Il bicchiere è già rotto

Un giorno alcune persone vennero dal maestro e chiesero: “Come fai ad essere così felice in un mondo tanto precario, in cui non puoi far nulla per proteggere coloro che ami da dolore, malattia e morte?”. Il maestro prese un bicchiere e disse: “Tempo fa mi è stato regalato questo bicchiere, mi piace davvero molto. Tiene l’acqua a mia disposizione e luccica quando esposto al sole. Lo tocco e tintinna! Un giorno il vento potrebbe farlo cadere dalla mensola, oppure potrei accidentalmente urtarlo con il gomito e buttarlo giù dal tavolo. So che questo bicchiere è già rotto, quindi posso goderne davvero.

Ajahn Chah Chah Subhaddo

Il momento in cui ottieni qualcosa è il momento in cui inizi a perderla.

Il potere dell’agire

Leggendo un articolo del Post, mi sono trovato davanti questa frase tratta dalla biografia di Steve Jobs:

Gli insegnai che, se si agisce come se si fosse in grado di fare qualcosa, quel qualcosa si realizza. Gli dissi: fa’ finta di avere il controllo assoluto della situazione e la gente penserà che tu ce l’abbia davvero.

Benché non abbia alcun dubbio sulla validità della seconda affermazione, la frase complessiva mi ha lasciato comunque un po’ perplesso: il celebre “fake it till you make it” non mi ha mai convinto fino in fondo. Credo ci sia una differenza percepibile tra chi ostenta sicurezza (e quindi non ne ha) e chi invece ha imparato a padrongeggiare una determinata abilità, a tal proposito ricordo battuta recitata da Kevin Spacey in “The Big Kahuna”.

Ci sono persone a questo mondo, Bob, che hanno un’aria molto solenne mentre fanno quello che devono fare. E lo sai perché? Perché non sanno quello che fanno. Perché se sai quello che fai, non devi avere l’aria di saperlo, ti viene naturale, mi segui?

Ho sempre adottato questa visione contrapponendola al mantra “fake it till you make it”, ma solo oggi mi sono reso conto che non sono concetti antitetici, bensì gli estremi di un continuum. Esiste una metafora confuciana secondo la quale l’Uomo è simile ad un blocco di materiale grezzo, è necessario intagliarlo sapientemente affinché divenga un manufatto pregiato; Confucio prescriveva di osservare scrupolosamente dei riti volti a coltivare nell’animo umano disposizioni atte a renderlo un “Gentiluomo” (jūnzǐ;君子),1 una persona in grado di raggiungere lo stato della “non azione” (wŭwēi;无为), cioè di comportarsi automaticamente nel modo più appropriato a seconda del contesto. La spontaneità, la sicurezza in sé stessi, è una componente chiave nel successo (comunque lo si voglia definire) e fingerla finché non la si ottiene per davvero è una modalità efficace: la plasticità del nostro cervello fa dell’abitudine una forza molto potente.

A questo punto mi sorge però una domanda: perché con me non è così? Quelle poche volte che ho provato ad applicare quella massima è andato tutto in malora, ma credo ora di avere intuito la causa. Ho putroppo una tendenza al perfezionismo, quindi per me il solo pensiero di dover fingere un “controllo assoluto della situazione” è sufficente a farmi salire l’ansia; le mie aspettative tendono ad essere decisamente troppo elevate. Il metodo che ho deciso di adottare per conseguire lo stesso risultato (spontaneità/sicurezza) è apparentemente l’opposto: rinunciare ad ogni forma di controllo per accettare ogni aspetto della situazione che sto vivendo. È difficile? Molto. Ci riesco sempre? No. Però col tempo divento sempre più bravo ed è un approccio che, assieme ad alcuni accorgimenti, ha dato i suoi frutti.

Ci sono quindi molti sentieri per la vetta della montagna. In effetti, tornando un attimo alle Cento scuole di pensiero, quelli confuciani non erano gli unici strumenti per raggiungere il wŭwēi; se dovessi fare un analogia, il metodo che ho fatto mio è più affine al Daoismo2 rispetto che al Confucianesimo. A guardar più da vicino, comunque, le due modalità non sono affatto così distanti, facendo anzi leva sullo stesso principio: l’azione consapevole. Chi finge sicurezza allena la propria mente a creare comfort nelle situazioni di disagio, chi sceglie invece di abbassare le difese si abitua a liberarsi di tensioni inutili e permette alla sicurezza di emergere da sé; l’atteggiamento mentale è tuttavia subordinato all’agire, è l’azione ripetuta che modella il cervello dando forma alla nostra identità.

Non bisogna perdere tempo nel discutere su quale metodo sia il migliore, ciascuno scelga il più adatto a sé e si metta al lavoro: per imparare a nuotare bisogna entrare in acqua.


  1. Confucio non aveva alcuna nozione di neuroscienza, eppure aveva intuito in modo sorprendentemente accurato il ruolo di cold e hot cognition, capendo anche come sfruttare la seconda a suo vantaggio. 
  2. A voler essere pignoli, mi sono lasciato influenzare dal Daoismo filosofico di Zhuāngzǐ e dalle profonde intuizioni di Mèngzǐ riguardo la natura umana. 

Riprogramma La Tua Mente

Circa un anno fa, Fabrizio Rinaldi mi contattò per propormi una collaborazione: si trattava di un post sulla pratica meditativa, strutturato come una chiacchierata tra una persona che voleva saperne di più (lui) ed una con un po’ di esperienza in merito (io).

Avendo già in mente di scrivere un post completo ed aggiornato qua su Pagine Passate, accetto con piacere. Purtroppo, dopo una fase iniziale ricca di entusiasmo, vari impegni fanno arenare il progetto che rimane allo stadio di bozza per mesi e mesi, rischiando di finire nel dimenticatoio. Fortunatamente verso fine 2014 decidiamo di riprenderlo in mano per ultimare i lavori e poter poi avviarci verso la pubblicazione.

Finalmente ci siamo: oggi ha visto la luce su Medium “Riprogramma la tua mente”, quello che credo sia il post in lingua italiana più completo ed informativo sulla meditazione. Ringrazio Fabrizio per avermi proposto questa “chiacchierata virtuale”, per le sue domande stimolanti e per l’impegno dimostrato in corso d’opera. Una menzione speciale va anche al nostro illustratore, Dario Crisafulli, a cui si deve la bellissima immagine introduttiva.

Speriamo di aver fatto cosa gradita, buona lettura!

Uno spreco di energie

Fonte

Mi sono spesso trovato davanti a quest’immagine dell’introverso come di una persona che spende le proprie energie quando è in mezzo alla gente e si ricarica quando rimane per i fatti propri, mentre per un estroverso funziona nel modo opposto. Non ho letto libri sull’argomento e non mi sono fermato a riflettere se sia effettivamente così, ma — essendo io stesso introverso — mi sono rivisto in questa sommaria descrizione: a volte essere in compagnia di altre persone (specie se sconosciute) lo trovo drenante.

La mente umana, poi, è davvero curiosa: vuole talmente tanto trovare un senso a ciò che sperimenta, che crea all’istante collegamenti dall’apparente logica impeccabile, di modo da avere una spiegazione per tutto; gran parte dei nostri bias hanno origine da questo difetto congenito. Se ci si trova in difficoltà si pensa sempre vi sia qualcosa di sbagliato, si cerca questo elemento di disturbo e si stabiliscono possibili rimedi. Nel caso degli introversi si spazia dal vittimismo all’elitarismo, passando per una visione romantica di questa inclinazione che sembra aver preso parecchio piede su Internet.

Qual’è l’interpretazione giusta? Non ne ho idea, però è da qualche tempo che ho notato un comune denominatore per queste situazioni di disagio: la paura. Quando porto l’attenzione al mio corpo1, noto una sottilissima e costante tensione muscolare, localizzata soprattutto sulle spalle, in cui hi riconosciuto un meccanismo istintivo di difesa. Ma difesa da cosa? Cosa può capitare di male ad un party o ad una cena di gruppo? Ci si può perdere in digressioni filosofiche su questo argomento, ma ciò non avrebbe alcun senso: sono meccanismi inconsci, condizionamenti caratteriali che non scompaiono grazie ad una mera presa di coscienza.

Ciò che ho scritto è frutto di un’osservazione compiuta su me stesso, quindi non posso certo formulare un giudizio universale, ma voglio invitare gli eventuali lettori introversi a verificare se c’è del vero in quanto dico. Nell’immagine iniziale, l’autore ha usato i Dissennatori della saga letteraria Harry Potter come analogia per quello che prova quando si reca alle feste, io voglio riportare per un attimo il locus of control all’interno, dicendo che il disagio potrebbe essere causato dalla nostra reazione all’evento e non dall’evento stesso: è normale sentirsi “svuotati di energie” se si passa tutto il tempo a difendersi e contrarre muscoli.

Detto ciò, l’introversione è anche e soprattutto un modo di pensare e relazionarsi, dunque il superamento di vari automatismi difensivi non credo comporterebbe un cambio radicale della personalità; tuttavia si potrebbe, forse, vivere con una maggiore serenità.


  1. Devo ringraziare la meditazione per questo genere di intuizioni. 

Buddhism and Modern Psychology

Nel corso degli ultimi due mesi, ho avuto il grande piacere di seguire il corso online ‘Buddhism and Modern Psychology’ tenuto da Robert Wright, professore alla Princeton University ed autore di apprezzati libri sul tema della psicologia evolutiva.

Ho trovato ogni lezione illuminante su vari aspetti e ho particolarmente apprezzato le “office hours”, piccole sessioni extra in cui Wright provava a rispondere alle principali perplessità degli utenti riguardo i temi affrontati. Il docente ha saputo trattare in modo molto chiaro e lineare una materia complessa e vastissima, tentando di capire se le intuizioni buddiste riguardo la mente umana siano attendibili dal punto di vista della moderna psicologia.

Personalmente consiglio il corso a chiunque fosse anche solo lontanamente interessato a queste tematiche. Purtroppo non so se verrà riproposto in futuro, ma per vostra fortuna (e per mia utilità) ho deciso di caricare tutte le lezioni, i relativi sottotitoli e alcuni interessanti extra, su una cartella in MEGA.

Spero di aver fatto una cosa gradita e spero che, al termine della visione, condividerete con me l’ansiosa attesa del libro che Robert Wright sta scrivendo sull’argomento.

Non c’è nessun manuale

Esiste un modo di dire Zen che ricorre spesso in varie forme, può essere esemplificato con: “Qualsiasi atteggiamento è inappropriato, eccetto quando è appropriato”. Ovviamente non c’è una spiegazione del concetto e, nel sentirlo per la prima volta, si rimane sempre un po’ spiazzati, però si può capire abbastanza in fretta a cosa si riferisca: puoi spendere quanto tempo vuoi ad elaborare complesse strategie di azione, ma non arriverai mai ad ottenere regole generali sempre applicabili, perché ogni momento è unico.

È difficile non aggrapparsi a qualcosa, è difficile accettare l’incertezza, ma non hai molte alternative. Liberati da illusioni ed immagini mentali; passo dopo passo, affronta ciò che c’è. Se la mente vuole catturarti per farti sprofondare in una voragine senza fine, tratta questa illusione come un rumore di fondo e riporta l’attenzione a ciò che stai vivendo. Le contrazioni dei tuoi muscoli, l’acqua sulla tua pelle, le lacrime, la tua voce che vibra nella trachea, le emozioni che ti riempiono il petto: tutto questo è reale, è ciò che sei adesso. I pensieri che sorgono spontanei sono solo l’eco delle tue insicurezze, sono privi di realtà.

La realtà, già. Magari non ti piace, magari preferisci cullarti in una fantasia, cercare un modo qualsiasi per scappare, ma alla fine non c’è nessun posto dove puoi andare. Puoi soltanto affrontare ciò che ti si presenta davanti, sapendo che qualsiasi reazione è appropriata, fintanto che non fuggi; se poi dovessi compiere qualche errore, non perdere tempo coi sensi di colpa (anche quelli senza realtà) e affronta le conseguenze con lo stesso spirito. Soprattutto, però, impara a perdonarti. Sempre.

Abbassa le difese

Giorno dopo giorno incappiamo in situazioni ingiuste, e pensiamo che l’unico modo per affrontarle sia fare resistenza. Le armi del combattimento sono mentali: ci armiamo con la rabbia, le opinioni, l’ipocrisia, che indossiamo come un giubbotto antiproiettile. Lo riteniamo il giusto modo di vivere. Ma tutto ciò che otteniamo è di allargare la separazione [tra noi e la realtà], di alimentare la rabbia e di rendere infelici noi stessi e gli altri.

[…]

Finché non ci inchiniamo e sopportiamo la sofferenza, senza fare opposizione, ma vivendola, essendola, non potremo conoscere la vita. Ciò non significa passività o inazione, ma l’azione che sgorga dalla totale accettazione. Anche usare la parola “accettazione” non va troppo bene; meglio dire semplicemente che sgorga dall’essere la sofferenza. Non si tratta di accettare una cosa diversa da sé, né di difendersi da qualcosa. L’apertura totale, la totale vulnerabilità alla vita è (sorpresa!) l’unico modo soddisfacente di vivere.

— Charlotte Joko Beck in “Zen Quotidiano: Amore e Lavoro

Vette e valli procedono di pari passo

Diamo importanza agli eventi della vita quando corrispondono alle vette: è la cima che conta, che ci sembra importante, non la valle che separa un’altura dall’altra. Eppure, non sarebbe possibile avere rilievi senza le depressioni. Ma noi ignoriamo questo fatto, non notiamo le valli perché puntano in basso, mentre le montagne svettano verso il cielo e noi preferiamo ciò che punta in l’alto perché l’alto è “bene”, mentre il basso è “male”. C’è da dire però che non lodiamo le montagne per essere alte e accusiamo le valli di essere basse.

Eppure questo è il motivo basilare per cui ignoriamo le valli della vita, mantenendo la nostra attenzione focalizzata sulle vette ed escludendo qualsiasi altra cosa. Questo però ci mette a disagio perché proprio la ricerca di piacere (guardare le montagne) è ciò che ci priva del piacere, dal momento che nel nostro intimo sappiamo che ogni rilievo è seguito da una depressione; e siamo sempre spaventati perché non abbiamo l’abitudine di guardare a valle, di includerla nella nostra vita, quindi per noi rappresenta qualcosa di sconosciuto, di estraneo, di pericoloso. Forse abbiamo paura che collassi su sé stessa e ci intrappoli al suo interno, negandoci il raggiungimento delle vette. Forse la morte è più forte della vita, perché la vita sembra sempre richiedere uno sforzo, mentre verso la morte si scivola senza che venga chiesto alcun impegno. Forse “nulla” avrà la meglio su “tutto”, alla fine. Non sarebbe tragico? Quindi resistiamo al cambiamento, ignorando il fatto che la vita è cambiamento e che “nulla” è senza ombra di dubbio l’altra faccia di “tutto”.

La maggior parte delle persone ha paura dello spazio e pensa che esso sia “il nulla”, ma “spazio” e “materia” sono due modi diversi per parlare della stessa cosa: non trovi “materia” senza “spazio” e non trovi “spazio” senza “materia”. Se si affermasse un universo senza nient’altro che “spazio”, sarebbe spazio tra che cosa, esattamente? “Spazio” è una relazione e va sempre a braccetto con “materia”, così come fa “dietro” con “davanti”. Ma la nostra mente ignora lo spazio e pensa che sia la materia a comporre tutto ciò che vediamo.

In altre parole, l’attenzione cosciente ignora gli intervalli perché pensa non siano importanti. Prendete la musica come esempio: quando ascoltate un brano, ciò che davvero sentite nella melodia è l’intervallo tra un tono e l’altro. L’intervallo è essenziale. Allo stesso modo, tra questa generazione di persone e la precedente l’intervallo è importante esattamente quanto — se non di più — ciò che sta in mezzo. A dire il vero sono inscindibili ed equivalenti, ma dico che a volte l’intervallo è più importante perché si tende a sottovalutarlo, quindi voglio porre enfasi su questo punto.

Quindi: “spazio/notte/morte/oscurità/non esserci” è una componente essenziale di “esserci”; non si può avere l’uno senza avere anche l’altro, proprio come non si possono avere vette senza valli.

— Alan Watts