Sulle ali di Abraxas

Su Twitter è esplosa una conversazione tra Andrea Patruno, Manuel Di Censo e me in seguito ad un mio tweet che recitava:

“Non si deve temere, né considerar vietata nessuna cosa che la nostra anima desideri”

Che ne pensate?

Come era prevedibile le reazioni sono state di profondo disaccordo, difatti quella frase aveva lasciato molto perplesso anche me: impossibile ignorare la funzione che ha la morale di tutelare l’ordine ed assicurare una corretta vita in società. Tendiamo a classificare gli immorali come delinquenti e gli amorali come sociopatici, possiamo quindi dedurre che queste “linee guida” da noi interiorizzate rappresentino la nostra coscienza, ciò che in definitiva ci rende umani.

La citazione in apertura è tratta da uno dei libri che sto leggendo in questo periodo — ‘Demian‘, di Herman Hesse — e l’ho tweettato con l’idea di stimolare una discussione (cosa poi avvenuta), ma non ho immediatamente proseguito nella lettura. Se lo avessi fatto avrei trovato poco più avanti un passo chiarificatore di ogni obiezione, infatti uno dei due interlocutori che stavano discutendo in quel punto del romanzo, muove le stesse critiche che sorgerebbero in mente a chiunque: è quindi lecito uccidere un uomo soltanto perché lo si odia e sorge in noi questo sentimento?

Ecco la risposta:

Non intendo che lei debba fare tutto ciò che le passa per la mente. No, ma non deve rendere innocue queste idee, che hanno la loro buona ragione, schiacciandole o moraleggiandovi su. Invece di crocifiggere sé stessi o un altro si può bere il vino da un calice accompagnandolo con pensieri solenni e pensando il mistero del sacrificio. Anche senza siffatte azioni si possono trattare con stima e affetto i propri istinti e le così dette tentazioni. Allora esse rivelano il loro significato, e tutte hanno un significato. Quando le viene in mente qualche cosa di pazzesco o peccaminoso, quando le venisse voglia di ammazzare qualcuno o di commettere qualche enorme porcheria, pensi un istante che codeste fantasie dentro di lei vengono da Abraxas. L’uomo che lei vorrebbe uccidere non è mai il signor tal dei tali, ma certo un travestimento. Quando odiamo un uomo, odiamo nella sua immagine qualcosa che sta dentro di noi. Ciò che non è in noi non ci mette in agitazione. Le cose che vediamo sono le stesse che abbiamo dentro di noi. Non esiste realtà tranne quella che è in noi.

Contestualizzando il tutto, dunque, riesce più facile condividere l’affermazione di partenza. Credo anche io che l’uomo tenda a vedere tutto ciò che lo circonda tramite una lente, un filtro, che arriva direttamente dal proprio e la maggior parte degli impulsi (o emozioni) che proviamo hanno poco a che fare con l’oggetto verso cui le dirigiamo.

Un classico esempio è la rabbia. Questa è un incitazione al “cambiamento”, quando siamo irritati è perché percepiamo che qualcosa deve essere cambiato, ma — parafrasando Jack Sparrow — non è detto che vada cambiato l’oggetto verso cui è destinata la rabbia, bensì potrebbe essere necessario mutare il nostro atteggiamento nei confronti di quest’ultimo. Ovviamente bisogna operare distinzioni a seconda dei casi: se dovessi assistere ad uno stupro, ciò che dovrà essere cambiato non sarà il mio atteggiamento nei confronti della situazione, bensì i connotati del tizio.

La chiave di tutto è comprendere sé stessi e quindi comprendere anche gli impulsi che ci muovono. Per saziare uno stimolo non è indispensabile sfogarlo, il più delle volte basta “osservarlo” in maniera acritica, ma con sincera curiosità. L’acriticità è fondamentale per non identificarsi con ciò che si prova e rimanervi incatenati nostro malgrado. Se ci limitiamo a soffocare le le nostre pulsioni, in quando non conformi alla morale comune, possiamo ottenere due risultati: esplodere come una pentola a pressione in maniera del tutto incontrollata, oppure roderci l’animo facendo diventare noi stessi l’oggetto di pensieri controversi.

Quello che, secondo me, vuole dire Herman Hesse è che per essere realmente in pace con noi stessi, dobbiamo accettarci in tutto e per tutto 1 e per poterlo fare dobbiamo conoscerci realmente. Tramite la conoscenza di noi stessi possiamo intuire ciò che è la realtà, al di là del filtro che il nostro ego ci pone di fronte agli occhi.

Come ho già accennato anche nel Dàodéjīng si parla di come la realtà che noi sperimentiamo non sia la “vera realtà” e tutto ciò che noi bolliamo come vero non è altro che una nostra costruzione mentale, a partire dal linguaggio che usiamo per definirlo. Successivamente Laozi dice che il governo del saggio “vuota i cuori2“, ossia porta le persona alla pace interiore, alla consapevolezza di sé e quindi riportarle in contatto con la vera essenza delle cose, in quanto noi siamo parte del Tutto.

Il collegamento con il Laozi non è forzato come potrebbe sembrare. Mentre leggevo ‘Demian’ continuavo a notare analogie, ma ciò che più mi ha colpito è stata la spiegazione del concetto sotteso dal nome Abraxas. Cos’è, anzi, chi è Abraxas? È un dio antico e misterioso, definito come “Dio altissimo” e “Padre ingenerato” che godeva di una certa fama presso gli alchimisti. La sua peculiarità era il rappresentare l’unione tra bene e male, Dio mischiato a Satana, in quanto al mondo nulla è interamente buono, né interamente cattivo. Vi ricorda qualcosa?

YinYang

Direi che è un po’ difficile non vederlo come la deificazione del concetto di Ying e Yang. Incuriosito ho fatto una piccola ricerca e ho trovato questa (esteticamente orrenda) pagina web di cui voglio citare un piccolo estratto.

Per quanto è emerso sotto il profilo simbolico, non possiamo soffermarci su come Abraxas rappresenti un concetto archetipale, talmente sofisticato e astratto, che sembra sfuggire a qualsiasi possibilità di comunicazione dialettica. Esso raccoglie in sè la terra e il cielo, il sacro e il profano, l’uomo e il divino, il positivo e il negativo, il maschile e il femminile, la materia e lo Spirito, l’evoluzione e l’involuzione. Tali coppie non vivono, e neppure convivono, nella loro separatività, e neppure formano un equilibrio grottesco, ma bensì sono presenti ad uno stato potenziale, su di un piano superiore, non legato a fattori come percezione e cognizione, soggetto ed oggetto, ma di totale fusione.

A questo punto mi sento di azzardare che Abraxas non sia solo l’equivalente di Ying e Yang, bensì il Tao stesso, in quanto ne rivedo alcune tra le caratteristiche principali. A persuadermi ancora di più di ciò è la frase che ho messo in grassetto e che somiglia straordinariamente alla premessa che Laozi ha posto nel primo verso del Dàodéjīng:

Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao

La realtà ultima, qualcosa di così profondo, radicato ed eterno da non poter essere comunicato tramite il linguaggio.

Un Abraxas superiore, svincolato completamente da ogni azione e forma grossolana, di cui noi siamo il caduco riflesso, ma non in cielo e neppure all’inferno va ricercato, bensì in noi stessi.

Non si può conoscere realmente nulla, se prima non si conosce sé stessi.


  1. A scanso di equivoci, non si vuole in alcun modo negare la possibilità di un cambiamento — anche profondo — nel proprio modo di essere, ma per poterlo operare è necessario accettarsi realmente e non rinnegare nulla di ciò che si è. 
  2. 心 (xīn) ha un significato più ampio dell’italiano”cuore”, abbraccia tutto ciò che noi associamo sia con il cuore (in senso proprio e figurato), sia con la mente. È perciò la sede del pensiero e delle emozioni, il centro della vita affettiva e morale, l’organo che presiede all’intenzionalità, alla volontà, all’attenzione e alla coscienza. Il cuore è “vuoto” quando è in uno stato di tranquillità, di contemplazione distaccata, di non identificazione con il pensiero, lo stato che normalmente associamo alla meditazione