Tempo fa, in seguito al post “Fai parlare le tue azioni”, Ryan Cooper mi ha scritto per chiedermi delle delucidazioni in merito. È nato quindi un breve ed intenso scambio di punti di vista, un botta e risposta che ha avuto il merito di farmi rielaborare molti concetti su cui ruminavo da diverso tempo. Non so se sono davvero riuscito a fugare i dubbi di Ryan, né se le riflessioni da me proposte siano abbastanza chiare e lineari da poter essere condivise, ma di sicuro ho gradito la nostra conversazione e quindi, con il consenso del diretto interessato, ho deciso di riportarla di seguito.
Ryan:
Jacopo, bel pezzo, sono assolutissimamente d’accordo con te sul fatto che il fare venga sempre prima del dire.
Ero curioso, una domanda, anzi volevo fartene più di una.
Come si fa a classificare “ciò che vale davvero la pena conoscere” da ciò che non lo è? Da quello che hai scritto nel post possiamo sintetizzare che si sta cercando di fare una distinzione tra chi dice senza fare e chi non dice ma fa solamente? E a questo punto, quelli che fanno e anche dicono come sono in relazione ai precedenti? Quelli che fanno e anche dicono, ad esempio scrivendo un libro, tentando di esplicitare a parole ciò che hanno fatto con le loro azioni, non sono perlomeno da elogiare per il tentativo di esporre il loro sapere a noi che non sappiamo?Forse ho confuso il fine del post.
Nel post c’è scritto: “ciò che vale davvero la pena conoscere non può venire insegnato”, ma per “insegnato” intendi tentare di fare comprendere tramandando il sapere solo per via orale, senza che ci sia uno sforzo operativo da parte di chi sta imparando? Prendendo per buona questa interpretazione e supponendo che sia vera, cosa uno dovrebbe fare a questo punto? Come uno dovrebbe incorporare le conseguenze di tali intuizioni nella propria vita quotidiana, ed essere un tutt’uno con la propria forma mentis?
Chiedo perché i tuoi post fanno pensare e fanno sorgere domande. E questo è piacevole 🙂
Jacopo:
Purtroppo il discorso è ingabbiato nel poco spazio che gli concede la semantica, quindi non so se posso risponderti in modo soddisfacente, ma ci provo volentieri.
Premettendo che io per primo mi colloco nel marasma generale di persone alla ricerca della strada a loro più consona, la distinzione essenziale che cercavo di fare è tra “saggezza” e “conoscenza”. La conoscenza (in senso lato) può essere insegnata: puoi imparare la matematica, la scienza e svariate altre materie; non puoi però studiare come diventare saggio: lo diventi — eventualmente — continuando a sbagliare, cogliendo le strutture sottese dai tuoi errori e notando ciò che le azioni più funzionali hanno in comune tra loro.
Premesso ciò, devo aggiungere che ogni disciplina insegnabile consente di acquisire una specifica forma di saggezza, un’intuitività, per così dire; siccome tutto il sapere fa parte di un’unica struttura, è altamente probabile che la Saggezza propriamente detta sia versatile e la si possa applicare ad ogni campo (stando attenti a non cadere nel bias di conferma).
Esiste una saggezza univoca? Qualcosa che per tutti vale davvero la pena sapere? Sì e no. Individui diversi hanno modi diversi di vedere la realtà e non sono certo io quello in grado di dare la risposta definitiva a questa tua domanda, ma ho notato che filosofie anche molto differenti finiscono per dire la stessa cosa con parole diverse: c’è meno differenza tra Cristianesimo e Buddhismo di quello che si pensa, e persino un ateo potrebbe serenamente accettare le strutture di fondo su cui praticamente ogni dottrina si poggia. Ecco, forse questo che può venire inteso come “saggezza”: sapere cogliere il substrato comune ad ogni realtà.
Tornando alle tue domande, ovviamente non voglio screditare gli insegnanti (sono essenziali) perché il loro compito è differente; né chi prova a comunicare ciò che è quasi impossibile rendere a parole. Tuttavia chi realmente ha fatto fruttare le proprie riflessioni difficilmente fa proselitismo, perché è conscio del fatto di non potere trasmettere quello che sa, quindi semplicemente fa (o non fa, a seconda dei casi).
Per portare un esempio pratico: è come provare a curare il cuore infranto di un amico che ha perduto il suo primo amore; sai bene cosa sta passando, sai che molte sue azioni non faranno altro che peggiorare le cose, ma non puoi fargli sapere come superare quel dolore. Deve sbattere la testa da solo. Questa cosa mi ricorda vagamente il libro “Siddharta”.
Come fare, dunque, ad incorporare le proprie intuizioni nella quotidianità? Penso che sia quasi un automatismo, giunti ad un certo punto. So che serve tempo e servono molti errori per diventare bravi in un arte, figurarsi se l’arte in questione è quella della Vita; mica per niente l’immagine tipica del saggio coincide con quella di un vecchio in pace con sé stesso.
Ryan
Sto ancora cercando di capire con chiarezza cosa intendi con “la distinzione tra saggezza e conoscenza”. Provo a spiegarti ciò che ho capito dal tuo discorso, e nel caso, farti domande dove penso di non aver capito.
Domanda: cosa intendi per saggezza, e cosa intendi per conoscenza? Potresti definire il significato delle due parole? Mi trovi in disaccordo sulla scelta dell’esempio sull’imparare la matematica e la scienza, contrapponendolo al divenire saggio. Dici che si diventa saggi “eventualmente – continuando a sbagliare, cogliendo le strutture sottese dai tuoi errori e notando ciò che le azioni più funzionali hanno in comune tra loro.”
La matematica, così come le scienze (ma amplierei a questo punto anche a tutto lo scibile) si impara solo attraverso esperienza diretta, non basta leggerla e di sicuro non basta una persona che ti esponga i concetti. Se non ti sporchi le mani, se non vai sul campo di battaglia, se non ti sforzi attivamente a capire, a mettere in pratica, a provare, a sbagliare, nulla verrà imparato, se non qualche definizione a memoria. Cioè non verrà acquisita la semantica, se non qualche sintattica a memoria.
Forse con “differenza tra conoscenza e saggezza” intendi la differenza tra il conoscere il nome di qualcosa e l’aver capito qualcosa, cioè averla compresa. Quando si è compreso qualcosa, si è capito il suo significato, la sua semantica, l’idea sottostante. Tale idea è quindi indipendente dalla sintattica con cui essa viene espressa. Forse con “cogliere le strutture sottese” e “sapere cogliere il medesimo substrato in ogni realtà”, intendi proprio il processo di comprensione della semantica di un concetto astraendo dalla sintattica con cui tale concetto è espresso. Dove tu dici “conoscenza”, io dico il conoscere la sintattica, e dove tu dici “saggezza”, io dico il conoscere della semantica.
Devo ammettere di non aver capito il tuo terzo capoverso. Che intendi con “tutto il sapere fa parte di un’unica struttura”? Che cos’è la “Saggezza propriamente detta”? Cosa vuol dire stare attenti a non cadere nel bias di conferma quando si applica ad ogni campo la Saggezza propriamente detta? Che relazione esiste tra “ciò che sappiamo essere vero a prescindere da come individui diversi vedano la realtà” e “la saggezza univoca”?
Chiedo scusa se le domande possono essere banali; è colpa mia forse perché sono abituato a leggere troppa matematica dove i concetti vengono definiti sempre prima di essere usati nell’argomentazione.
In definitiva hai ragione: è difficile trasmettere a parole la saggezza perché essa (la saggezza) deve essere prima compresa attraverso lo studio attivo della sintattica con cui è espressa, ed in seguito acquisita del tutto tramite un’attiva esperienza dell’allievo.
Uno dei problemi principali della comunicazione (o, se vogliamo dire, della trasmissione della saggezza, o della conoscenza della semantica) è che il linguaggio naturale (cioè tutte le lingue parlate nel mondo) sono ambigue, sono imperfette, perché per una parola scritta possono esserci diversi significati e per un concetto possono esistere più parole che lo descrivono, cioè tra sintattica e semantica c’è una relazione molti-a-molti. Questo è anche uno dei motivi per cui non esistono macchine intelligenti quanto noi umani, perché il processo di attribuzione della semantica a partire da una certa sintattica non è deterministico, cioè per noi umani risulta fattibile, mentre per una macchina non lo è.
Questo problema di acquisire la saggezza, o se si vuole dire conoscenza, o meglio, riuscire a fare propria la semantica di un concetto, nell’ambito della la lettura di un libro è ben trattato nel saggio di Adler e Van Doren. Ma di certo loro non sono i primi ad averne discusso (ricordo un video di una intervista a Feynman dove ne parlava con entusiasmo).
Loro parlano di come la lettura debba essere un processo attivo da parte del lettore. Trattano ampiamente il problema della relazione tra sintattica e semantica, e alla fine espongono due metodi per testare il grado di comprensione della semantica dei concetti esposti in un libro (ovviamente si parla di libri che convengono conoscenza, non-fiction):
- Esporre a parole tue ciò che hai letto. Se uno riesce a farlo vuol dire che è riuscito ad astrarre dalla sintattica e ha compreso la semantica del concetto
- Enunciare un esempio di applicazione del concetto. Se uno riesce a farlo vuol dire che sa di cosa parla, e non sta “giocando con le parole”.
E niente, per concludere direi che per sapere bisogna fare, ma ben venga se c’è un guida da cui possiamo imparare.
Jacopo
A quanto sembra mi devo scusare: forse, nel tentativo di rispondere nel modo più concreto possibile, sono risultato invece troppo vago ed impreciso; probabilmente anche perché alcuni pensieri che mi ronzavano in testa non erano stati ben organizzati.
Purtroppo quello che sto per dire non credo ti piacerà, oppure farai fatica ad accettarlo completamente. Rispondo alle tue domande di apertura con affermazioni molto tranchant e provocatorie.
- Cos’è la saggezza? La comprensione intuitiva di come la realtà è.
- Cos’è la conoscenza? La comprensione del funzionamento della realtà, basata sull’immagine che noi abbiamo di quest’ultima.
Al contrario tuo, io non leggo abitualmente saggi sulla matematica e quindi posso aver sbagliato nel prenderla ad esempio, ma una cosa la so: parole e numeri sono simboli ed i simboli non sono realtà. Il grande limite del linguaggio è che indica cosa reali, ma non le incarna: è un riflesso, spesso sbiadito o distorto. Se ho davanti a me un bicchiere, posso dire: “questo è un bicchiere”, ma in realtà sarebbe più appropriato dire: “questo è l’oggetto indicato dal fonema ‘bicchiere’”. Pur essendo ignorante in materia, mi sento di dire che in tal senso i numeri sono decisamente più affidabili, ma rimangono una rappresentazione e falliscono quando si tratta di studiare realtà non quantificabili — si pensi al concetto di qualità o alle emozioni.
Non ho ancora familiarità con la linguistica (colmerò presto la lacuna), quindi non me la sento di parlare in termini di sintattica e semantica, però credo che grossomodo tu abbia centrato il punto. È tuttavia importante ribadire che la linguistica può essere vista come la scienza che studia un miraggio, un illusione — benché sia un’illusione necessaria e dall’indubbia utilità pratica.
Proseguendo con le tue domande, quando ho detto che “il sapere fa parte di un’unica struttura”, intendevo dire che ogni branca del sapere è collegata con le altre, esattamente come la Realtà è un complesso unico che noi — in modo totalmente arbitrario — dividiamo in categorie. Ripeto: non dico che tutto questo sia sbagliato, dico che può diventare limitante ed in certi casi dannoso, perché porta ad una certa rigidità mentale. Il detto “viaggiare apre la mente” è vero nel senso che l’incontro con culture molto diverse dalla propria pone fine all’illusione che un particolare modo di vedere le cose sia quello giusto.
La “Saggezza propriamente detta” potrebbe essere semplicemente la consapevolezza di tutto questo, il riuscire a vedere oltre il velo di Maya. Ed è qualcosa che puoi ottenere soltanto tramite esperienza diretta. Come? Non lo so. Il Buddhismo ha come fine ultimo proprio questo, ed è compatibile con ogni tipo di credenza e stile di vita proprio perché non ha alcun interesse per le sovrastrutture della mente umana: vuole toccare con mano il substrato su cui posano. Sottolineo che si tratta di un “toccare con mano” perché un Buddhista degno di questo nome non crede a nulla al di fuori di ciò che ha sperimentato.
Ma ho divagato, forse.
Sull’utilità dei libri non posso che essere d’accordo, ma la loro funzione varia a seconda della tipologia di argomento trattato: un libro di filosofia è il proverbiale dito che indica la luna, mentre un libro scientifico potrebbe essere visto come un manuale di istruzioni, oppure una mappa. Bisogna comunque tenere a mente che la mappa non è il territorio, bensì la sua rappresentazione.
Mi è venuto in mente ora il Tao Te Ching, in cui Laozi dopo molte affermazioni dice: “Come so questo? per via di questo!”. Sembra una supercazzola, ma in realtà vuol dire che tutto ciò che si sta cercando lo si ha davanti agli occhi, solo che invece di vederlo per quello che è, lo si riconosce per quello che si pensa esso sia.
A tal proposito, mi è venuto in mente un koan zen che lessi tempo fa, lo cito di seguito a memoria.
Il maestro porge all’allievo una mela e dice: “Cos’è questo? Se mi rispondi che è una mela, verrai punito; se mi rispondi che non è una mela, verrai punito”. L’allievo prende la mela, le dà un sonoro morso e procede a masticare con gusto, guadagnando l’approvazione del maestro.
Sembra senza senso, ma non è così: “mela” non vuol dire nulla perché non rivela niente della realtà del frutto. Una mela è “gnam gnam gnam”! La realtà è azione, più precisamente, è l’azione compiuta-percepita in questo preciso istante da chi vive l’esperienza.
Tu puoi parlarmi del vento, descrivermelo alla perfezione o spiegarmelo con una metodica formula matematica, ma capirò di cosa si tratta solo quando lo sentirò sulla mia pelle.