Le riflessioni che seguono sorgono da un fiume ininterrotto di pensieri che scorre nella mia mente ormai da diverso tempo. Ci sono varie tematiche che negli ultimi mesi sono zampillate, per finire in una serie di post non pubblicati perché mai davvero completi. Sento però che questo sarà diverso, come se gli ingranaggi si fossero improvvisamente allineati nella giusta sequenza. Il merito forse è dell’ultimo post di Fabrizio Rinaldi, oppure è soltanto un caso che mi sia giunta l’ispirazione dopo averlo letto; non lo so, ma mi sembra doveroso citarlo, viste alcune tematiche contingenti a ciò che mi appresto a scrivere.
Ho già parlato di come ognuno di noi vede il mondo dal proprio oblò, tendenzialmente non curandosi di quale possa essere la visuale di altri individui, ma non ho reso al meglio tutte le conseguenze di questo atteggiamento istintivo; in effetti non è nemmeno possibile, perché ogni conseguenza dà origine ad una serie di esiti, innescando un effetto a catenza potenzialmente infinito. Il linguaggio è molto limitato quando si tratta di esprimere questo tipo di concetti, ma voglio provarci ugualmente.
Non considerare punti di vista diversi dai propri, o liquidarli in modo sbrigativo, è un atteggiamento piuttosto miope, perché esclude importanti variabili che contribuiscono a plasmare la realtà sociale di cui tutti, volenti o nolenti, facciamo parte. Tendiamo ad affermare il nostro ego, annientando indiscriminatamente ogni opposizione, ma non ci fermiamo mai a pensare a cosa succederebbe all’ordine generale delle cose, se ciò che noi viviamo come un ostacolo non esistesse. Che titolo abbiamo per bollare una data cosa come “inutile”? Come definiamo l’utilità?
Si potrebbe dire che qualcosa sia utile se le sue conseguenze ultime portano progresso alla collettività, affermazione che mi sento di condividere: anche il miglioramento individuale, essendo la società composta da singoli, può essere a vantaggio di tutti. Però ognuno ha una propria peculiare concezione di cosa effettivamente comporti dei benefici, in genere si impugna la spada del pragmatismo per tagliare i rami secchi, per eliminare il “superfluo”, ma ci si concentra solo su ciò che è immediatamente percepibile, ignorando una serie di correlazioni che possono essere osservate soltando cambiando il proprio modo di ragionare. È lapalissiano che la professione di medico-chirurgo sia indispensabile e che, soprattutto al giorno d’oggi, sia importante investire in facoltà informatiche e di ingegneria; per contro le facoltà artistiche, quella di filosofia e le varie “scienze delle merendine” vengono viste dai più come inutili per definizione, come uno spreco di soldi.
Analogamente, in ambito geek, si discute su quale possa essere il senso di spendere migliaia di parole nel recensire un’applicazione per smartphone, o decine di pagine web per descrivere qualche scarna nuova funzione di OSX. Un paio di giorni fa ho letto su Twitter persone che discutevano sui motivi per cui le mani di Fabio Volo non dovrebbero mai toccare una penna (tesi per cui mi sento di simpatizzare). Uscendo dal proprio schema mentale, non è difficile capire che ciò che per una persona può essere uno spreco di tempo/energie/denaro, per un altra potrebbe rappresentare una forte passione. Conosco persone a cui interessa leggere pagine su pagine di elucubrazioni su un software, ed è a queste persone che sono indirizzati determinati contenuti. Allo stesso modo, non è in alcun modo sbagliato che le uniche letture della casalinga di Voghera1 siano ‘Novella 2000’ e i vari libri di Volo, perché non a tutti piace Dostoevskij e — cosa importante da tenere a mente — non è stabilito da nessuna parte che si debbano apprezzare scrittori talentuosi.2
«Ma il progresso? La crescita? L’utilità? Bisogna rimanere coi piedi per terra! Non ci si può abbandonare al relativismo!», potreste dirmi. E non avreste nemmeno tutti i torti. Nel post citato in apertura, Fabrizio chiama in causa in modo neanche troppo velato Federico Viticci, fondatore di MacStories — ragazzo abituato a scrivere dei post su applicazioni e workflow che possono lasciare perplessi per il loro essere lunghi ed articolati. La sua recensione di Tweetbot 3.0 conta circa 5000 parole (per dare un’idea: fino ad ora io ne ho scritte 690) e, al di là delle persone che apprezzano il suo lavoro e si svagano leggendo quelle che in molti potrebbero definire seghe mentali, sembrerebbe che questi sforzi siano molto fini a sé stessi, superflui, inutili. Eppure ogni azione ha svariati effetti che spesso passano in sordina: al di là di tutto, senza quel post di Federico, può essere che Fabrizio non avrebbe messo in moto le riflessioni che lo hanno portato a dire la sua su Feelmaking; in ultima analisi, questa stessa mia riflessione non esisterebbe.
Se ammettiamo il pensiero come base dell’essere umano, allora si può oggettivamente dire che tutto ciò che stimola riflessioni abbia utilità per il solo fatto di esistere. In fondo il pensiero è quel fantasma immateriale che plasma il mondo in cui noi, suoi strumenti, viviamo. Tutto ciò che esiste ha una sua utilità oggettiva per il solo fatto di esistere, anche se non lo si comprende, anche se non lo si accetta o se lo si osteggia per varie ragioni: nulla è inutile.3
Mi rendo conto della parzialità del mio ragionamento e mi scuso per non essere in grado di sviscerare ulteriormente la mia tesi, ma temo che il discorso si allargherebbe troppo. Voglio solo invitare chi sta leggendo questo pezzo a fermarsi, di tanto in tanto, ad immaginare il mondo parallelo che avrebbe origine se un qualche cosa che esula dalla sua comprensione non fosse mai esistito. Nel mio piccolo, posso dire che se avessi dato retta ai pragmatici dell’ultim’ora, non avrei mai aperto questo blog; cosa ci sarebbe di diverso?