Cosa significa l’ansia?

Quest’oggi, il buon Fabrizio Rinaldi ha condiviso su Twitter l’articolo “Cosa significa l’ansia?” che mi ha molto colpito. L’autore parte dal libro ‘My Age of Anxiety‘ di Scott Stossel e tenta di analizzare il fenomeno dell’ansia, ripercorrendo il pensiero di coloro che nel corso della storia si sono interessati al fanomeno (Freud su tutti), e rileggendolo alla luce delle odierne conoscenze neuroscientifiche, nel tentativo di fornire un quadro per cause e soluzioni al disturbo.

L’articolo è senza dubbio ben scritto e l’autore ha evidentemente compiuto diverse ricerche in merito, ciononostante durante tutto il corso della lettura ho provato un senso di avversione per le tesi esposte. Questo mio post è il tentativo di elaborare quella sensazione in un discorso organico, tuttavia mi rendo conto di non poter fare una vera e propria critica alle idee espresse perché la mancanza di un’adeguata preparazione in materia non me lo permette. Come fare, dunque?

Intendo risparmiare qualsiasi riflessione filosofica e riferimento scientifico, di modo da evitare il più possibile le inesattezze, appellandomi soltanto al buon senso. Non so quasi nulla di depressione, ma ho esperienza diretta di ansia e fobia sociale; ovviamente dal mio vissuto non si possono trarre dati universali, ma visto che il giornalista del New Yorker è partito dalla vicenda di Scott Stossel, faccio anche io qualcosa di analogo.

Ciò che emerge abbastanza presto dalla lettura, è la promozione dell’approccio farmacologico all’ansia ed una sostanziale critica al grado di efficacia della psicoanalisi.

Tutto ciò avrebbe dovuto rendere Freud obsoleto. Ma, per molto tempo, nessuno è sembrato accorgersene. Nessuno ha evidenziato che, se i famaci funzionano, allora forse i disturbi emotivi hanno basi neurochimiche, e l’ansia probabilmente non è (come Freud1 era arrivato a supporre) riguardo cose come la paura della castrazione. E se è un disturbo neurologico, qualcosa che ha a che fare con le ammine del cervello, allora forse non ha alcun senso passare anni distesi su un divano a fare libere associazioni riguardo i sogni della notte precedente quando puoi interrompere la sofferenza ingoiando una pillola.

Ora, in quanto organismi siamo soggetti in primo luogo alle reazioni chimiche che avvengono nel nostro corpo. È chiaro che gli psicofarmaci funzionano, così come è chiaro che assumento paracetamolo, la febbre si abbassa. È altrettanto vero che la febbre non è una malattia, ma il sintomo di un’anomalia nel proprio corpo: abbassando la temperatura non si risolve nulla, al massimo si ottiene un sollievo temporaneo. Stessa cosa dicasi per le (tante) persone che trangugiano una soluzione di acqua ed OKi come se fosse la panacea di ogni male.

Al di là di predisposizioni genetiche (parenti ansiosi) e condizionamenti ambientali (lavoro, scuola, ecc), l’ansia è un campanello di allarme: vuol dire che qualcosa non funziona come dovrebbe, ma come ogni sensazione/emozione non è mai ben chiaro a cosa si riferisca. Quasi sempre cercare di controllare o evitare situazioni ansiogene, non fa altro che peggiorare lo stato d’animo di chi le vive, per questo occorre — prima di mettersi a trangugiare farmaci — analizzare un attimo sé stessi.

Il farmaco è un aiuto che ha senso solo se accompagnato da un’adeguata terapia. Non piace la parola “terapia”? Chiamiamola “introspezione guidata orientata allo sviluppo di un comportamento funzionale”. Perché la chimica del cervello influenza il comportamento, ma la relazione vale anche al contrario, quindi c’è sempre il rischio di cadere se non impari a pedalare senza rotelle.

Cosa ho notato (e noto tutt’ora) sulle basi della mia esperienza? Che l’ansia è la degenerazione della paura, è ciò che accade quando la paura viene applicata a dei modelli mentali, invece che a pericoli reali. L’ansioso tipicamente guarda sé stesso in terza persona ed è costantemente preoccupato di fare la scelta giusta, salvo poi finire per non fare nulla (paralisi da analisi). L’ansioso è spesso tormentato dal passato, ossessionato dal futuro ed infatuato di un ideale — magari estrapolato dal contesto sociale in cui si trova — che deve seguire a tutti i costi. L’ansioso non è mai sé stesso, perché si vede come qualcosa di separato da sé, è spesso narciso. Vive come se fosse un personaggio di ‘The Sims’.

Tutto ciò che ho scritto è riferito alla mia esperienza personale e sono sicuro al 100% che non si possa assolutizzare. Sono altresì certo che limitare la propria esperienza da essere vivente ad un insieme di reazioni chimiche sia quantomeno riduttivo, e che “cervello” e “psiche” siano entità diverse, sebbene strettamente correlate.

Mia convinzione (bias) è che l’approccio alla sintomatologia delle nostre nevrosi sia figlio dello stesso meccanismo che ha generato in prima istanza il problema: l’ossessione per il controllo.


  1. Come se, da Freud ad oggi, non si fossero fatti passi avanti in campo psicanalitico.