Sarà che, a 22 anni suonati, inizio a sentire il peso dell’età, ma ultimamente ogni volta che leggo di un nuovo prodotto rivoluzionario in ambito tecnologico, passato l’effetto “wow”, non posso fare a meno di pensare ai possibili effetti che avrebbe nella vita quotidiana delle persone. E non è mai tutto rose e fiori.
Di recente si fa un gran parlare di Google Glass, la nuova meraviglia made in Mountain View. Ora, io sono molto meno votato alla multimedialità rispetto a quanto lo ero anche solo due anni addietro, però non nascondo la voglia di provare quegli occhiali; non li trovo così brutti come molti affermano, inoltre — come dice Diego Petrucci — l’attrito è quasi inesistente e ciò li renderebbe qualcosa di simile ad un prolungamento naturale del nostro corpo. Riguardo la mera utilità, ognuno si deve regolare in base alle proprie esigenze e il mercato darà la sentenza definitiva; io, ad esempio, non trovo alcun utilizzo per un tablet, ma mi guardo bene dal definirlo inutile e bollare come cretini coloro che fanno schizzare alle stelle le vendite degi iPad. Alla luce di queste premesse, come mai questi occhiali mi fanno alzare un sopracciglio ogni volta che ne sento parlare?
La risposta non mi è subito stata chiara e sono stato costretto a riflettere a fondo, chiedendomi persino se non si fosse radicato in me un sentimento anti-Google, data la mia passione per i gadget Apple. Decisiva è risultata la visione della serie TV britannica Black Mirror (consigliata a tutti), che pone l’accento sul nostro modo di interagire con la tecnologia. Ho concluso che il “problema” non è quest’ultima, ma il rapporto che noi abbiamo con essa: non siamo in grado di gestirla adeguatamente.
Bisogna partire dal presupposto che ogni gadget è, per definizione, superfluo. Quando noi decidiamo di integrare un dispositivo nella nostra quotidianità, lo facciamo ritenendo che possa aumentare la qualità della nostra vita, ergo ne consideriamo pro e contro e constatiamo che i primi sono in numero molto maggiore rispetto ai secondi. Ciò che risulta fallace è la nostra capacità di pensare a lungo termine unita alla scarsa consapevolezza che abbiamo di noi stessi. Quando una tecnologia diventa così bene integrata nelle nostre vite da sembrare parte integrante di noi stessi, avvengono due fenomeni parallei: da un lato tendiamo a diventarne dipendenti, dall’altro lasciamo che essa alimenti le nostre debolezze, le nostre pecche caratteriali.
È difficile rendere a parole il mio pensiero, quindi ricorrerò ad un esempio pratico che ho avuto modo di osservare in parte su me stesso, in parte su altre persone che conosco: lo smartphone. In tasca hai un dispositivo multifunzione che puoi — ipoteticamente — usare per rimanere in contatto con il Mondo intero e grazie al quale puoi accedere ad una enorme quantità di informazioni. Il fattore dipendenza è chiaramente intuibile e può essere generato sia dalle opportunità insite nella natura del dispositivo, sia dalle varie applicazioni installate che “combattono” per la nostra attenzione, ma come può un dipositivo alimentare le nostre debolezze? Ho visto cose che voi umani non potreste neanche immaginare: ho visto ragazze controllare ossessivamente la differenza di orario tra l’invio di un loro messaggio in WhatsApp e l’ultimo accesso del destinatario, ho visto coppie litigare per un “mi piace” messo sotto il commento sbagliato, ho visto studenti universitari passare la settimana prima di un esame giocando compulsivamente a Ruzzle, pentirsene, ma continuare imperterriti come eroinomani in cerca di una dose.
Sono situazioni che indubbiamente non toccano tutte le persone, ma sono sorprendentemente diffuse. Per “debolezze” non intendo altro che le normali insicurezze che tutti hanno e che vengono alimentate da un uso inconsapevole di tecnologie che evolvono ad un ritmo molto più elevato di quella che è la nostra capacità di adattamento. Per questo motivo voglio avere un atteggiamento prudente riguardo questi rivoluzionari occhiali di Google, perché la loro totale assenza di attrito li renderebbe una trappola perfetta per le nostre fragilità caratteriali e inorridisco al pensiero che, in futuro, possa diventare la prassi vedere il mondo attraverso quello che a tutti gli effetti è un filtro, qualcosa che porterebbe la famosa bolla di Google al di fuori dal mondo virtuale e direttamente nel mondo reale.
Ciò detto, rimango un geek: adoro la tecnologia, i gadget ed il World Wide Web; ritengo solo utile, per le prossime generazioni, un’educazione all’uso di questi strumenti, in modo da approcciarvisi in modo consapevole e non venirne assorbiti.