Genealogia della violenza maschile, tra combustibili e acceleranti

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo del Post intitolato “Perché la maggior parte delle violenze è commessa da giovani maschi?”, in cui viene riportata una ricerca condotta da un professore universitario sulla violenza maschile. La ricerca mette in risalto come la necessità di affermare la propria virilità — percepita come impellente nei giovani maschi — sia alla base di una spiccata aggressività e della propensione alla violenza. La radice della questione non è solamente culturale, ma ha anche una importante componente biologica: più alti sono i livelli di testosterone, più probabili sono i comportamenti violenti. Significativa è questa frase contenuta nell’ultimo paragrafo:

[…] secondo McAndrews, la violenza tra i giovani maschi è più diffusa tra quelli che non riescono a ottenere il rispetto degli altri e a costruirsi uno status sociale, e di conseguenza a guadagnare quello che McAndrews definisce «l’accesso alle donne».

La ricerca è senza dubbio interessante, ma la si potrebbe benissimo inserire nel filone di quegli approfondimenti atti a dimostrare che l’acqua calda è, a tutti gli effetti, calda: ribadisce ciò che molti quantomeno sospettavano, senza aggiungere granché al dibattito. Al netto dei fattori ambientali — mai da sottovalutare — vi sono chiare differenze tra uomini e donne, fra cui la predisposizione maschile alla competizione per guadagnarsi il rispetto dei propri pari e migliorare il proprio status. La ricerca del professor McAndrews si concentra sull’effetto che il solo maneggiare armi ha sui livelli di testosterone, specie se maneggiate da individui “disadattati”, a mio parere però quelle osservazioni dovrebbero essere integrate da un altro interessante dato: il coefficiente di Gini.

Per chi non lo sapesse, il coefficiente di Gini è utilizzato in economia per misurare la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Una ricerca condotta analizzando i dati raccolti in quaranta Paesi nel periodo tra il 1962 e il 2008, ha evidenziato una significativa correlazione con la frequenza delle “morti violente”. Prima di quest’indagine era convinzione diffusa che fosse la povertà assoluta ad essere foriera di criminalità (la disperazione porta a delinquere), ma alla luce dei nuovi dati possiamo affermare che il maggiore problema risiede nella povertà relativa: se io ho i mezzi per sopravvivere, ma tu vivi molto merglio di me, allora sono più incline ad avere comportamenti aggressivi.

È innegabile una propensione maschile alla violenza, ma è altrettanto vero che a gettare benzina sul fuoco sono le diseguaglianze sociali — in primo luogo economiche. Come ribadito poc’anzi, la competizione per lo status è centrale per gli uomini, tant’è che tutti, in un modo o nell’altro, vi partecipano. È però essenziale che le regole del gioco vengano percepite come eque: se le disparità sono tali da far percepire come essenzialmente inutile il mio impegno per raggiungere la vetta, allora subentra la frustrazione. Quando il gioco appare truccato, vengono meno gli incentivi a seguire le regole e cresce il desiderio di ribellione, di cui la violenza è istintivo sfogo.

Seguendo la scia di questa tematica, vale forse la pena spendere due parole un po’ provocatorie sul tema caldo di questo periodo: lo stupro. Immedesimatevi, per un attimo, in un ragazzo nel pieno dei suoi anni che è costretto a lasciare tutto ed emigrare verso un Paese di cui sa poco o nulla e in cui verosimilmente non ha contatti. Vi trovate allo scalino più basso della gerarchia sociale, indipendentemente da competenze o qualità, soltanto per il fatto di essere un immigrato; verosimilmente dovete quotidianamente affrontare varie forme di discriminazione (se non vero e proprio razzismo), alimentati anche da personalità istituzionali del Paese che vi ospita. Siete frustrati, arrabbiati, disperati, sfruttati per paghe così basse da rendere le sirene della criminalità sorprendentemente seducenti.

A tutto ciò si aggiunge un dettaglio non da poco: le vostre chance di trovare partner sessuali sono molto scarse, se non quasi inesistenti. Quest’ultimo è un aspetto da non sottovalutare, in quanto il sesso è da sempre il principale incentivo alla sopravvivenza: ognuno di noi è il risultato di una ininterrotta catena riproduttiva che ha origine dal primo organismo unicellulare. Non essere in grado di concretizzare questi istinti porta ad una frustrazione indicibile, che si inserisce in un contesto già da sé precario in cui la tendenza al disprezzo delle regole è incoraggiata. Unendo tutto ciò ad un substrato culturale che spesso e volentieri vede la donna in una posizione subordinata e quasi priva di diritti, possiamo capire il perché le percentuali di stupratori tra i giovani immigrati sia così elevata. Per citare le poco felici parole di Debora Serracchiani: lo stupro commesso da un profugo è forse “più grave“ (in quanto ospite), ma è senza dubbio “più intelligibile”.

Il ricorso alla biologia per la spiegazioni di fenomeni umani è senza dubbio importante e troppo poco considerato nel dibattito pubblico. Se però vogliamo davvero comprendere le cause di certi fenomeni ed ipotizzare soluzioni, bisogna scongiurare le iper-semplificazioni e contestualizzare i fenomeni che si osservano. Solo così si può evitare di stigmatizzare e fossilizzare determinati tratti in una sorta di “Peccato Originale” 2.0, agendo invece su elementi che possiamo in qualche modo controllare per scongiurare pericolose derive.

Donald Trump è colpa nostra

Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.

Non mi lancio in nessun tipo di analisi, francamente non ne ho voglia, tanto nei prossimi giorni vi troverete bombardati dal parere di personaggi illustri e non. Scrivo soltanto per comunicare il mio disgusto verso i responsabili di questo declino dell’Occidente che sembra destinato a non arrestarsi tanto presto: noi.

Con “noi” mi riferisco al frammento demografico cui gioco forza mi trovo ad appartenere: quello composto da persone mediamente colte, provenienti dall’ormai quasi estinta classe media, promotrici di valori liberali; persone che hanno fatto il liceo (magari il classico) con l’idea poi di iscriversi all’università, laurearsi, ottenere un lavoro rispettabile ed entrare a fare parte della “classe dirigente”. Le stesse persone che ora si sdegnano per la Brexit e Trump, invocando un ritorno al passato, ad un’oligarchia aristocratica priva del poco conveniente suffragio universale. Già, perché il problema è la “gggente”, mentre noi siamo virtuosi, vero? Non abbiamo capito un cazzo.

Ci siamo dati pacche sulle spalle nelle nostre torri d’avorio, ridendo del “popolino” e dei loro ridicoli rappresentanti, ignorando e male interpretando un disagio che ha continuato a crescere e bollando i suoi sfoghi come “ignoranza”. Certo, l’ignoranza è un fattore, ma è da stupidi puntare il dito verso la fiammella invece che occuparsi di chi ci sta soffiando sopra. No, non sto parlando di Salvini o Grillo (il loro ruolo viene dopo), sto parlando delle passate generazioni che, spreco dopo spreco, hanno rotto le finestre del condominio dove questa gente abita, fregandosene delle lamentele e deridendo apertamente chi invece — (forse) per opportunismo — ha mostrato di dar loro ascolto.

A furia di tirare, la corda si spezza e si finisce con la schiena nel fango. I cosiddetti (e spesso auto-proclamati) intellettuali non sono più visti come guide autorevoli, ma come antagonisti; nel migliore dei casi come una manica di egoisti boriosi, incapaci di prevedere la crisi economica1 o anche solo di avere una stima affidabile dei risultati elettorali poche ore prima del voto. La reazione di chi ha perso ogni fiducia nello status quo mira a sovvertirlo, dando nuovo impeto a tutti quei movimenti che contrastano i valori cari all’élite, dalla scienza alla democrazia.

La rabbia è molto facile da incanalare, se si toccano i punti giusti: è un meccanismo vecchissimo esemplificato molto bene da Freud nel saggio “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”.

La folla giunge subito agli estremi. Un accenno di sospetto si trasforma immediatamente in indiscutibile evidenza. Una semplice antipatia diviene subito odio feroce. Portata a tutti gli eccessi, la folla è influenzata solo da eccitazioni esasperate. Chiunque voglia agire su di essa, non ha bisogno di dare ai propri argomenti un carattere logico: deve presentare immagini dai colori più stridenti, esagerare, ripetere incessantemente la stessa cosa.2

Non c’è da stupirsi di Trump, Grillo o Salvini, ma soprattutto non è loro la colpa: sono solo sintomi, manifestazioni di un profondo disagio di cui noi siamo concausa. Possiamo fare autocritica e cercare di riunificare la frattura che si è creata all’interno del nostro (ma non solo) Paese, oppure possiamo fare come al solito e puntare il dito contro la proverbiale “casalinga di Voghera”.


In questo mio sfogo ho ricondotto l’elezioni di Trump allo scenario italiano perché è quello a me più familiare. Senza dubbio si tratta di una forzatura, ma non così importante come potrebbe sembrare, dal momento che l’intero Occidente è piuttosto omogeneo sotto alcuni punti di vista. A riprova di ciò metto qui di seguito un paio di link ad articoli che trattano le stesse tematiche dalla prospettiva statunitense (entrambi in Inglese, mi spiace).

  • How Half Of America Lost Its F**king Mind: il giornalista che scrive, cresciuto in uno Stato rurale, conservatore e ultra-cristiano, prova a dare una spiegazione del sucesso elettorale di Trump fornendo una prospettiva diversa dal solito.
  • The Intellectual Yet Idiot: il filosofo Nassim Nicholas Taleb critica aspramente gli odierni intellettuali, evidenziando in modo un po’ comico le contraddizioni insite nel loro modo di pensare.

  1. Nel novembre 2008 la Regina Elisabetta II chiese ai docenti di economia della London School of Economics come mai non avessero previsto il sopraggiungere della crisi. Dopo mesi di consultazioni risposero con una lettera aperta, dicendo di aver perso di vista il cosiddetto “rischio sistemico” e di essersi abbandonati ad una “psicologia del diniego”. Fonte: D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011. 
  2. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Bollati Boringhieri, Torino, 1978. 

L’odio si adatta a tutto

X-Men

 

La formazione primigenia dell’identità avviene tramite un processo chiamato identificazione contro: definiamo noi stessi come “ciò che non è altro”. Questo meccanismo si estende al gruppo sociale di appartenenza, tramite cui si sviluppa un’identità collettiva che contiene ed influenza quella individuale; siamo spinti al conformismo, a compiacere i nostri simili, al punto che un gruppo isolato arriva ad avere una mentalità quasi perfettamente omogenea.

I gruppi però raramente sono isolati, per questo si arriva a distinguere tra in-group e out-group: il primo rappresenta i valori di riferimento (ciò che è bene), mentre il secondo rappresenta il “diverso” e potenzialmente minaccioso (ciò che è male). La maggior parte dei conflitti, se non proprio tutti, ricalca questo schema di base. In una società abbastanza complessa e stratificata si hanno vari gruppi di appartenenza, alcuni dei quali si sovrappongono, per cui è necessario avere gli strumenti — culturali e istituzionali — idonei a limare gli attriti e promuovere un livello accettabile di ordine.

Il sistema che al giorno d’oggi è assunto a modello vede uno dei punti chiave nella tutela di determinati diritti e libertà considerati fondamentali e votati all’inclusione. Così come i pesci che nuotano hanno difficoltà a comprendere cosa sia l’acqua, noi esseri umani ci lasciamo intorpidire dall’abitudine e ci accorgiamo di ciò che realmente è importante solo quando iniziamo a perderlo. Il muro più solido può crollare come un castello di carte facendo leva su di una minima crepa, per questo è importante che determinati diritti siano estesi a tutti e considerati inviolabili indipendentemente dalle circostanze.

Finché — almeno formalmente — siamo tutti uguali (leggi: abbiamo uguali diritti) godiamo di una complessiva immunità di gregge nei confronti di soprusi provenienti da chi ha una posizione di potere, ma nel momento in cui alcuni diventano più uguali degli altri ha inizio un effetto domino che prima o poi finirà per colpire anche coloro che inizialmente, magari scherzando, auspicavano tale cambiamento.

Il problema del promuovere l’esclusività in nome di un “bene più grande” è che si tratta di una visione estremamente miope e sottende un concetto così fumoso da poter essere adattato per giustificare ogni aberrazione; sfugge presto di mano e produce effetti inizialmente non previsti. Misure simili vengono prese in considerazione quando si è di fronte ad una minaccia e questo è più che comprensibile, ma è proprio quando ciò a cui teniamo di più viene minacciato che bisogna astenersi dal reagire di istinto.

Quando le minoranze sono discriminate istituzionalmente, tutti noi ci troviamo in una posizione precaria.

 

Più liberi o più sicuri? Riflessioni sul caso “Apple vs FBI”

A meno che non siate completamente disconnessi dal mondo, è probabile che abbiate sentito parlare della controversia sorta tra Apple e FBI riguardo l’accesso ai dati contenuti nell’iPhone appartenuto all’attentatore della strage di San Bernardino.1

Cerco di riportare i fatti in breve. Il 16 febbraio scorso, in una lettera aperta, il CEO di Apple Tim Cook ha reso noto che l’FBI ha chiesto e ottenuto un’ordinanza per indurre l’azienda a collaborare nel recupero dei dati contenuti in un iPhone trovato durante le indagini. Chiaramente Apple aveva già fatto la sua parte, fornendo alle autorità le informazioni presenti nei server di Cupertino, ma il sistema operativo degli iPhone è strutturato in modo tale da rendere impossibile l’accesso al contenuto del dispositivo senza conoscere il codice di sblocco.

Dopo due mesi ti tentativi infruttuosi, l’FBI ha dunque chiesto ad Apple di compilare ad hoc una versione di iOS priva di alcuni sistemi di sicurezza, di modo da poterla poi installare sul telefono in loro possesso e accedere ai dati con maggiore facilità. L’ordinanza del giudice impugnata dai Federali non è però vincolante e lascia all’azienda la possibilità di opporvisi, facoltà che Tim Cook ha deciso di esercitare, spiegando le sue ragioni nella lettera citata in apertura.

A fronte di questa spinosa vicenda, come spesso accade, l’opinione pubblica si è polarizzata: da un lato chi vede Apple come paladina della privacy, dall’altro chi ritiene che un’azienda non possa metter becco nelle questioni di sicurezza nazionale.

Tempo fa scrissi un post dal titolo “Ecco perché continuerò ad usare iPhone”, il che non lascia dubbi su quale sia la mia opinione. In quel post non provai nemmeno a nascondere la natura ideologica della mia posizione, ma per quanto riguarda questa vicenda ho invece un parere ben più ragionato che credo valga la pena esporre; lo farò sotto forma di risposta alle due critiche che maggiormente ho visto rivolgere a Tim Cook.

 

Critica 1 – L’FBI è interessata a quello specifico iPhone, accontentarla non mette a rischio tutti gli utenti.

Occorre innazitutto ricordare che l’Intelligence degli Stati Uniti ha un pessimo precedente in materia di violazione della privacy: poco più di due anni fa Edward Snowden rivelò pubblicamente i dettagli dei programmi di sorveglianza di massa svolti dall’NSA, il che fa sollevare più di un legittimo dubbio riguardo le intenzioni dei federali e la loro effettiva volontà di distruggere la versione modificata di iOS, una volta raggiunto il loro scopo.

La vera risposta alla critica però la fornisce già Tim Cook nella sua lettera aperta: la sola esistenza di una simile versione di iOS sarebbe un rischio enorme per la sicurezza di moltissimi utenti. Non esistono infatti “mani” abbastanza sicure quando si tratta di custodire del codice informatico, figurarsi poi se l’oggetto in questione è la chiave d’accesso ai dati contenuti in un numero impressionante di dispositivi; i migliori (o peggiori, dipende dai punti di vista) cybercriminali in circolazione non esiterebbero un minuto a cercare di impadronirsene.

Infine, per sgretolare la tanto abusata tesi “ma tanto non ho nulla da nascondere”, basta citare il recente caso riguardante Hacking Team. Per chi non lo sapesse, Hacking Team è una società Italiana che vende software di sorveglianza elettronica a governi e servizi segreti di tutto il mondo, è talmente famigerata che Reporter senza frontiere l’ha inserita nella lista dei “nemici di Internet”. È balzata agli onori della cronaca per essere stata vittima — ironia della sorte — di un attacco informatico, in seguito al quale tantissime informazioni riservate sono diventate di dominio pubblico tramite il sito WikiLeaks. Si è venuti quindi a conoscenza di dettagli preoccupanti, quali trattative con governi non rispettosi dei diritti umani e verso cui vige l’embargo dell’ONU (ad esempio il Sudan), oppure l’ultilizzo di exploit per fabbricare false prove con cui incriminare dei bersagli.

Questa vicenda non insegna solo che gli strumenti di sorveglianza possono essere utilizzati per fini malevoli, ma anche che persino chi lavora nell’ambito della sicurezza informatica può cadere vittima di attacchi esterni e venire pesantemente danneggiata. Ne consegue che le mani dell’FBI non possono dirsi sicure.

apple fbi

 

Critica 2 – La mancanza di fiducia in governo ed autorità giudiziaria compromette il contratto sociale su cui la società stessa si basa.

Questa critica è stata mossa, tra gli altri, anche da Beppe Severgnini in un suo articolo e solleva una tematica tanto spinosa quanto interessante.

Il contratto sociale è, secondo diversi filosofi, l’atto con cui gli esseri umani superano l’incertezza dello stato di natura, cedendo una parte della loro libertà in cambio della protezione statale.

Il tradeoff “libertà-sicurezza” è al centro della prospettiva contrattualistica ed ha assunto primissima rilevanza in seguito all’attentato dell’11 settembre 2001, data di inizio di quella che è stata battezzata la “guerra al terrore”. Ora, dando per scontato che vivere in una democrazia sia ampiamente desiderabile, occorre sottolineare che nel passaggio da un’organizzazione autoritaria ad una democratica dei poteri dello Stato, pari quantità di sicurezza dovrebbero essere compatibili con più elevate quantità di libertà.

Il deflagare del terrorismo nel nuovo millennio e le risposte messe in campo da molti governi occidentali, hanno conferito nuovo smalto all’entità statale quale garante della sicurezza dei propri cittadini; come risultato stiamo assistendo alla proposizione di politiche che limitano la libertà dei cittadini promettendo in cambio maggiore sicurezza. Questa tesi è la stessa da cui muoveva le sue riflessioni Thomas Hobbes e può essere sintetizzata nella domanda fondamentale: “Più liberi o più sicuri?”. La prospettiva del filosofo britannico vede necessario rinunciare a qualche grado di libertà per ottenere un po’ più di ordine e sicurezza; qua di seguito vediamo la “curva di Hobbes” rappresentata su un piano cartesiano.

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Ad integrare il punto di vista pessimistico appena illustrato, conviene segnalare l’osservazione di John Locke che, diversamente dal suo connazionale, era più preoccupato dalle minacce alla sicurezza che governi autoritari possono attuare nei confronti dei loro cittadini. Alla domanda “Più liberi o più sicuri?” Locke risponde: “Sicuri perché liberi!”; se per Hobbes il trade-off “libertà-sicurezza” è negativo, per Locke diventa invece positivo: la crescita della prima è garanzia per la crescita della seconda. Ecco di seguito la “retta di Locke”.

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Chi dei due ha ragione? La risposta è piuttosto banale: entrambi. La garanzia di stabilità interna e di difesa dall’esterno non elimina i potenziali danni dello Stato nei confronti della sicurezza individuale, la quale risulta tutelata da una serie di diritti fondamentali che le istituzioni sono strutturate per garantire. Ecco infatti quello che accade combinando la “curva di Hobbes” con la “retta di Locke”.

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Al di sopra un livello minimo di libertà (L1) prevale la curva, ma quando si scende al di sotto di tale soglia inizia a prevalere la retta, dal momento che alle minacce provenienti dalla società o dall’esterno si sommano quelle causate da governanti autoritari: sotto il livello L1 ogni rinuncia — anche piccola — in termini di libertà produce solo minore sicurezza.

Quindi, a mano a mano che si decidesse di rinunciare (anche provvisoriamente) all’esercizio e alla tutela di qualche diritto legittimo nella speranza di recuperare sicurezza, si finirebbe in realtà con l’alimentare una spirale diretta al peggioramento tanto in termini di libertà quanto in termini di sicurezza.2 È proprio per questo che, a mio modo di vedere, Apple ha tutte le ragioni di questo mondo per opporsi alla decisione dell’FBI.

 

Recentemente intervistato sulla vicenda, l’amministratore delegato di Apple ha rivelato che negli ultimi cinque mesi i federali hanno avanzato simili richieste ben quindici volte, segnale dunque di un interesse non circoscritto agli avvenimenti di San Bernardino. Acconsentire vorrebbe dire creare un precedente con implicazioni ben al di là di quello che possiamo immaginare. Non viviamo affatto in una società perfetta, ma quel minimo di conquiste di cui oggi possiamo godere sono state ottenute grazie a persone che hanno dato la vita per costruire un futuro migliore; dobbiamo riflettere molto a lungo prima di concedere anche solo una minima ed (apparentemente) insignificante deroga a quelli che sono i pilastri di un ordinamento democratico.

Spero che questo mio post possa fungere da invito a riflettere su di una posizione che non ho visto molto considerata — per lo meno dalla stampa italiana.


AGGIORNAMENTO 15/03/2016: John Oliver, nell’episodio di Last Week Tonight andato in onda tre giorni fa, parla di crittografia e mette in luce la complessità del caso Apple vs FBI anche da punti di vista che non ho considerato. Lo aggiungo di seguito, in quanto credo possa essere una buona integrazione al discorso.


  1. Per avere un quadro completo della vicenda, suggerisco la lettura di questo articolo del Post e di quest’ottima analisi scritta da Fabio Chiusi per ValigiaBlu. 
  2. Cfr. F. Andreatta, M. Clementi, A. Colombo, M. Koenig-Archibugi
    V. E. Parsi, Relazioni Internazionali – Seconda edizione, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 269-271. 

Avventurati nelle terre selvagge

Premessa: questo post contiene una riflessione sul film “Into the Wild – Nelle terre selvagge” e contiene pertanto degli spoiler. Non proseguite la lettura se non ne conoscete la trama.

La settimana scorsa ho deciso di rivedere il film “Into The Wild”, che tanto avevo apprezzato anni fa. Mi ha fatto uno strano, ma piacevole effetto: alla luce della mia evoluzione caratteriale (una maturazione, si spera), ho potuto notare delle sfumature che in prima istanza mi erano sfuggite, o che avevo finto di non vedere.

Questa volta, pur comprendendo in pieno le motivazioni di Christopher McCandless, sono stato in grado di cogliere a pieno anche le contraddizioni (o, se si vuole, i paradossi) interni al suo percorso. Il protagonista decide di imbarcarsi in un viaggio verso le terre selvagge dell’Alaska, così da riscoprire cosa significhi “Vivere” nella sua accezione più pura, libera da condizionamenti sociali e preconcetti mentali. È quindi interessante notare come, in perfetta sintonia con uno dei più grandi cliché, la parte fondamentale per il suo processo di crescita non è data dalle esperienze che vive quando giunge a destinazione, bensì da quelle avute durante il viaggio che compie. Fondamentali risultano in particolar modo le amicizie che stringe: ogni persona incontrata durante il suo vagabondare verso nord, gli trasmette importanti insegnamenti o abilità che gli saranno poi utili per sopravvivere in Alaska.

Christopher Johnson McCandless fugge dalla famiglia e dall’intera società spinto da una incessante sete di libertà, crea quindi l’alter ego Alexander Supertramp e si imbarca in una lunga epopea tramite cui comprende che sin dal principio non c’era mai stato nulla da cui fuggire. Impara la lezione nel modo più brutale, scrivendo la frase: “La felicità è reale solo quando condivisa” e riappropriandosi in punto di morte del suo nome di battesimo.

È una storia — tragica — di formazione, la sua. Il motivo per cui risalta tra le mille altre esistenti è che si tratta di una biografia: Christopher McCandless è realmente esistito e ha fatto davvero tutto ciò che è narrato nel film. Le sue azioni sono state il risultato dell’estremizzazione e spettacolarizzazione di un processo che, in un modo nell’altro, vive ciascuno di noi. Nel mio piccolo, mi illudo di aver capito che strade anche radicalmente diverse portano alle stesse destinazioni, che per arrivare alle conclusioni di Christopher non sia necessario andare ad invischiarsi in situazioni di palese rischio vita; a ben vedere sono anche concetti triti e ritriti, cliché che possono essere letti in moltissimi libri, ma per coglierne la verità, interiorizzarla ed uscirne trasformati dobbiamo sperimentarli sulla nostra pelle.

In un certo qual modo dobbiamo soffrire, dobbiamo morire. Non parlo della morte fisica, bensì di quella trasmutazione che emerge dallo smantellamento di precedenti schemi mentali, di quel terremoto che riduce in briciole le fondamenta della tua stessa esistenza e ti lascia vuoto, impotente. È in questa condizione che, più o meno consapevolmente, avviene il passaggio ad una fase nuova della vita, si arriva ad avere una prospettiva più ampia sulle cose e aumenta la consapevolezza di quanto ancora si deve imparare. Non credo che si attraversi una volta sola questo passaggio, penso lo si affronti ciclicamente, talvolta imparando sempre una stessa lezione che fatica ad essere assimilata a dovere.

In questo, credo, siamo tutti perfettamente uguali. Penso che la vita consista in un flusso di coscienza che, cristallizatosi in un Io, attraversa sempre le stesse fasi, imparando le stesse lezioni e arrivando grossomodo alle stesse conclusioni; ciò che cambia è solo l’angolazione della prospettiva. Il cammino della nostra crescita è prima di tutto un percorso interiore e gli accidenti esterni non fanno altro che innescare una proiezione della nostra psiche sul mondo, esteriore ed interiore si fondono in perfetta identità.

Le terre selvagge le abbiamo dentro e non ci resta che esplorarle.

 

The Fappening

Internet sta lentamente modificando il concetto di privacy e il ruolo che ha nelle nostre vite. Questo è un bene: l’etica si è sempre modellata sulle esigenze delle varie epoche.

Il dibattito sulla privacy sta diventando sempre più rilevante e ciò che è accaduto oggi con l’evento battezzato “The Fappening” ha evidenziato la necessità di fermarsi a riflettere su di una questione che riguarda tutti, ma che nessuno sente fino al momento in cui non si trova nel ruolo della vittima.

Andiamo con ordine: cos’è “The Fappening”? In data odierna (1 settembre 2014) uno o più hacker hanno postato sul sito 4chan una copiosa serie di foto ritraenti diverse celebrità hollywoodiane completamente nude, spesso in pose erotiche e talvolta intente in atti sessuali. Queste immagini pare provengano dall’account iCloud delle persone interessate e hanno suscitato ovviamente moltissimo interesse, tanto che sul sito Reddit è stata aperta una sezione apposita i cui iscritti aumentano di minuto in minuto. L’hacker ha annunciato che le fotografie da lui divulgate sono solo una piccola parte di quelle in suo possesso, aggiungendo che molte altre seguiranno, non appena avrà ricevuto un adeguato pagamento in bitcoin; dal momeno che in Rete non si sta parlando di altro, suppongo sarà questione di poche ore prima della seconda ondata di immagini.

Come era prevedibile, oltre ad una irrefrenabile curiosità, l’evento ha suscitato diversi dibattiti di natura morale. Personalmente non credo ci sia nemmeno da discutere sulla liceità di questa operazione, ma dopo aver letto su Twitter la frase: “Se vuoi la privacy in rete non stare in rete. Se vuoi che le tue foto zozze non finiscano in rete non farti foto zozze.” penso sia il caso di spendere due paroline in merito.

Quello che è successo è qualcosa di illegale e le celebrità colpite non sono altro che vittime: il fatto che Internet stia limando il concetto di privacy non la rende all’improvviso irrilevante, né attenua in alcun modo un’azione criminale. Quando decidi di condividere delle foto su un social network hai bene in mente — in teoria — che svariate persone andranno a visualizzarle, magari anche gente a cui quella immagine non era specificatamente destinata, si tratta dunque di una tua scelta consapevole. Quando scatti fotografie nell’intimità delle tue mura di casa, per qualsivoglia motivo, non hai in mente di divulgarle. Poco importa se il tuo lavoro ti rende un personaggio pubblico, se hai appesa al collo l’etichetta “Very Important People” e i paparazzi fanno parte della tua routine quotidiana: se un fotografo irrompesse in casa tua per scattare foto di te mentre sei in bagno, avresti tutto il diritto di denunciarlo (e vinceresti facile in tribunale). Sei una persona, prima ancora che un personaggio e in quanto tale hai dei diritti ed una dignità.

Tutto ciò mi ricorda il film ‘One Hour Photo’ in cui Robin Williams intepreta Seymour Parrish, un signore addetto allo sviluppo di rullini fotografici. Questo personaggio, a causa della sua ossessione per una famiglia, arriva a tappezzare la popria casa con le loro foto, circondandosi dei momenti che quelle persone hanno deciso di immortalare su pellicola e venendo a conoscenza anche di alcuni segreti. Ecco, in questo momento siamo tutti un po’ come Seymour Parrish, ma con un durello tra le gambe.

Le celebrità in questione sono state piuttosto ingenue a lasciare attivata la funzione di upload automatico su iCloud, ma nè questo, né tutte le considerazioni sul loro lavoro e sulle loro abitudini nell’intimità (che poi, diciamolo, sono davvero così strane?) possono essere usate per minimizzare il torto da loro subito.

Riguardo la corsa frenetica per accaparrarsi il materiale tabù non posso dire assolutamente nulla. So per certo che in molti si staranno scagliando contro il degrado dei costumi, la società maschilista e chissà quant’altro, ma francamente non vedo nulla di strano, incomprensibile o persino sbagliato in questo: sono reazioni che affondano le loro radici nei nostri istinti più basilari, pulsioni che hanno permesso alla nostra specie di perpetrarsi nel tempo. In tutta questa faccenda l’ultima cosa per cui scandalizzarsi sono i corpi nudi e la corsa alle tette.