Negli ultimi due mesi ho avuto finalmente la possibilità di viaggiare un po’ in solitaria, per città Europee. Il non avere compagni di viaggio ha due conseguenze importanti, come facce della stessa medaglia: si è liberi di fare ciò che più si vuole; si può contare solo sulle proprie forze.
Fin qui nulla di nuovo, uno ci potrebbe arrivare anche senza vivere l’esperienza in prima persona. C’è però una sfaccettatura del secondo aspetto che non avevo mai considerato a dovere: il piacere, o persino la necessità, di condividere.
“Condividere” vuol dire letteralmente “rendere partecipi altri di ciò che si prova“. Più volte mi sono trovato nella condizione di voler comunicare a qualcuno ciò che avevo visto o ciò che pensavo di una determinata cosa, ma quel qualcuno non era lì con me.
Siamo nel 2017, però, e la condivisione oggi è soprattutto quella — a mio parere un po’ pigra e malsana — dei social network. Eccomi quindi ad usare WhatsApp, Facebook e Twitter più spesso di quello che avrei voluto; eccomi quindi a scoprire l’acqua calda: queste piattaforme vengono usate perché rispondono a dei nostri bisogni primari, nonostante alcuni effetti indesiderati. Siamo animali sociali, anche se ad alcuni di noi questa cosa non va troppo a genio.
Gli effetti collaterali però ci sono: credo fermamente nel valore formativo della solitudine, ma nel mondo odierno è realmente possibile rimanere soli? Fintanto che sei dotato di uno smartphone hai sempre possibilità di interazione — forse sarà surrogata, ma interazione rimane.
L’aiuto altrui è importante per affrontare il mondo esterno, ma la solitudine è essenziale per conoscere il mondo al tuo interno. Se ad ogni minimo segno di disagio la mano corre alla tasca e afferra il telefono, cosa puoi sperare di ottenere da ciò che stai vivendo1? È come quando, da bambino, il tuo sguardo vagava fuori dalla finestra mentre la maestra spiegava le tabelline: prestare attenzione non è piacevole, ma nel lungo periodo paga. Come dice bene Brunori Sas in una delle sue ultime canzoni: “Il dolore serve, tanto quanto serve la felicità”.
Tutti i luoghi comuni sui viaggi che aprono la mente e formano il carattere sono verissimi, ma ho la sensazione che si possa trarre il meglio da queste esperienze preferendo — entro certi limiti — l’analogico al digitale.
Come spesso accade, però, predico bene e razzolo male.