Ho sempre trovato ridicolo il morboso attaccamento che ha il mio coniglio per la sua gabbia: benché la tenga sempre scoperchiata, in 10 anni non ha mai tentato la fuga (se non quando inseguito da un gatto, ma questa è un’altra storia) e ogni volta che cambio la lettiera devo sollevarlo di peso per farlo sloggiare. È un comportamento assurdo, o almeno così pensavo prima di rendermi conto che — in una certa misura — appartiene anche a me.
Mi sono costruito da solo la gabbia che ho attorno: le sbarre sono schemi mentali irrigiditi col tempo, schemi che mi separano da un’orizzonte di possibilità potenzialmente senza limiti. La porta però non è chiusa a chiave, anzi, è spalancata, ma non ci faccio quasi mai caso. La cella è confortevole, è tutto ciò che conosco, perché mai dovrei gettarmi verso l’ignoto rischiando di perdere vitto e alloggio assicurati? “Chi lascia la strada vecchia per la nuova / sa quel che lascia, ma non sa quel che trova”, dice un famoso proverbio.1 Sono al contempo detenuto e carceriere.
Ogni volta che indugio in pensieri distruttivi, ogni volta che cedo alla procrastinazione, ogni volta che deglutisco paura affogando nel rimpianto, ogni volta che preferisco il comfort al sudore, aggiungo una sbarra alla mia prigione. Nonostante conosca i comportamenti da evitare, è davvero difficile agire di conseguenza; a volte è così piacevole restare col familiare e razionalizzare scuse per la propria immobilità.
Si impara ad amare le proprie catene.
- È un proverbio così schifosamente reazionario da far venire il voltastomaco. ↩