Il ballo mascherato

Sugli esseri umani grava una maledizione subdola e potente: siamo tutti attori inconsapevoli di una recita, a cui è richiesto di interpretare molteplici personaggi. Il senso di ciò che ho appena affermato è insito nella parola “persona”, che nella sua accezione latina significa “maschera teatrale”. Se provate a riflettere sulla vostra vita, vi accorgerete che dal momento in cui siete nati avete istantaneamente occupato un numero crescente di ruoli, di maschere. Siete figli, siete cittadini, siete studenti o lavoratori, scrittori, cantanti, politici, ingegneri, medici, cristiani, etcetera; ognuno occupa i suoi ruoli e si adatta — spesso senza nemmeno rendersene conto — agli obblighi corrispondenti, tutto ciò semplicemente in quanto membri della società. In tutto ciò non c’è nulla di male, ma può portare a conseguenze spiacevoli che tratterò in seguito.

Oltre alle maschere vi sono poi quelle che chiamo etichette, queste non derivano in modo diretto dal ruolo che occupiamo, ma sono lo spiacevole effetto della tendenza tipicamente umana a categorizzare il mondo per renderlo intelleggibile. Per comodità etichettiamo gli altri individui sulla base delle loro generalità (aspetto, comportamento, ruolo, opinioni), dando così nascita a figure quali: idealisti, pragmatici, geek, hipster, e molto altro.1 Ogni persona è passibile di più etichette, anche in contrasto tra loro (dipende dai punti di vista), e viene istintivamente posta all’interno di una delle due macro-categorie: “giusto” e “sbagliato”.

Ho appena dipinto l’immagine di un individuo mascherato, che mantiene il travestimento in linea con la situazione in cui si trova, e porta al collo diverse medagliette identificative dal significato diverso a seconda di chi le interpreta; in tutto ciò, il soggetto in questione ha una possibilità di scelta limitatissima. A questo punto sorge la domanda fondamentale: chi c’è dietro la maschera? Chi sono io? Nel corso della storia credo si sia perso il conto dei filosofi che hanno cercato una risposta definitiva, dal canto mio non mi sento all’altezza di imbarcarmi in speculazioni sull’argomento, ma voglio provare a dire chi non sono.

Non sono le maschere che indosso e non sono le etichette che mi attribuiscono, ma se non sto attento corro il rischio di identificarmici. I soli momenti in cui possiamo svestirci da ogni travestimento e concederci di essere noi stessi è quando ci troviamo da soli, possibilmente senza mezzi di comunicazione a portata di mano (WhatsApp, parlo soprattutto di te), ed è questo il momento in cui molti si sentono più a disagio, vuoti, insicuri, annoiati, tristi. Ho letto, non ricordo dove, che chi impara ad abbracciare la solitudine sconfigge la paura della morte, che è come dire: chi riesce a guardarsi dentro, a conoscere ed accettare realmente sé stesso, vive in pace per il resto dei suoi giorni. Pochi fanno questo sforzo perché affrontare il disagio dato dall’incertezza fa molta paura, si preferisce un comfort illusorio, la sicurezza data dal recitare una parte.

Ecco però concretizzarsi il pericolo che paventavo prima: l’identificazione con il personaggio che si interpreta. Prendiamo per esempio un professore universitario tutto d’un pezzo, sicuro nei panni della propria figura autoritaria, che appare serio ed intransigente in ogni ambito della sua vita, severo persino con sé stesso: questo è un atteggiamento estremo, la fusione totale con il ruolo prevalente che si ricopre. Vi è poi un caso più subdolo e — credo — più diffuso, ossia quando le maschere lasciano scheggie su chi le porta e le etichette vengono fatte talmente proprie da diventare più simili a dei tatuaggi, una contaminazione che getta il seme della nevrosi.

Semplificando molto, credo di poter descrivere quest’ultimo scenario come l’interiorizzazione di modelli, di immagini “giuste” a cui aderire, che portano al tentativo di controllare e/o sopprimere tutto ciò che non vi si conforma. Un intero set di emozioni normalissime vengono quindi combattute, con il solo risultato di renderle persistenti e generare ansia; la cosa tragica è che non sempre questa lotta interna viene vissuta a livello cosciente, spesso è anzi totalmente inconsapevole e ad emergere sono solo le conseguenze, come uno stato di tensione nervosa permanente. Dottore, mi dia del Lexotan: voglio continuare la recita.

Ma provate per un attimo ad immaginare il sentirsi sempre “giusti”, quale che sia l’occasione,2 non avere conflitti interni perché non c’è nulla da combattere e tutto da lasciar accadere, il poter essere spontanei al di là del travestimento adottato. Intendo vera spontaneità! La spontaneità emerge in modo naturale dall’essere come si è, perché quando si prova ad essere spontanei, non si fa altro che rincorrere un’immagine — una maschera — e quindi non lo si è realmente! Quando poi la situazione richiede di essere massimamente conformi alla maschera del momento, la si può tranquillamente indossare, ma essendo consapevoli che non è altro che una recita, un gioco.3

Non possiamo evitare i ruoli, non possiamo evitare le etichette, ma possiamo essere consapevoli che la nostra identità è qualcosa di separato, per lo più indefinito e forse indefinibile. Una volta che si è intimamente compreso che tutte le nostre attività quotidiane — per quanto vissute con la massima gravità e partecipazione — non sono niente altro che una recita, potremmo scoprire che è bello non prendersi troppo sul serio.

Non devi porre fine a tutto questo solo perché hai scoperto che non è altro che un gioco: potrebbe essere davvero divertente continuare a giocare.
— Alan Watts


  1. A causa della nostra spinta ad identificarci con un gruppo, non è infrequente che una persona si etichetti da sola in un determinato modo (si pensi ai geek). 
  2. Non fraintendetemi, non sto incoraggiando atti sconsiderati o di dubbio gusto, ma semplicemente un’armonia interiore. 
  3. Sì, la vita è un gioco. Il tuo lavoro? La tua famiglia? Mini-game previsti dal pacchetto completo e, a ben vedere, opzionali. La morte? La fine del gioco. Puoi essere serio quanto vuoi nel portarlo avanti, ma tutto questo non significa nulla, a meno che non sia tu ad apporgli un senso completamente arbitrario, quindi rilassati e goditi lo spettacolo.