Riprogramma La Tua Mente

Circa un anno fa, Fabrizio Rinaldi mi contattò per propormi una collaborazione: si trattava di un post sulla pratica meditativa, strutturato come una chiacchierata tra una persona che voleva saperne di più (lui) ed una con un po’ di esperienza in merito (io).

Avendo già in mente di scrivere un post completo ed aggiornato qua su Pagine Passate, accetto con piacere. Purtroppo, dopo una fase iniziale ricca di entusiasmo, vari impegni fanno arenare il progetto che rimane allo stadio di bozza per mesi e mesi, rischiando di finire nel dimenticatoio. Fortunatamente verso fine 2014 decidiamo di riprenderlo in mano per ultimare i lavori e poter poi avviarci verso la pubblicazione.

Finalmente ci siamo: oggi ha visto la luce su Medium “Riprogramma la tua mente”, quello che credo sia il post in lingua italiana più completo ed informativo sulla meditazione. Ringrazio Fabrizio per avermi proposto questa “chiacchierata virtuale”, per le sue domande stimolanti e per l’impegno dimostrato in corso d’opera. Una menzione speciale va anche al nostro illustratore, Dario Crisafulli, a cui si deve la bellissima immagine introduttiva.

Speriamo di aver fatto cosa gradita, buona lettura!

Scambio epistolare

Tempo fa, in seguito al post “Fai parlare le tue azioni”, Ryan Cooper mi ha scritto per chiedermi delle delucidazioni in merito. È nato quindi un breve ed intenso scambio di punti di vista, un botta e risposta che ha avuto il merito di farmi rielaborare molti concetti su cui ruminavo da diverso tempo. Non so se sono davvero riuscito a fugare i dubbi di Ryan, né se le riflessioni da me proposte siano abbastanza chiare e lineari da poter essere condivise, ma di sicuro ho gradito la nostra conversazione e quindi, con il consenso del diretto interessato, ho deciso di riportarla di seguito.

Ryan:

Jacopo, bel pezzo, sono assolutissimamente d’accordo con te sul fatto che il fare venga sempre prima del dire.

Ero curioso, una domanda, anzi volevo fartene più di una.
Come si fa a classificare “ciò che vale davvero la pena conoscere” da ciò che non lo è? Da quello che hai scritto nel post possiamo sintetizzare che si sta cercando di fare una distinzione tra chi dice senza fare e chi non dice ma fa solamente? E a questo punto, quelli che fanno e anche dicono come sono in relazione ai precedenti? Quelli che fanno e anche dicono, ad esempio scrivendo un libro, tentando di esplicitare a parole ciò che hanno fatto con le loro azioni, non sono perlomeno da elogiare per il tentativo di esporre il loro sapere a noi che non sappiamo?

Forse ho confuso il fine del post.

Nel post c’è scritto: “ciò che vale davvero la pena conoscere non può venire insegnato”, ma per “insegnato” intendi tentare di fare comprendere tramandando il sapere solo per via orale, senza che ci sia uno sforzo operativo da parte di chi sta imparando? Prendendo per buona questa interpretazione e supponendo che sia vera, cosa uno dovrebbe fare a questo punto? Come uno dovrebbe incorporare le conseguenze di tali intuizioni nella propria vita quotidiana, ed essere un tutt’uno con la propria forma mentis?

Chiedo perché i tuoi post fanno pensare e fanno sorgere domande. E questo è piacevole 🙂

Jacopo:

Purtroppo il discorso è ingabbiato nel poco spazio che gli concede la semantica, quindi non so se posso risponderti in modo soddisfacente, ma ci provo volentieri.

Premettendo che io per primo mi colloco nel marasma generale di persone alla ricerca della strada a loro più consona, la distinzione essenziale che cercavo di fare è tra “saggezza” e “conoscenza”. La conoscenza (in senso lato) può essere insegnata: puoi imparare la matematica, la scienza e svariate altre materie; non puoi però studiare come diventare saggio: lo diventi — eventualmente — continuando a sbagliare, cogliendo le strutture sottese dai tuoi errori e notando ciò che le azioni più funzionali hanno in comune tra loro.

Premesso ciò, devo aggiungere che ogni disciplina insegnabile consente di acquisire una specifica forma di saggezza, un’intuitività, per così dire; siccome tutto il sapere fa parte di un’unica struttura, è altamente probabile che la Saggezza propriamente detta sia versatile e la si possa applicare ad ogni campo (stando attenti a non cadere nel bias di conferma).

Esiste una saggezza univoca? Qualcosa che per tutti vale davvero la pena sapere? Sì e no. Individui diversi hanno modi diversi di vedere la realtà e non sono certo io quello in grado di dare la risposta definitiva a questa tua domanda, ma ho notato che filosofie anche molto differenti finiscono per dire la stessa cosa con parole diverse: c’è meno differenza tra Cristianesimo e Buddhismo di quello che si pensa, e persino un ateo potrebbe serenamente accettare le strutture di fondo su cui praticamente ogni dottrina si poggia. Ecco, forse questo che può venire inteso come “saggezza”: sapere cogliere il substrato comune ad ogni realtà.

Tornando alle tue domande, ovviamente non voglio screditare gli insegnanti (sono essenziali) perché il loro compito è differente; né chi prova a comunicare ciò che è quasi impossibile rendere a parole. Tuttavia chi realmente ha fatto fruttare le proprie riflessioni difficilmente fa proselitismo, perché è conscio del fatto di non potere trasmettere quello che sa, quindi semplicemente fa (o non fa, a seconda dei casi).

Per portare un esempio pratico: è come provare a curare il cuore infranto di un amico che ha perduto il suo primo amore; sai bene cosa sta passando, sai che molte sue azioni non faranno altro che peggiorare le cose, ma non puoi fargli sapere come superare quel dolore. Deve sbattere la testa da solo. Questa cosa mi ricorda vagamente il libro “Siddharta”.

Come fare, dunque, ad incorporare le proprie intuizioni nella quotidianità? Penso che sia quasi un automatismo, giunti ad un certo punto. So che serve tempo e servono molti errori per diventare bravi in un arte, figurarsi se l’arte in questione è quella della Vita; mica per niente l’immagine tipica del saggio coincide con quella di un vecchio in pace con sé stesso.

Ryan

Sto ancora cercando di capire con chiarezza cosa intendi con “la distinzione tra saggezza e conoscenza”. Provo a spiegarti ciò che ho capito dal tuo discorso, e nel caso, farti domande dove penso di non aver capito.

Domanda: cosa intendi per saggezza, e cosa intendi per conoscenza? Potresti definire il significato delle due parole? Mi trovi in disaccordo sulla scelta dell’esempio sull’imparare la matematica e la scienza, contrapponendolo al divenire saggio. Dici che si diventa saggi “eventualmente – continuando a sbagliare, cogliendo le strutture sottese dai tuoi errori e notando ciò che le azioni più funzionali hanno in comune tra loro.”

La matematica, così come le scienze (ma amplierei a questo punto anche a tutto lo scibile) si impara solo attraverso esperienza diretta, non basta leggerla e di sicuro non basta una persona che ti esponga i concetti. Se non ti sporchi le mani, se non vai sul campo di battaglia, se non ti sforzi attivamente a capire, a mettere in pratica, a provare, a sbagliare, nulla verrà imparato, se non qualche definizione a memoria. Cioè non verrà acquisita la semantica, se non qualche sintattica a memoria.

Forse con “differenza tra conoscenza e saggezza” intendi la differenza tra il conoscere il nome di qualcosa e l’aver capito qualcosa, cioè averla compresa. Quando si è compreso qualcosa, si è capito il suo significato, la sua semantica, l’idea sottostante. Tale idea è quindi indipendente dalla sintattica con cui essa viene espressa. Forse con “cogliere le strutture sottese” e “sapere cogliere il medesimo substrato in ogni realtà”, intendi proprio il processo di comprensione della semantica di un concetto astraendo dalla sintattica con cui tale concetto è espresso. Dove tu dici “conoscenza”, io dico il conoscere la sintattica, e dove tu dici “saggezza”, io dico il conoscere della semantica.

Devo ammettere di non aver capito il tuo terzo capoverso. Che intendi con “tutto il sapere fa parte di un’unica struttura”? Che cos’è la “Saggezza propriamente detta”? Cosa vuol dire stare attenti a non cadere nel bias di conferma quando si applica ad ogni campo la Saggezza propriamente detta? Che relazione esiste tra “ciò che sappiamo essere vero a prescindere da come individui diversi vedano la realtà” e “la saggezza univoca”?

Chiedo scusa se le domande possono essere banali; è colpa mia forse perché sono abituato a leggere troppa matematica dove i concetti vengono definiti sempre prima di essere usati nell’argomentazione.

In definitiva hai ragione: è difficile trasmettere a parole la saggezza perché essa (la saggezza) deve essere prima compresa attraverso lo studio attivo della sintattica con cui è espressa, ed in seguito acquisita del tutto tramite un’attiva esperienza dell’allievo.

Uno dei problemi principali della comunicazione (o, se vogliamo dire, della trasmissione della saggezza, o della conoscenza della semantica) è che il linguaggio naturale (cioè tutte le lingue parlate nel mondo) sono ambigue, sono imperfette, perché per una parola scritta possono esserci diversi significati e per un concetto possono esistere più parole che lo descrivono, cioè tra sintattica e semantica c’è una relazione molti-a-molti. Questo è anche uno dei motivi per cui non esistono macchine intelligenti quanto noi umani, perché il processo di attribuzione della semantica a partire da una certa sintattica non è deterministico, cioè per noi umani risulta fattibile, mentre per una macchina non lo è.

Questo problema di acquisire la saggezza, o se si vuole dire conoscenza, o meglio, riuscire a fare propria la semantica di un concetto, nell’ambito della la lettura di un libro è ben trattato nel saggio di Adler e Van Doren. Ma di certo loro non sono i primi ad averne discusso (ricordo un video di una intervista a Feynman dove ne parlava con entusiasmo).

Loro parlano di come la lettura debba essere un processo attivo da parte del lettore. Trattano ampiamente il problema della relazione tra sintattica e semantica, e alla fine espongono due metodi per testare il grado di comprensione della semantica dei concetti esposti in un libro (ovviamente si parla di libri che convengono conoscenza, non-fiction):

  1. Esporre a parole tue ciò che hai letto. Se uno riesce a farlo vuol dire che è riuscito ad astrarre dalla sintattica e ha compreso la semantica del concetto
  2. Enunciare un esempio di applicazione del concetto. Se uno riesce a farlo vuol dire che sa di cosa parla, e non sta “giocando con le parole”.

E niente, per concludere direi che per sapere bisogna fare, ma ben venga se c’è un guida da cui possiamo imparare.

Jacopo

A quanto sembra mi devo scusare: forse, nel tentativo di rispondere nel modo più concreto possibile, sono risultato invece troppo vago ed impreciso; probabilmente anche perché alcuni pensieri che mi ronzavano in testa non erano stati ben organizzati.

Purtroppo quello che sto per dire non credo ti piacerà, oppure farai fatica ad accettarlo completamente. Rispondo alle tue domande di apertura con affermazioni molto tranchant e provocatorie.

  1. Cos’è la saggezza? La comprensione intuitiva di come la realtà è.
  2. Cos’è la conoscenza? La comprensione del funzionamento della realtà, basata sull’immagine che noi abbiamo di quest’ultima.

Al contrario tuo, io non leggo abitualmente saggi sulla matematica e quindi posso aver sbagliato nel prenderla ad esempio, ma una cosa la so: parole e numeri sono simboli ed i simboli non sono realtà. Il grande limite del linguaggio è che indica cosa reali, ma non le incarna: è un riflesso, spesso sbiadito o distorto. Se ho davanti a me un bicchiere, posso dire: “questo è un bicchiere”, ma in realtà sarebbe più appropriato dire: “questo è l’oggetto indicato dal fonema ‘bicchiere’”. Pur essendo ignorante in materia, mi sento di dire che in tal senso i numeri sono decisamente più affidabili, ma rimangono una rappresentazione e falliscono quando si tratta di studiare realtà non quantificabili — si pensi al concetto di qualità o alle emozioni.

Non ho ancora familiarità con la linguistica (colmerò presto la lacuna), quindi non me la sento di parlare in termini di sintattica e semantica, però credo che grossomodo tu abbia centrato il punto. È tuttavia importante ribadire che la linguistica può essere vista come la scienza che studia un miraggio, un illusione — benché sia un’illusione necessaria e dall’indubbia utilità pratica.

Proseguendo con le tue domande, quando ho detto che “il sapere fa parte di un’unica struttura”, intendevo dire che ogni branca del sapere è collegata con le altre, esattamente come la Realtà è un complesso unico che noi — in modo totalmente arbitrario — dividiamo in categorie. Ripeto: non dico che tutto questo sia sbagliato, dico che può diventare limitante ed in certi casi dannoso, perché porta ad una certa rigidità mentale. Il detto “viaggiare apre la mente” è vero nel senso che l’incontro con culture molto diverse dalla propria pone fine all’illusione che un particolare modo di vedere le cose sia quello giusto.

La “Saggezza propriamente detta” potrebbe essere semplicemente la consapevolezza di tutto questo, il riuscire a vedere oltre il velo di Maya. Ed è qualcosa che puoi ottenere soltanto tramite esperienza diretta. Come? Non lo so. Il Buddhismo ha come fine ultimo proprio questo, ed è compatibile con ogni tipo di credenza e stile di vita proprio perché non ha alcun interesse per le sovrastrutture della mente umana: vuole toccare con mano il substrato su cui posano. Sottolineo che si tratta di un “toccare con mano” perché un Buddhista degno di questo nome non crede a nulla al di fuori di ciò che ha sperimentato.

Ma ho divagato, forse.

Sull’utilità dei libri non posso che essere d’accordo, ma la loro funzione varia a seconda della tipologia di argomento trattato: un libro di filosofia è il proverbiale dito che indica la luna, mentre un libro scientifico potrebbe essere visto come un manuale di istruzioni, oppure una mappa. Bisogna comunque tenere a mente che la mappa non è il territorio, bensì la sua rappresentazione.

Mi è venuto in mente ora il Tao Te Ching, in cui Laozi dopo molte affermazioni dice: “Come so questo? per via di questo!”. Sembra una supercazzola, ma in realtà vuol dire che tutto ciò che si sta cercando lo si ha davanti agli occhi, solo che invece di vederlo per quello che è, lo si riconosce per quello che si pensa esso sia.

A tal proposito, mi è venuto in mente un koan zen che lessi tempo fa, lo cito di seguito a memoria.

Il maestro porge all’allievo una mela e dice: “Cos’è questo? Se mi rispondi che è una mela, verrai punito; se mi rispondi che non è una mela, verrai punito”. L’allievo prende la mela, le dà un sonoro morso e procede a masticare con gusto, guadagnando l’approvazione del maestro.

Sembra senza senso, ma non è così: “mela” non vuol dire nulla perché non rivela niente della realtà del frutto. Una mela è “gnam gnam gnam”! La realtà è azione, più precisamente, è l’azione compiuta-percepita in questo preciso istante da chi vive l’esperienza.

Tu puoi parlarmi del vento, descrivermelo alla perfezione o spiegarmelo con una metodica formula matematica, ma capirò di cosa si tratta solo quando lo sentirò sulla mia pelle.

Cogli l’utile in ogni cosa

Le riflessioni che seguono sorgono da un fiume ininterrotto di pensieri che scorre nella mia mente ormai da diverso tempo. Ci sono varie tematiche che negli ultimi mesi sono zampillate, per finire in una serie di post non pubblicati perché mai davvero completi. Sento però che questo sarà diverso, come se gli ingranaggi si fossero improvvisamente allineati nella giusta sequenza. Il merito forse è dell’ultimo post di Fabrizio Rinaldi, oppure è soltanto un caso che mi sia giunta l’ispirazione dopo averlo letto; non lo so, ma mi sembra doveroso citarlo, viste alcune tematiche contingenti a ciò che mi appresto a scrivere.

Ho già parlato di come ognuno di noi vede il mondo dal proprio oblò, tendenzialmente non curandosi di quale possa essere la visuale di altri individui, ma non ho reso al meglio tutte le conseguenze di questo atteggiamento istintivo; in effetti non è nemmeno possibile, perché ogni conseguenza dà origine ad una serie di esiti, innescando un effetto a catenza potenzialmente infinito. Il linguaggio è molto limitato quando si tratta di esprimere questo tipo di concetti, ma voglio provarci ugualmente.

Non considerare punti di vista diversi dai propri, o liquidarli in modo sbrigativo, è un atteggiamento piuttosto miope, perché esclude importanti variabili che contribuiscono a plasmare la realtà sociale di cui tutti, volenti o nolenti, facciamo parte. Tendiamo ad affermare il nostro ego, annientando indiscriminatamente ogni opposizione, ma non ci fermiamo mai a pensare a cosa succederebbe all’ordine generale delle cose, se ciò che noi viviamo come un ostacolo non esistesse. Che titolo abbiamo per bollare una data cosa come “inutile”? Come definiamo l’utilità?

Si potrebbe dire che qualcosa sia utile se le sue conseguenze ultime portano progresso alla collettività, affermazione che mi sento di condividere: anche il miglioramento individuale, essendo la società composta da singoli, può essere a vantaggio di tutti. Però ognuno ha una propria peculiare concezione di cosa effettivamente comporti dei benefici, in genere si impugna la spada del pragmatismo per tagliare i rami secchi, per eliminare il “superfluo”, ma ci si concentra solo su ciò che è immediatamente percepibile, ignorando una serie di correlazioni che possono essere osservate soltando cambiando il proprio modo di ragionare. È lapalissiano che la professione di medico-chirurgo sia indispensabile e che, soprattutto al giorno d’oggi, sia importante investire in facoltà informatiche e di ingegneria; per contro le facoltà artistiche, quella di filosofia e le varie “scienze delle merendine” vengono viste dai più come inutili per definizione, come uno spreco di soldi.

Analogamente, in ambito geek, si discute su quale possa essere il senso di spendere migliaia di parole nel recensire un’applicazione per smartphone, o decine di pagine web per descrivere qualche scarna nuova funzione di OSX. Un paio di giorni fa ho letto su Twitter persone che discutevano sui motivi per cui le mani di Fabio Volo non dovrebbero mai toccare una penna (tesi per cui mi sento di simpatizzare). Uscendo dal proprio schema mentale, non è difficile capire che ciò che per una persona può essere uno spreco di tempo/energie/denaro, per un altra potrebbe rappresentare una forte passione. Conosco persone a cui interessa leggere pagine su pagine di elucubrazioni su un software, ed è a queste persone che sono indirizzati determinati contenuti. Allo stesso modo, non è in alcun modo sbagliato che le uniche letture della casalinga di Voghera1 siano ‘Novella 2000’ e i vari libri di Volo, perché non a tutti piace Dostoevskij e — cosa importante da tenere a mente — non è stabilito da nessuna parte che si debbano apprezzare scrittori talentuosi.2

«Ma il progresso? La crescita? L’utilità? Bisogna rimanere coi piedi per terra! Non ci si può abbandonare al relativismo!», potreste dirmi. E non avreste nemmeno tutti i torti. Nel post citato in apertura, Fabrizio chiama in causa in modo neanche troppo velato Federico Viticci, fondatore di MacStories — ragazzo abituato a scrivere dei post su applicazioni e workflow che possono lasciare perplessi per il loro essere lunghi ed articolati. La sua recensione di Tweetbot 3.0 conta circa 5000 parole (per dare un’idea: fino ad ora io ne ho scritte 690) e, al di là delle persone che apprezzano il suo lavoro e si svagano leggendo quelle che in molti potrebbero definire seghe mentali, sembrerebbe che questi sforzi siano molto fini a sé stessi, superflui, inutili. Eppure ogni azione ha svariati effetti che spesso passano in sordina: al di là di tutto, senza quel post di Federico, può essere che Fabrizio non avrebbe messo in moto le riflessioni che lo hanno portato a dire la sua su Feelmaking; in ultima analisi, questa stessa mia riflessione non esisterebbe.

Se ammettiamo il pensiero come base dell’essere umano, allora si può oggettivamente dire che tutto ciò che stimola riflessioni abbia utilità per il solo fatto di esistere. In fondo il pensiero è quel fantasma immateriale che plasma il mondo in cui noi, suoi strumenti, viviamo. Tutto ciò che esiste ha una sua utilità oggettiva per il solo fatto di esistere, anche se non lo si comprende, anche se non lo si accetta o se lo si osteggia per varie ragioni: nulla è inutile.3

Mi rendo conto della parzialità del mio ragionamento e mi scuso per non essere in grado di sviscerare ulteriormente la mia tesi, ma temo che il discorso si allargherebbe troppo. Voglio solo invitare chi sta leggendo questo pezzo a fermarsi, di tanto in tanto, ad immaginare il mondo parallelo che avrebbe origine se un qualche cosa che esula dalla sua comprensione non fosse mai esistito. Nel mio piccolo, posso dire che se avessi dato retta ai pragmatici dell’ultim’ora, non avrei mai aperto questo blog; cosa ci sarebbe di diverso?


  1. Con ciò non voglio assolutamente sminuire né la categoria delle casalinghe, né gli abitanti di Voghera. 
  2. Ci vuole il giusto mezzo, comunque: la cultura è importante. 
  3. Per transitività mi sento di dire che tutte le persone sono interessanti, ma forse ne parlerò in dettaglio più in là. 

My two cents

Ci sono momenti in cui hai una buona idea per scrivere un post, allora ti prende una voglia incredibile di darti da fare per tradurre i tuoi pensieri in caratteri scritti; poi però ti blocchi. Vuoi dire talmente tanto che finisci per non dire nulla, ogni cosa che metti nero su bianco ti sembra confusa, senza capo ne coda, non sai come iniziare né come finire. In casi come questi la cosa migliore è accantonare il progetto per un po’ e cercare di schiarirsi le idee, fare un po’ di decluttering mentale.

Quella che ho appena narrato è la storia di questo post. Volevo scrivere un articolo che riprendesse e analizzasse un concetto che sviscero forse troppo spesso, su questo blog come su Twitter e nella vita quotidiana: il qui ed ora. È buffo, se in questo momento fingessi di essere il me stesso di quattro anni fa e leggessi queste righe che sto scrivendo, così come alcuni miei post passati, probabilmente bollerei tutto come “boiate new age” e deriderei l’autore definendolo un “hippie recidivo”.

È strano come tutto sia in continuo cambiamento, come io stesso sia cambiato profondamente dopo la fine della mia carriera liceale, al punto da diventare quasi un’altra persona. Oscar Wilde disse: «La maggior parte delle persone, sono altre persone», questo perché ogni interazione che abbiamo con i nostri simili modifica leggermente la nostra identità, noi “prendiamo in prestito” — spesso inconsapevolmente — caratteristiche di altri individui, le facciamo nostre, siamo un blocco di argilla che viene costantemente modellato da agenti esterni. Ovviamente è possibile dirigere questo processo in modo attivo — previa presa di coscienza — ma questo è un argomento che forse tratterò in un post a parte.

Come ho detto all’inizio, avevo accantonato questo post in attesa di tempi migliori. Capita poi che Simone Fagini mi chieda un parere su questo suo sfogo e decido di sviare lievemente il discorso sul tema da lui trattato (che non è poi tanto dissimile, anzi). Premettendo comunque che tutto è opinione e ciò che penso io, può non adattarsi ad altre situazioni.

Sono sempre stato un tipo abbastanza direzionato verso il futuro.
Ora non dico non sia una cosa positiva, ma in alcuni casi lo sono stato troppo, a tal punto da non godermi affatto il presente, sempre intento a programmare e programmare e logorarmi da dentro quando non riuscivo a capire cosa davvero volessi o cosa dovessi fare.

Questo essere “futurista” mi ha dato spesso e volentieri motivazioni personali, che, nonostante tutto, penso siano le più forti e più efficaci.

Credo che questo sia un problema comune a molti giovani, persino Fabrizio Rinaldi vi ha dedicato una riflessione sul suo blog. Avendo citato in apertura il qui ed ora , dovrebbe essere chiara la mia posizione in merito, la pratica però è sempre più complicata della teoria: io ho 22 anni, vedo l’università come uno scoglio, non so cosa fare della mia vita e questo pensiero mi terrorizza. Viviamo in una società pragmatica, cinica, orientata al futuro, al profitto e al guadagno; la società della produzione al fine del consumo.

La chiave di tutto però è leggibile tra le righe, quando Simone scrive: «non riuscivo a capire cosa davvero volessi o cosa dovessi fare». Ho anche io riflettuto molto e ho fatto esperienza picchiando la testa più volte, per concludere che — in linea generale — non devi fare nulla che non vuoi fare. Sei il solo a vivere la tua vita e finché non hai la responsabilità di una famiglia che dipende da te, sei libero di stabilire le tue priorità ed i tuoi obiettivi.

Già, gli obiettivi. Riescono allo stesso tempo a dar senso alla tua esistenza e a fartela sprecare. Ho riportato una citazione, tempo fa, ma spendo ancora due parole: gli obiettivi hanno senso soltanto se non li puoi raggiungere. Una volta che ottieni ciò per cui ti sei tanto battuto, nulla ha più davvero senso, la tua conquista non sembra avere poi tanto valore; subentra la noia e allora devi porti un altro obiettivo. Da un lato questo atteggiamento mentale proprio di ogni persona, ci spinge a dare il meglio di noi stessi e a migliorarci costantemente, dall’altro ci fa vivere costantemente nel futuro: il presente non è altro che un tassello da mettere nella posizione giusta per poter raggiungere lo scopo prefissato. È vivere, questo?

Non so dare una risposta, sono uno dei tanti viandanti che cerca di farsi strada nella foresta della vita, ma credo che sia meglio tendere all’equilibrio, invece che agli eccessi. Il primo passo è capire le proprie inclinazioni, i propri gusti e cercare di rimanere su quel percorso, di modo da spendere ogni secondo al meglio. E non vivere a cento all’ora: la vita scorre già abbastanza velocemente, meglio procedere un po’ più con calma e godersi il paesaggio, piuttosto che arrivare in fretta a destinazione, stufarsi del posto ed avere rimpianti.

In questi giorni causa emicrania, ho avuto molto tempo per me stesso, per pensarci.
Ancora una volta mi sono isolato e ho analizzato, come sono solito fare, ogni minimo particolare, ogni causa, ogni conseguenza, ogni sviluppo.

L’autoanalisi — a patto di essere sinceri con sé stessi al 100% — è una gran cosa, ma dedicarsi alle riflessioni per troppo tempo, isolandosi dal mondo, non porta a nulla di buono. Ci sono passato anche io e spesso sono caduto nella trappola dell’auto-commiserazione, è molto meglio agire e tuffarsi in quelle cose (tutti ne abbiamo almeno una) che fanno ardere la nostra fiamma interiore. Perché, alla fine, ciò che davvero è importante è essere coerenti con sé stessi.

Ci sono cose che ci vengono insegnate e prendiamo per buone perché le nozioni giungono da autorità più grandi di noi, che sanno più cose e dunque senz’altro sapranno cosa è giusto e cosa sbagliato. Tralasciando la fallacità intrinseca di questo ragionamento, possiamo dire di aver realmente capito e imparato qualcosa soltanto quando l’abbiamo sperimentato in prima persona, non c’è migliore insegnante dell’esperienza. Allo stesso modo, Simone, non prendere per buone le mie verità, scopri le tue.

Voglio concludere con due citazioni (non si è capito che mi piacciono?), tratte da due film che hanno avuto un grande impatto su di me.

Rilassati. Non sentirti in colpa se non sai cosa fare della tua vita: le persone più interessanti che conosco a 22 anni non sapevano che fare della loro vita, i quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno.

The Big Kahuna

Personaggio 1
L’elemento narrativo esiste nel cinema perché esiste un tempo, così come nella musica, però tu non pensi prima alla canzone e poi crei la canzone, la canzone è una creazione che nasce da quel momento; ed è questo quello che il film ha: quel momento, che è un momento sacro. Come lo è questo momento, insomma, è sacro, ma noi ce ne andiamo in giro come se non lo fosse, come se alcuni momenti fossero sacri e altri no, esatto? Ma momenti come questi sono sacri e di fatto il film ce li fa vedere, ce li inquadra, ci fa dire: «Ah, questo momento allora è sacro!». E così, sacro, sacro, sacro, uno dopo l’altro; ma chi può vivere così, dicendo sempre: «Cavolo, è sacro!»? Se ora dovessi guardarti e renderti sacro, non so…forse smetterei di parlare.

Personaggio 2
O ti godresti il momento. Il momento è sacro.

Waking Life