La formazione primigenia dell’identità avviene tramite un processo chiamato identificazione contro: definiamo noi stessi come “ciò che non è altro”. Questo meccanismo si estende al gruppo sociale di appartenenza, tramite cui si sviluppa un’identità collettiva che contiene ed influenza quella individuale; siamo spinti al conformismo, a compiacere i nostri simili, al punto che un gruppo isolato arriva ad avere una mentalità quasi perfettamente omogenea.
I gruppi però raramente sono isolati, per questo si arriva a distinguere tra in-group e out-group: il primo rappresenta i valori di riferimento (ciò che è bene), mentre il secondo rappresenta il “diverso” e potenzialmente minaccioso (ciò che è male). La maggior parte dei conflitti, se non proprio tutti, ricalca questo schema di base. In una società abbastanza complessa e stratificata si hanno vari gruppi di appartenenza, alcuni dei quali si sovrappongono, per cui è necessario avere gli strumenti — culturali e istituzionali — idonei a limare gli attriti e promuovere un livello accettabile di ordine.
Il sistema che al giorno d’oggi è assunto a modello vede uno dei punti chiave nella tutela di determinati diritti e libertà considerati fondamentali e votati all’inclusione. Così come i pesci che nuotano hanno difficoltà a comprendere cosa sia l’acqua, noi esseri umani ci lasciamo intorpidire dall’abitudine e ci accorgiamo di ciò che realmente è importante solo quando iniziamo a perderlo. Il muro più solido può crollare come un castello di carte facendo leva su di una minima crepa, per questo è importante che determinati diritti siano estesi a tutti e considerati inviolabili indipendentemente dalle circostanze.
Finché — almeno formalmente — siamo tutti uguali (leggi: abbiamo uguali diritti) godiamo di una complessiva immunità di gregge nei confronti di soprusi provenienti da chi ha una posizione di potere, ma nel momento in cui alcuni diventano più uguali degli altri ha inizio un effetto domino che prima o poi finirà per colpire anche coloro che inizialmente, magari scherzando, auspicavano tale cambiamento.
Il problema del promuovere l’esclusività in nome di un “bene più grande” è che si tratta di una visione estremamente miope e sottende un concetto così fumoso da poter essere adattato per giustificare ogni aberrazione; sfugge presto di mano e produce effetti inizialmente non previsti. Misure simili vengono prese in considerazione quando si è di fronte ad una minaccia e questo è più che comprensibile, ma è proprio quando ciò a cui teniamo di più viene minacciato che bisogna astenersi dal reagire di istinto.
Quando le minoranze sono discriminate istituzionalmente, tutti noi ci troviamo in una posizione precaria.