o Grillo (il loro ruolo viene dopo), sto parlando delle passate generazioni che, spreco dopo spreco, hanno rotto le finestre del condominio dove questa gente abita, fregandosene delle lamentele e deridendo apertamente chi invece — (forse) per opportunismo — ha mostrato di dar loro ascolto.

A furia di tirare, la corda si spezza e si finisce con la schiena nel fango. I cosiddetti (e spesso auto-proclamati) intellettuali non sono più visti come guide autorevoli, ma come antagonisti; nel migliore dei casi come una manica di egoisti boriosi, incapaci di prevedere la crisi economica1 o anche solo di avere una stima affidabile dei risultati elettorali poche ore prima del voto. La reazione di chi ha perso ogni fiducia nello status quo mira a sovvertirlo, dando nuovo impeto a tutti quei movimenti che contrastano i valori cari all’élite, dalla scienza alla democrazia.

La rabbia è molto facile da incanalare, se si toccano i punti giusti: è un meccanismo vecchissimo esemplificato molto bene da Freud nel saggio “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”.

La folla giunge subito agli estremi. Un accenno di sospetto si trasforma immediatamente in indiscutibile evidenza. Una semplice antipatia diviene subito odio feroce. Portata a tutti gli eccessi, la folla è influenzata solo da eccitazioni esasperate. Chiunque voglia agire su di essa, non ha bisogno di dare ai propri argomenti un carattere logico: deve presentare immagini dai colori più stridenti, esagerare, ripetere incessantemente la stessa cosa.2

Non c’è da stupirsi di Trump, Grillo o Salvini, ma soprattutto non è loro la colpa: sono solo sintomi, manifestazioni di un profondo disagio di cui noi siamo concausa. Possiamo fare autocritica e cercare di riunificare la frattura che si è creata all’interno del nostro (ma non solo) Paese, oppure possiamo fare come al solito e puntare il dito contro la proverbiale “casalinga di Voghera”.


In questo mio sfogo ho ricondotto l’elezioni di Trump allo scenario italiano perché è quello a me più familiare. Senza dubbio si tratta di una forzatura, ma non così importante come potrebbe sembrare, dal momento che l’intero Occidente è piuttosto omogeneo sotto alcuni punti di vista. A riprova di ciò metto qui di seguito un paio di link ad articoli che trattano le stesse tematiche dalla prospettiva statunitense (entrambi in Inglese, mi spiace).

  • How Half Of America Lost Its F**king Mind: il giornalista che scrive, cresciuto in uno Stato rurale, conservatore e ultra-cristiano, prova a dare una spiegazione del sucesso elettorale di Trump fornendo una prospettiva diversa dal solito.
  • The Intellectual Yet Idiot: il filosofo Nassim Nicholas Taleb critica aspramente gli odierni intellettuali, evidenziando in modo un po’ comico le contraddizioni insite nel loro modo di pensare.

  1. Nel novembre 2008 la Regina Elisabetta II chiese ai docenti di economia della London School of Economics come mai non avessero previsto il sopraggiungere della crisi. Dopo mesi di consultazioni risposero con una lettera aperta, dicendo di aver perso di vista il cosiddetto “rischio sistemico” e di essersi abbandonati ad una “psicologia del diniego”. Fonte: D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011. 
  2. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Bollati Boringhieri, Torino, 1978. 

Il mondo è un po’ più freddo

Domenica 5 giugno 2016 è morto mio padre.

Non mi viene in mente nulla di sensato da dire. Eppure vorrei. Vorrei parlare di come mi sento in colpa per non avergli dimostrato l’affetto che meritava, quando era in vita. Vorrei scusarmi per tutti i casini che ho causato in famiglia e le preoccupazione che gli ho fatto provare, per colpa del mio carattere non proprio facile. Vorrei ringraziarlo per tutto quello che ha fatto per me, vorrei dirgli che ora capisco quanto fosse importante ogni minima cosa che faceva e vorrei dirgli che i suoi difetti, in fondo, erano poca roba.

Vorrei dirgli che mi rendo conto solo ora di quanto io sia stato fortunato ad avere lui come padre, lui che forse a prima vista poteva non colpire particolarmente, ma che era in grado di essere un grande esempio di correttezza ed era capace di un Amore incredibile. Lui, che con i polmoni quasi completamente divorati dai funghi ha avuto il coraggio di non lamentarsi mai e di dissimulare la sua sofferenza per non allarmare mia madre, dicendo semplicemente: “Mi sento un po’ a disagio”; è in momenti come questi che si vede il coraggio di un uomo e io posso dire che, sì, mio padre era coraggioso e ha lottato come un leone fino alla fine. Mi distrugge pensare che tutte queste qualità ho potuto realizzarle soltanto quando è stato troppo tardi. Soltanto quando ho visto la gente che gremiva la chiesa andare verso mia madre per dirle che persona immensa mio padre fosse.

La sua assenza è straordinariamente presente. Sono in alto mare e ho perso la mia bussola.

Domenica 5 giugno 2016, da quel giorno il mondo è un po’ più freddo.

Un approccio pragmatico all’idealismo

Come chi mi conosce bene sa (e come ho già avuto modo di scrivere) mi sento spesso attanagliato da un’angosciante sensazione di ignoranza, dalla consapevolezza di non sapere mai abbastanza. Certo, questo è un ottimo propellente per la mia già vorace curiosità, mi spinge ad informarmi sempre di più ed ampliare la mia cultura, ma più conoscenza acquisisco, più la consapevolezza della mia ignoranza aumenta. È un paradosso noto fin dai tempi di Socrate, che oggi va sotto il nome di effetto Dunning-Kruger, Bertrand Russell lo ha così riassunto: “Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e di indecisioni”.

Il fatto di poter dare un nome a questa condizione non allevia però il disagio di doverci avere a che fare, soprattutto se hai 25 anni e devi impegnarti a costruire il tuo futuro, devi incanalare il fuoco che hai dentro. “A vent’anni è tutto ancora intero“, cantava Guccini, beh qualcuno lo dica alla mia testa perché non c’è ideale a me caro che un’attenta analisi di realtà non riduca in pezzi. Perché io sono un idealista, ma sono anche quello che gli anglofoni definirebbero un overthinker e queste due caratteristiche collidono tra loro, alimentando un malessere interiore che non sempre riesco a gestire.

Eppure bisogna credere in qualcosa, nonostante tutto, bisogna attivarsi per lasciare la propria impronta nel mondo, non per una qualche spinta narcisistica (sebbene quella aiuti) ma perché è importante dare uno scopo a ciò che si fa, dovesse anche essere traballante o posticcio. Il problema degli idealisti è che — più o meno consciamente — vogliono cambiare il mondo e hanno la presunzione di sapere qual è la direzione giusta da prendere per migliorare le cose. Il problema dei cinici invece è che non provano mai davvero a migliorare le cose, preferendo occuparsi del proprio tornaconto personale; molti di loro sono però ex-idealisti che si sono scontrati con il potere che lo status quo ha di corrompere anche i più nobili progetti, così si sono arresi.

Un mese fa stavo parlando con una donna che lavora per un’importante associazione senza scopo di lucro, mi ha raccontato schifata della corruzione dilagante e degli sprechi che affliggono simili realtà. È arrivata a dire che lei, da quando è venuta a conoscenza di come vengono usati i soldi che le varie No Profit o ONG raccolgono tramite le donazioni, non donerà più nemmeno un Euro per supportarle. Qualcosa di simile lo aveva detto, poco tempo prima, Umberto Galimberti durante una conferenza a cui ho assistito: se fai una donazione all’Unicef o simili, è molto probabile che vada a pagare gli hotel cinque stelle degli operatori mandati in missione. E pensare che io stavo accarezzando l’idea di avvicinarmi al mondo delle Organizzazioni Non Governative, con l’intento di aiutare gli altri.

La signora di cui sopra, alla fine del suo discorso ha chiosato: “Viviamo in mondo brutto, che ci vuoi fare”. Ecco, io però — nel mio piccolo — qualcosa vorrei fare. Ho notato che si ha sempre il (lodevole) istinto di pensare in grande, mentre forse quando si affrontano argomenti molto complessi si dovrebbe pensare in piccolo, molto in piccolo: sono un fan dei miglioramenti incrementali e credo che chiunque possa fare la differenza per l’equilibrio generale, se agisce in modo consapevole. All’inizio di questo post ho parlato dell’effetto Dunning-Kruger e di come contribuisca al senso di impotenza che sento dentro di me: ho abbastanza nozioni per comprendere la complessità delle sfide che la nostra epoca storica ci sta lanciando, ma non ho minimamente le competenze per abbozzare possibili soluzioni. Forse non avrò mai queste competenze, ma credo di poter lo stesso dare il mio decisivo contributo.

L’approccio che ho deciso di adottare si basa in larga parte sulle riflessioni pubblicate da Hagop Sarkissian nel saggio “Minor tweaks, major payoffs: The problems and promise of situationism in moral philosophy” in cui illustra il tema del situazionismo.

Per chi non lo sapesse, i situazionisti ridimensionano la portata che i tratti caratteriali hanno nel determinare i comportamenti individuali, affermando anzi che le persone sono molto malleabili e le loro azioni sono grandemente influenzate dal tipo di ambiente in cui si trovano. A tal proposito non può non venire in mente il celeberrimo esperimento condotto da Philip Zimbardo all’Università di Stanford, capace di trasformare dei bravissimi ragazzi in veri e propri aguzzini; il libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” che Zimbardo scrisse in seguito, spiega quali sono le condizioni ambientali in grado di far germogliare il male nell’animo umano.

Sarkissian però non si arrocca su una posizione di determinismo ambientale, figlia del dualismo che troppo spesso permea il nostro modo di ragionare. Scrive:

Siamo variabili importanti delle nostre relazioni interpersonali, essendo le nostre azioni legate indissolubilmente a quelle altrui. […] Gli individui possono essere visti come parti di un contesto, come punti focali di una rete sociale. Da questa prospettiva un individuo, per quanto unico, resta connesso a ed influenzato da una più larga struttura sociale, mentre al contempo ne condizona le dinamiche con il suo stesso comportamento.

L’idea, benché non convenzionale, non è certo nuova1 ed è comune presso le culture asiatiche, abituate ad avere una visione olistica sul mondo. Sarkissian stesso arriva a citare gli Annali di Confucio, abbracciando la tesi dell’autocoltivazione come mezzo per influenzare positivamente l’ambiente in cui ci si trova, di modo da migliorarlo ed esserne a nostra volta positivamente influenzati.

Non entro nel merito di tutti gli argomenti discussi: il saggio è ben fatto, scorrevole e piuttosto breve (10 pagine), quindi ne consiglio vivamente la lettura. Quello che mi interessa, al fine di questa riflessione mista a sfogo, è spiegare quello che da un po’ di tempo sto cercando di fare, mentre finisco di sistemare i dettagli necessari per iniziare una vera e propria carriera lavorativa. Invece di mirare a cambiare il mondo, sto cercando di migliorare il più possibile quel pezzo di mondo che mi circonda, scegliendo consapevolmente di agire in modo costruttivo ogni volta che me ne si presenti l’occasione.

Da un lato cerco di frequentare ambienti che stimolino la mia crescità anziché ostacolarla, dall’altro coltivo in vari modi una disposizione d’animo che abbia un’influenza positiva sulle persone con cui interagisco. Come si evince dal lavoro di Sarkissian (e come scrissi anni fa), persino un sorriso o una parola cordiale possono avere un potere trasformativo sulla giornata di chi li riceve e, per riflesso, su quella di molta altra gente. Non mi spingo troppo in là cercando di incarnare il jūnzǐ di confuciana memoria — credo diventerei nevrotico nel provarci — ma voglio assumermi la piena responsabilità delle mie azioni (anche piccole) e prendere coscienza del fatto che sì: posso fare la differenza, anche come sig. Nessuno.

Forse è troppo sperare che questa idea prenda piede presso un numero abbastanza corposo di persone da mitigare in modo sostanziale i conflitti presenti nella società odierna, fino magari a raggiungere una massa critica tale da operare un cambio di paradigma culturale, ma ormai lo sapete: sono un idealista, lasciatemi sognare.


  1. Anche Epitteto aveva affrontato il problema, in qualche modo. 

Io non parlo delle cose che non conosco

Non so se conoscete qualche film di Nanni Moretti, personalmente non ne ho mai visto uno — nonostante in molti li elogino — tuttavia mi è capitato spesso di guardare con piacere degli spezzoni su Youtube. Uno di questi mi è rimasto particolarmente impresso, lo posto qui di seguito.

La trovo una scena geniale: mette alla berlina in modo impeccabile la tendenza che le persone hanno di dare un’opinione su tutto, nella convinzione che questa sia valida. È un video che potrebbe essere convertito in gif animata da utilizzare a pioggia in gran parte delle discussioni che nascono sui social network, sempre che qualcuno non ci abbia già pensato. Ecco, mi trovo d’accordo con la frase “Io non parlo delle cose che non conosco”, però poi mi fermo un attimo a pensare e mi chiedo “ma io cos’è che so, in definitiva?”.

Più il tempo passa, più mi rendo conto che non so nulla; più approfondisco un argomento, più mi sento ignorante in merito. A volte accetto serenamente questo stato di cose e ridacchio tra me e me, constatando il desiderio di trovare certezze in un Universo imprevedibile, altre volte invece mi sento schiacciato dal peso della mia inadeguatezza. Paragonarsi agli altri è come giocare alla roulette russa e lo so bene, ma non posso fare a meno di guardarmi attorno e notare persone che hanno le idee chiare riguardo i più disparati argomenti; spesso, me ne rendo conto, questa è più una tragedia per loro che per me: se ti esprimi con massima certezza riguardo un ampio numero di argomenti è perché non possiedi sufficienti informazioni da renderti conto della loro complessità.

Ci sono poi quelle rare volte in cui mi sento abbastanza ferrato su una questione, ma capita non venga preso sul serio perché il punto di vista che sto esprimendo riguarda qualcosa che non fa parte del mio percorso formativo. A volte sono io stesso a non prendermi sul serio, dal momento che aver letto un paio di libri e qualche articolo su un argomento, non mi rende necessariamente un conoscitore della materia. È un catch 22 e da quel che vedo in giro è aggirabile soltanto ignorando la sua esistenza o essendo convinti a priori di avere una buona conoscenza; curiosamente mostrarsi arroganti e saccenti sembra pagare, in molte circostanze.

Certo è che non ci sono soltanto impostori a questo mondo ed è qui che il mio disagio si intensifica. Ciò che mi disturba sopra ogni altra cosa è il non avere alcuna competenza: a fine mese compio 25 anni e la sola cosa che posso dire di avere imparato è di non sapere nulla. La società di cui — volente o nolente — mi ritrovo a far parte è basata sulla specializzazione degli individui, premia le competenze approfondite in un campo specifico; io invece mi trovo soltanto ad avere una buona cultura foraggiata da un’insaziabile curiosità, caratteristiche senza dubbio encomiabili, ma che mi lasciano nella condizione di sapere un po’ di tutto e tutto di nulla. Nella mia situazione sarò mai in grado di pagarmi le bollette? Chi lo sa.

Pensando a ciò che faccio e a ciò che potrebbe aspettarmi, mi viene in mente un’altra famosa scena di Moretti.

Un post che volevo scrivere da un po’

C’è un argomento che mi sta abbastanza a cuore e di cui sento da un po’ il bisogno di parlare, ma finisco sempre per demordere. Questo perché vorrei elaborare un discorso composito che possa dare vari spunti di riflessione e nel quale far rientrare anche la mia esperienza, ma purtroppo ogni tentativo si è rivelato terribilmente mediocre, quando non goffo. Siccome però l’esigenza di scriverne sta crescendo, ho deciso di fare spallucce ed incentrare il discorso interamente su di me, parlando di qualcosa che vivo come un problema e sperando in tal modo di esorcizzarlo.

Su questo blog do voce ai miei pensieri cercando di farlo nel modo meno banale possibile, così da allenare un po’ sia la mia scrittura che le mie capacità di ragionare. I post hanno a che fare con gli interessi che coltivo e le esperienze che compio, evidenziano una costante evoluzione del mio pensiero e mi piace considerare questo spazio web come una sorta di mappa che mostra la mia evoluzione; non è detto, però, che Jacopo Ranzani sia sempre fedele a questa rappresentazione.

Capita che alcune persone, colpite dai miei post, mi scrivano per chiedermi consigli di vario genere. Sono ben felice che ripongano fiducia in me e metto impegno nelle mie risposte, ma allo stesso tempo mi rivedo in loro e so che non sono in alcun modo nella posizione di predicare. Analogamente, quando incontro dal vivo persone con cui prima avevo avuto interazioni sono su Internet, mi trovo leggermente a disagio perché l’immagine che loro hanno di me non è completa; per qualche assurdo motivo ho paura di deluderle.1 So che non è solo frutto di mie elucubrazioni: uno di questi ragazzi, dopo un mio discorso abbastanza impegnato, mi ha detto: “Ah ecco! Iniziavo a chiedermi come mai in molti ti definiscono un filosofo!”. Questo mi mette un po’ a disagio, sinceramente.

Ho la sensazione che chi mi legge pensi a me come ad una specie di maestro zen, un filosofo saggio e calmo. Stronzate. Sono un ragazzo di 24 anni che cerca di vivere al meglio la propria vita, risolvendo vari casini e provando a non uscirne matto. Questo significa che sperimento alti e bassi più o meno come tutti, che ho le mie insicurezze e che a volte perdo completamente la bussola. Posso aiutare gli altri ed essere persino bravo nel farlo, ma quando sono io a trovarmi sotto il giogo basta davvero poco per farmi entrare in crisi; non c’è nulla di strano in questo: come mi piace spesso ripetere, siamo tutti sulla stessa barca.

Mi preme mettere questo discorso nero su bianco perché sto notando che il mio blog dà voce principalmente alla mia parte “ispirata” e “costruttiva”, facendo intravedere troppo poco ciò che le permette di esistere: l’ordine nasce dal caos e la compassione si fonda sulla sofferenza più nera. Voglio distruggere un’immagine troppo armoniosa di me perché può facilmente diventare un fardello, perché potrei incatenarmici, appiattendo le varie sfumature di me stesso in nome di una coerenza assolutamente artificiale. Posso scrivere un bellissimo post su come gestire al meglio la rabbia e, due minuti dopo la pubblicazione, litigare furiosamente in famiglia: ciò non fa di me un ipocrita, ma semplicemente un essere umano.

È molto difficile (forse è impossibile) sfuggire alle etichette: quando non sono gli altri ad attaccarle, ce le si cuce addosso da soli senza volerlo. Ogni tanto è bene affermare la propria indipendenza da tali costruzioni mentali, spero di esserci riuscito con questo ennesimo sproloquio.


  1. Ciò lascia intravedere alcune tendenze narcisistiche da parte del sottoscritto. 

Vaffanculo, 2014, è stato bello

Il 2014 è stato un anno a due facce, per me: da una parte ho vissuto i momenti più difficili della mia vita, dall’altra sono incappato in moltissime opportunità di crescita. Quando si tratta di maturare come essere umano non c’è nulla di più pedagogico delle esperienze, in tal senso sono stati molto formativi sia il lavoro come steward a Malpensa che la particolare situazione con cui mi sono dovuto confrontare in famiglia. Mi trovo però a dover ringraziare anche Internet perché l’ho usato in un modo nuovo ed estremamente gratificante.

Tramite Reddit ho interagito con persone provenienti da tutto il mondo, di cui mi era noto soltanto lo username; mi sono confrontato con punti di vista lontanissimi dai miei, ho aiutato perfetti sconosciuti a superare degli intoppi di percorso e — soprattutto — sono stato aiutato. In particolare dovrei ringraziare una persona conosciuta come JCashish e che purtroppo ha cessato ogni attività online da diversi mesi: non l’ho mai visto, eppure penso a lui come ad un caro amico. Per rendere l’idea basta dire che ho salvato la maggior parte delle nostre conversazioni da febbraio a giugno (mese in cui è sparito) in un file .pdf che conta ben 77 pagine composte da paragrafi lunghi e densi. Settantasette.

Tra tutti i consigli che mi ha dato, ve n’è uno in particolare a cui tengo molto e che mi trovo a rileggere spesso; siccome credo possa essere utile a tanti, ne riporto la traduzione di seguito.

Per come la vedo io, ti trovi ad un bivio: la strada si divide davanti a te e la via a sinistra è la più facile da seguire. Quella strada è indicata da un cartello che recita: “Favorevole-Sicura-Praticamente Nessun Rischio-Praticamente Nessuna Ricompensa”. Il cartello che indica la strada a destra, invece reca scritto: “Abbi Coraggio-Qui Affronti La Paura-Rischi&Ricompense”

Scegliendo la strada a sinistra (ogni giorno che compierai questa scelta) devi accettare le conseguenze, altrimenti ti imbatterai soltanto in sofferenza. Se scegli quella strada, sappi che la probabilità di cambiare o evolvere come persona sarà estremamente bassa. La probabilità di trovare una ragazza sarà così bassa che sperare in una tale eventualità sarebbe assurdo fino al punto da risultare una forma di tortura auto-inflitta. Camminare lungo la strada di sinistra e sperare che una partner cada dal cielo sarebbe un po’ come entrare in chiesa per cercare atei e satanici.

Nel scegliere la strada a sinistra, abbraccia totalmente la tua scelta.

Se invece dovessi scegliere la strada a destra, incapperai in molte situazioni che ti metteranno a disagio al punto da spaventarti. Quella strada ti farà affrontare il rifiuto su base quotidiana, ti insegnerà che fallire e continuare a provare è la via che porta a crescere ed evolvere in un sano-forte-equilibrato essere umano. Sulla strada a destra fallirai molte volte, ma ogni tanto ilrischio corso ti porterà ad avere successo. Dai vari buchi nell’acqua e dagli eventuali successi imparerai molte cose, incontrerai persone, farai nuovi amici e forse ti farai persino dei nemici.

Sulla strada a destra ci saranno rischi, ma chiedi a te stesso: qual è il rischio? Qual è il vero rischio che puoi correre? È reale o nella tua testa? Cosa stai rischiando? Ti prego, dimmi che cosa rischieresti.

JCashish, non leggerai mai questo post (anche perché non sai l’Italiano), ma voglio comunque ringraziarti con tutto il cuore.

Reddit a parte, nell’anno appena concluso ho potuto conoscere meglio persone geograficamente piuttosto distanti da me a cui mi ero avvicinato in passato grazie a Twitter — quindi ad Internet. Il mio concetto di amicizia, lo avrete capito, è ora molto meno rigido di un tempo, talmente fumoso da sfuggire ad una precisa definizione: l’amico è colui che mi fa sentire in un determinato modo. Il bello di avere amici in tutt’Italia è che ti incoraggia a viaggiare, il brutto è che finisci per vederli molto meno di quanto vorresti.

Internet è stato formativo anche a livello culturale perché GoodReads mi ha stimolato a leggere molto di più, grazie al folle obiettivo — non raggiunto — di 52 libri l’anno. Non solo letture però: il 2014 mi ha consentito di seguire con costanza dei corsi online; per uno strano scherzo del destino mi è capitato di sceglierne due che hanno avuto un impatto così profondo da cambiare il modo in cui vedo me stesso e l’ambiente che mi circonda. Ho già scritto in passato di “Buddhism and modern psychology”, quindi ora vorrei spendere due paroline su un MOOC ospitato da edX e conclusosi da poco: “Chinese Thought: Ancient Wisdom Meets Modern Science”.

Ovviamente sono stati i miei interessi per la cultura orientale a farmi iscrivere al corso, quindi ero certo mi sarebbe piaciuto; non potevo però immaginare che mi sarei trovato davanti ad una tale mole di contenuti, né tantomeno che sarebbe stata un’esperienza così formativa. Tra i temi che Edward Slingerland affronta vi sono: la relazione tra “natura umana” e cultura, il modo in cui si intersecano inividui e società, come le emozioni interagiscono con la razionalità; insomma, universali problemi filosofici analizzati alla luce delle moderne scoperte scientifiche. Il grosso merito di questo corso è stato permettermi di astrarre particolari problemi e guardarli in un modo non troppo condizionato dal mio framework di base. Ritengo che questa abilità vada estesa a quante più persone possibili, soprattutto perché — in un mondo sempre più globalizzato — è importante riconoscere i propri valori per quello che sono: dei punti di vista tra i tanti.

Quello di seguito è il video conclusivo del corso, vi consiglio di guardare almeno i primi 10 minuti.


Insomma, lo so che si cresce ogni anno, ma questa volta percepisco il cambiamento in un modo molto più marcato: se incontrassi il me stesso di 365 giorni fa mi troverei davanti letteralmente ad un’altra persona. Da un lato questo mi fa ben sperare per il prossimo futuro, dall’altro mi preoccupa in quanto ci sono problematiche che continuo a portarmi appresso e che vivo come opprimenti (è indicativo, ad esempio, che nei punti salienti dell’ultimo anno non abbia menzionato la mia laurea). Ironia della sorte, lo stesso Internet che ho tanto elogiato in un questa sede è spesso causa di enormi distrazioni che non sempre riesco a gestire. Potrei quindi dire che la lezione che l’anno passato mi ha scolpito nelle ossa è la seguente: bisogna accettare entrambi i lati della medaglia. Apprezzi davvero le persone a te care, se hai bene in mente che potrebbero andarsene in un battito di ciglia; dai il meglio di te stesso con gli amici, se questi li puoi vedere solo una manciata di giorni all’anno; ti entusiasmi per i miracoli di Internet perché spesso per raggiungere le perle hai dovuto scremare tanta merda.

Quindi: vaffanculo, 2014, è stato bello.

Una domanda da non fare mai


Il ruolo che, volenti o nolenti, ci troviamo ad occupare può venire avvertito come un giogo, quando diventa il principale metro di misura per il nostro valore come esseri umani. “Tu non sei il tuo lavoro” urlava Tyler Durden durante la sua crociata contro la Società delle Nevrosi; è una frase così banale, ovvia, eppure tutti se ne dimenticano, diventando oggetto di una pressione sociale che loro stessi contribuiscono ad alimentare. Persino io mi trovo a chiedere meccanicamente: “che lavoro fai?” oppure: “che cosa studi?”, ben sapendo che quando mi trovo nei panni di quello a cui vengono rivolte tali domande finisco immancabilmente per sentirmi a disagio.

Da oggi si cambia, d’ora in poi seguirò il suggerimento di Maddalena e chiederò: “quali sono i tuoi interessi?”; che poi è quello che davvero mi preme sapere quando conosco qualcuno.

Cosa significa l’ansia?

Quest’oggi, il buon Fabrizio Rinaldi ha condiviso su Twitter l’articolo “Cosa significa l’ansia?” che mi ha molto colpito. L’autore parte dal libro ‘My Age of Anxiety‘ di Scott Stossel e tenta di analizzare il fenomeno dell’ansia, ripercorrendo il pensiero di coloro che nel corso della storia si sono interessati al fanomeno (Freud su tutti), e rileggendolo alla luce delle odierne conoscenze neuroscientifiche, nel tentativo di fornire un quadro per cause e soluzioni al disturbo.

L’articolo è senza dubbio ben scritto e l’autore ha evidentemente compiuto diverse ricerche in merito, ciononostante durante tutto il corso della lettura ho provato un senso di avversione per le tesi esposte. Questo mio post è il tentativo di elaborare quella sensazione in un discorso organico, tuttavia mi rendo conto di non poter fare una vera e propria critica alle idee espresse perché la mancanza di un’adeguata preparazione in materia non me lo permette. Come fare, dunque?

Intendo risparmiare qualsiasi riflessione filosofica e riferimento scientifico, di modo da evitare il più possibile le inesattezze, appellandomi soltanto al buon senso. Non so quasi nulla di depressione, ma ho esperienza diretta di ansia e fobia sociale; ovviamente dal mio vissuto non si possono trarre dati universali, ma visto che il giornalista del New Yorker è partito dalla vicenda di Scott Stossel, faccio anche io qualcosa di analogo.

Ciò che emerge abbastanza presto dalla lettura, è la promozione dell’approccio farmacologico all’ansia ed una sostanziale critica al grado di efficacia della psicoanalisi.

Tutto ciò avrebbe dovuto rendere Freud obsoleto. Ma, per molto tempo, nessuno è sembrato accorgersene. Nessuno ha evidenziato che, se i famaci funzionano, allora forse i disturbi emotivi hanno basi neurochimiche, e l’ansia probabilmente non è (come Freud1 era arrivato a supporre) riguardo cose come la paura della castrazione. E se è un disturbo neurologico, qualcosa che ha a che fare con le ammine del cervello, allora forse non ha alcun senso passare anni distesi su un divano a fare libere associazioni riguardo i sogni della notte precedente quando puoi interrompere la sofferenza ingoiando una pillola.

Ora, in quanto organismi siamo soggetti in primo luogo alle reazioni chimiche che avvengono nel nostro corpo. È chiaro che gli psicofarmaci funzionano, così come è chiaro che assumento paracetamolo, la febbre si abbassa. È altrettanto vero che la febbre non è una malattia, ma il sintomo di un’anomalia nel proprio corpo: abbassando la temperatura non si risolve nulla, al massimo si ottiene un sollievo temporaneo. Stessa cosa dicasi per le (tante) persone che trangugiano una soluzione di acqua ed OKi come se fosse la panacea di ogni male.

Al di là di predisposizioni genetiche (parenti ansiosi) e condizionamenti ambientali (lavoro, scuola, ecc), l’ansia è un campanello di allarme: vuol dire che qualcosa non funziona come dovrebbe, ma come ogni sensazione/emozione non è mai ben chiaro a cosa si riferisca. Quasi sempre cercare di controllare o evitare situazioni ansiogene, non fa altro che peggiorare lo stato d’animo di chi le vive, per questo occorre — prima di mettersi a trangugiare farmaci — analizzare un attimo sé stessi.

Il farmaco è un aiuto che ha senso solo se accompagnato da un’adeguata terapia. Non piace la parola “terapia”? Chiamiamola “introspezione guidata orientata allo sviluppo di un comportamento funzionale”. Perché la chimica del cervello influenza il comportamento, ma la relazione vale anche al contrario, quindi c’è sempre il rischio di cadere se non impari a pedalare senza rotelle.

Cosa ho notato (e noto tutt’ora) sulle basi della mia esperienza? Che l’ansia è la degenerazione della paura, è ciò che accade quando la paura viene applicata a dei modelli mentali, invece che a pericoli reali. L’ansioso tipicamente guarda sé stesso in terza persona ed è costantemente preoccupato di fare la scelta giusta, salvo poi finire per non fare nulla (paralisi da analisi). L’ansioso è spesso tormentato dal passato, ossessionato dal futuro ed infatuato di un ideale — magari estrapolato dal contesto sociale in cui si trova — che deve seguire a tutti i costi. L’ansioso non è mai sé stesso, perché si vede come qualcosa di separato da sé, è spesso narciso. Vive come se fosse un personaggio di ‘The Sims’.

Tutto ciò che ho scritto è riferito alla mia esperienza personale e sono sicuro al 100% che non si possa assolutizzare. Sono altresì certo che limitare la propria esperienza da essere vivente ad un insieme di reazioni chimiche sia quantomeno riduttivo, e che “cervello” e “psiche” siano entità diverse, sebbene strettamente correlate.

Mia convinzione (bias) è che l’approccio alla sintomatologia delle nostre nevrosi sia figlio dello stesso meccanismo che ha generato in prima istanza il problema: l’ossessione per il controllo.


  1. Come se, da Freud ad oggi, non si fossero fatti passi avanti in campo psicanalitico. 

Volere è potere?

Sono stato decisamente molto teso negli ultimi giorni, un tipo di tensione nervosa che neanche l’esercizio fisico è riuscito a dissipare. Ho molti pensieri per la testa, ma identificarli con chiarezza è molto difficile: è tutto un brusio confuso, una sinestesia di suoni e immagini che sembra impossibile da placare. L’unica cosa chiara è l’effetto che ottiene, l’ormai familiare sensazione di catene ai polsi e di gabbia toracica compressa; la voglia di urlare “Basta!”.

Quella che segue non è una riflessione, ma una serie di punti espressi come rivendicazione di me stesso, come espressione delle mie volontà.

  • Voglio comunicare apertamente, senza rituali o formule non scritte, senza presunzioni o pregiudizi: mostrarmi per ciò che sono e venire rispettato, prima ancora che accettato o rifiutato.

  • Voglio poter dire ad una ragazza che la trovo splendida, senza imbarazzarmi o curarmi di ciò che potrebbe pensare.

  • Voglio distruggere ogni maschera.

  • Voglio ammettere di avere paura, esattamente come gli altri sei miliardi di abitanti di questa terra. Tutti hanno paura, tutti soffrono, tutti cercano di sopravvivere. Io voglio vivere.

  • Voglio rompere gli schemi.

  • Voglio sentirmi libero di vestire in nero ad un matrimonio.

  • Voglio girarmi dalla parte opposta a tutti quando sono in ascensore.

  • Voglio scrivere un post-it con la mano sinistra, solo per sentire qualcosa di non familiare, di non meccanico, di non robotico.

  • Voglio dire “ti voglio bene” ad un amico, guardandolo fisso negli occhi.

  • Voglio uscire con una ragazza solo per conoscerla, senza sentirmi obbligato a fare uno straccio di prima mossa.

  • Voglio dire di no, quando non mi va di fare qualcosa, anche se non sembra esserci motivo di rifiutare.

  • Voglio poter mandare a cagare chi ritengo se lo meriti, senza dover dare spiegazioni.

  • Voglio cantare la mia canzone preferita mentre passeggio in mezzo alla gente.

  • Voglio poter ballare, anche se goffo è scoordinato nel farlo.

  • Voglio dire ai miei genitori quanto sia loro grato.

  • Voglio incenerire l’orgoglio tra le fiamme delle emozioni vere.

  • Voglio piangere, per gioia o disperazione, e mostrare fiero le mie lacrime.

  • Voglio esprimere ad alta voce le mie preferenze e non sentirmi obbligato a giustificarle.

  • Voglio attaccare bottone con uno sconosciuto e chiedergli come si stente.

  • Voglio poter star zitto quando non ho nulla da dire; nessun silenzio dovrebbe essere definito imbarazzante.

  • Voglio che le discussioni davvero importanti avvengano faccia a faccia, anche se magari sono difficili da affrontare.

  • Voglio riuscire a pisciare anche se qualcuno mi sta guardando.

  • Voglio mettermi davanti ad uno specchio, nudo, ed apprezzare ogni centimetro del mio corpo.

  • Voglio accettare con piacere i complimenti e dimostrare gratitudine, perché nulla è dovuto.

  • Voglio esprimere ammirazione, quando questa viene dal cuore.

  • Voglio viaggiare da solo.

  • Voglio amare.

  • Voglio parlare di quell’argomento che tutti stanno evitando perché troppo a disagio per affrontarlo.

  • Voglio urlare.

  • Voglio assicurarmi che le persone realmente importanti per me capiscano quanto lo siano. Purtroppo le parole sono troppo limitate per questo scopo.

  • Voglio rivendicare il mio diritto ad incazzarmi, quando le mie palle sono piene.

  • Voglio aver fede nelle mie convinzioni, anche se nessuno è d’accordo con me.

  • Voglio sentirmi libero di aiutare, senza ricevere nulla in cambio.

  • Voglio sentirmi libero dall’aiutare, senza per ciò essere un infame.

  • Voglio sentirmi libero di accettare aiuti esterni, perché nessuno può sopravvivere restando solo.

  • Voglio essere me stesso.

  • Voglio risvegliare la vita latente in me.

New Slang

—Che stai ascoltando?
—Gli Shins, li conosci?
—No.
—Devi sentire questa canzone: ti cambierà la vita.


Ci sono volte in cui fa schifo avere venti-e-qualcosa anni. Spesso è come essere al volante di una Ferrari su una strada con il limite a 20km/h, ma i cartelli non riesci a capire chi è ad averli messi; può darsi anche siano solo nella tua testa, può essere che non siano reali. Intanto il motore si ingolfa.

Sei schiavo di concetti che non ti appartengono, ma che finisci per cucirti addosso, spinto da pressioni esterne troppo sottili per essere razionalizzate. Quando sei un bambino e ti cadono a terra le patatine, subito le raccogli e le mangi comunque; quando cresci, invece, inizi a notare lo sporco annidato sulla superficie croccante e le butti via. Allo stesso modo, lentamente, inizi a precluderti tutta una serie di azioni in nome del “buon senso” — o di chissà quale altra stronzata — e costruisci, paletto dopo paletto, una cella su misura.

Prendi per buono quello che ti dicono i genitori perché sanno ciò che è bene per te, imiti chi ti circonda perché è rischioso andare contro corrente, consegni le briglie della tua identità ad un gruppo e ottieni in cambio l’illusione di essere protetto. Tutto ciò non fa altro che alimentare lo spaesamento, la malinconia; ma non lo capisci e continui a cercare risposte al di fuori di te, interpellando persone che nel tempo hai mitizzato, durante questo processo di perdita del contatto con la realtà. Non è altro che un fragile castello di carte, ma non te ne accorgi fino a quando arriva il proverbiale “fulmine a ciel sereno”, uno shock imprevedibile, un assaggio amaro di quello che è la Vita vera. Il crollo delle tue certezze ti dimostra che nulla può essere dato per certo. Fa male, malissimo, ma ti dà anche l’opportunità di ricominciare.

Ti accorgi di essere, in definitiva, solo. Una grande realizzazione che tipicamente porta momenti di disperato diniego, vuoi qualcosa a cui aggrapparti e, se non c’è nulla attorno a te, provi a rievocare il passato. Contatti amici che hai perso di vista, o vecchi partner rimasti vittime di un amore troppo acerbo; ci parli per una sera e ti senti vivo, libero dai problemi, mentre le vostre parole riportano in vita aneddoti racchiusi nei meandri della memoria. Qualsiasi evento appare sempre più luminoso, una volta declinato al passato. Però ti accorgi che loro hanno una loro vita indipendende dalla tua, ti sembrano addirittura in gran forma; ti rendi conto di non essere indispensabile.

Al diniego, segue la rabbia: sei incazzato con il Mondo perché non riesci a trovare il tuo posto. Qualsiasi cosa ti manchi, che sia l’amore, un lavoro che ti piace, o una passione, finisci per odiare chi invece quella cosa è riuscito ad ottenerla. Perché tu no? Devi fare qualcosa, devi rimediare, devi essere completo. Provi allora a scendere a patti con la tua situazione, di modo da rialzare al testa, recuperi qualche tacca di morale, fai programmi su programmi, ma sei così concentrato su quell’astrazione che è il “futuro”, da non prestare sufficiente attenzione a ciò che stai facendo. Inciampi. Cadi faccia a terra. Ti disperi. Sei triste come non mai e, per contrasto, tutti coloro su cui posi gli occhi sembrano felici, non possono che essere felici, visto come si comportano. Sei così egocentrico da non contemplare nemmeno la possibilità che si sia tutti sulla stessa barca.

A questo punto sta a te. Puoi essere così fortunato da incontrare una persona che ti cambia la vita, ma più verosimilmente devi fermarti e ricalibrare le tue percezioni; devi arrenderti per poter ricostruire qualcosa dalle macerie. Il lutto che ha sconquassato il tuo castello di carte può portarti ad una degradante vita di autocommiserazione, oppure può darti la scossa decisiva per farti aprire gli occhi, per farti capire che non hai mai realmente iniziato a vivere.

I tratti di strada in cui procedere a 20km/h non sono poi così tanti, e non sarà certo un po’ di sporco sulle patatine ad ucciderti. Fai in modo che il tuo nuovo linguaggio (New Slang) da adulto sia una naturale evoluzione della tua voce interiore, non un’accozzaglia di convenzioni linguistiche imposte dall’alto, se non vuoi cadere in un perenne stato di nolontà.

Questa è la vita. A volte fa un male del cazzo, però è tutto quello che abbiamo.


Nota: questo post è stato ispirato dalla canzone messa in apertura e dalla visione del film ‘Garden State‘, dal quale sono tratte anche le due citazioni.