Da un po’ di tempo ho riscoperto il mio interesse per la linguistica, in particolar modo per l’etimologia. Il motivo, a ben pensarci, è evidente sin da subito: “etimo” deriva dal Greco étymos, ossia “reale”, “genuino”; l’etimologia studia quindi il significato più profondo delle parole. Dal momento che il linguaggio gioca un ruolo essenziale nel determinare il modo in cui percepiamo la realtà, credo sia importante — oltre che affascinante — comprendere il modo in cui questo si è evoluto.
In effetti i prodotti culturali (quale è il linguaggio), in modo non dissimile dagli organismi biologici, hanno una natura adattiva: reagiscono alle condizioni ambientali e si modellano in modo funzionale al contesto. Val la pena sottolineare che ogni successivo adattamento avviene sempre su una consolidata base pre-esistente, questo fa sì che il significato odierno di una parola sia inevitabilmente condizionato dal suo etimo risalente a millenni or sono.
Qualche mese fa ho assistito ad una lectio magistralis tenuta dal professor Massimo Cacciari intitolata “Virtù antiche, virtù moderne” e ne ho tratto spunti molto interessanti. Cacciari ha iniziato il discorso sottolineando come la radice della parola “virtù” sia vir, che in latino significa “maschio”, e ha rintracciato lo stesso suono nella parola sanscrita arhat, usata per indicare coloro che hanno raggiunto l’illuminazione. Ne deriva quindi che in tutte le lingue appartenenti al ceppo indoeuropeo l’immagine della rettitudine morale sia indissolubilmente legata al sesso maschile, motivo per cui — parole di Cacciari — “Il femminismo è stata l’unica vera rivoluzione culturale avvenuta in Occidente”.
Questo mi ha dato da pensare: se siamo portati inconsciamente a collegare la rettitudine ad un modello maschile, potrebbe darsi che nel corso della loro emancipazione ci sia il rischio per le donne di far proprio esattamente quel modello e, in un certo senso, “mascolinizzarsi”. Questa preoccupazione mi è sorta pensando al filosofo Cartesio che provò a spogliarsi di ogni covinzione pregressa per ricercare la verità delle cose, ma il peso della sua formazione cattolica era così ingente che egli si trovò a dimostrare l’esistenza di Dio. Per non parlare del movimento illuminista che, nella fretta di rimuovere la fede cristiana dall’equazione, non si accorse di starne adottando in pieno i principi cardine, esemplificati dal trittico “liberté, égalité, fraternité”. Analogamente, le donne che lottano per indipendenza e riconscimenti potrebbero ottenere quello a cui aspirano solo rendendosi più simili agli uomini, trovandosi quindi a subire un nuovo e più sottile tipo di oppressione.
È per me estremamente difficile parlare di questo argomento perché “uomo” e “donna” sono statiche categorie binarie e portano con loro un bagaglio di significati troppo ingombrante. Per questo motivo voglio adottare una prospettiva che trovo molto più funzionale e parlare di “polarità”, dicendo che non c’è di per sé nulla di male a familiarizzare con una polarità tradizionalmente non associata al proprio genere, ma è necessario valorizzare entrambe; in particolar modo ci si dovrebbe soffermare su quella che è stata a lungo mistrattata dalla nostra cultura.
Non conosco abbastanza l’argomento per permettermi di adottare un tono precettivo, questo post è più che altro un monito a considerare sempre che le nostre azioni possono entrare in relazione con variabili di cui non si sospettava l’esistenza e avere effetti imprevedibili.
Concludo con le parole di Cacciari: “Se non conosciamo i termini che usiamo per esprimerci, noi non parliamo: siamo parlati”.