Cogito, ergo sum, disse Cartesio; penso, dunque sono. Un affermazione inattaccabile e banale solo all’apparenza, perché se partissimo dalla domanda che l’ha generata credo che nessuno potrebbe fornire una risposta sensata senza rifletterci per bene: cos’è che definisce la nostra esistenza? Non è però di questo che voglio trattare ora, bensì voglio porre l’attenzione su di un concetto strettamente correlato, quello di realtà. Noi uomini usiamo i nostri sensi per interagire con il mondo, ma ciò che percepiamo può essere definito la realtà, oppure è solo una realtà?
Prendiamo come esempio il senso della vista. I nostri occhi contengono milioni di cellule fotosensibili, chiamate coni e bastoncelli; i coni permettono di percepire forme e colori, mentre i bastoncelli rendono gli occhi sensibili a luce e movimento. Soffermiamoci un attimo sui coni e sulla differenza che intercorre tra i nostri e quelli di altri esseri viventi. Nei cani queste cellule possono recepire due tipi di colori, verde e blu, ciò permette loro di vedere verde, blu, grigio e qualche sfumatura di giallo. Noi uomini abbiamo in aggiunta dei coni deputati alla percezione del rosso, il che ci rende disponibili un set di colori molto più variegato rispetto ai nostri amici a quattro zampe. Potremmo quindi logicamente affermare che la realtà da noi percepita è diversa da quella che sperimenta un cane, ma prima di trarre qualsiasi conclusione voglio portare altri due esempi. Pochi sanno che le farfalle possiedono due tipi di coni in più rispetto a noi uomini, ossia possono vedere due colori aggiuntivi per cui noi non abbiamo nemmeno i nomi, senza contare lo spettro generale che risulta da tutte le possibili combinazioni! Infine vi è il caso limite della mantis shrimp, una “mantide marina” di cui ignoravo l’esistenza fino a qualche mese fa, che sembra avere gli occhi dotati di ben sedici(!) tipi di coni.1
Alla luce di quanto scritto sopra, la percezione di un fenomeno naturale come l’arcobaleno può variare dalla scialba miscela di blu e verde vista da un cane, sino all’esplosione inimmaginabile di colori che si presenta agli occhi della mantis shrimp. Non me la sento di lanciarmi in speculazioni eccessive ed affermare che la realtà è semplicemente un’illusione (sebbene credo si debba riflettere un po’ sull’effettivo significato della parola), ma quel che è certo è che la percezione che noi ne abbiamo è quantomeno parziale.
Anche lasciando perdere le differenze stutturali tra quella umana ed altre specie, possiamo arrivare a comprendere la nostra limitata visione di ciò che ci circonda riflettendo sul concetto di multidimensionalità; con questo termine non voglio evocare la teoria delle stringhe e parlare di universi paralleli2, ma semplicemente porre l’attenzione sulle dimensioni che noi riusciamo a percepire. Notoriamente sono tre: lunghezza, larghezza e profondità, giusto? Sbagliato. In effetti esiste una quarta dimensione di cui abbiamo sentore: il tempo. La differenza sostanziale rispetto alle precedenti è che quest’ultima non la possiamo realmente osservare, ma ne percepiamo l’effetto su noi stessi e ciò che ci circonda. Una riflessione sulla multidimensionalità in questi termini emerge dal racconto ‘Flatlandia‘ in cui i protagonisti, che vivono in un mondo bidimensionale, entrano in contatto con una sfera proveniente da una realtà a tre dimensioni — quindi dotata di profondità.3 Il concetto specifico di quarta dimensione viene invece citato in modo piuttosto evidente nel film ‘Donnie Darko‘, in cui il protagonista diventa in grado di vederne il flusso: un fluido che esce dal torace delle persone.4
In seguito a tali riflessioni, sorge spontanea una domanda: possiamo essere in grado di comprendere realmente ciò che non riusciamo a sperimentare nella sua totalità? Gli sforzi della mente umana, dalla filosofia ellenica alla moderna scienza, sono sempre andati in direzione del capire il come ed il perché delle cose; a differenza però delle speculazioni filosofiche che devono per forza far leva su differenti interpretazioni e quindi non sono in grado di ricavare un verità ultima, la scienza sembra aver trovato uno “strumento” con cui poter indagare ogni aspetto del reale ed a cui affidarsi ciecamente: la matematica.
Ma la matematica esiste davvero? Nonostante il mio astio personale nei confronti di tutto ciò che abbia a che fare con i numeri, non posso che riconoscere la loro importanza e la loro incredibile capacità di adattarsi a qualunque contesto, quasi la matematica fosse fornita in bundle con la realtà: qualcuno potrebbe ragionevolmente affermare che, se qualcosa esiste, può essere tradotto in dati numerici. Ma io, da bravo bastian contrario, vorrei citare il vecchio koan Buddhista: «Se un albero cade in una foresta senza che ci siano spettatori, l’albero produce un rumore cadendo?», oppure la domanda: «La Luna, dunque, non esiste quando nessuno la osserva?» la cui risposta fu considerata da Bohr tutt’altro che semplice. Dunque la matematica è stata scoperta o inventata dall’uomo?
Non possiamo vedere la matematica, possiamo carpire informazioni da ciò che ci circonda e tradurle in concetti matematici. Ok, non essendo (affatto!) il mio ramo di competenza, ogni parola che scrivo rischia di essere una zappata sui piedi, tuttavia nel mondo scientifico è molto discussa la questione dell’effettiva esistenza della matematica. Vi sono i sostenitori del realismo matematico, convinti che le entità matematiche esistano indipendentemente dalla mente umana, e poi vi sono gli anti-realisti, i quali sostengono che l’unica ragione per cui abbiamo il nostro immenso bagaglio di conoscenza matematica non è perché l’abbiamo scoperto, ma perché l’abbiamo “creato”. È un dibattito insoluto e probabilmente è destinato a rimanere tale. Sguscio via abilmente da questo groviglio di filo spinato che mi sono costruito attorno lasciando parlare un breve — ma informativo — video sulla questione (è in inglese senza sottotitoli, mi spiace).5
La matematica dunque “potrebbe” essere un’opinione. In ogni caso credo abbia davvero poco senso additarla come verità universale, in quanto — come si è visto — la nostra consapevolezza del Tutto è estremamente relativa. Ho notato che parlare di questi argomenti è molto difficile, vista la presenza di persone che nutrono un vero e proprio astio per il relativismo, forse perché vivere in un mondo senza certezze è spaventoso?
In seguito a numerose esperienze (ed ancora più numerose letture) mi sono trovato a considerare l’approccio relativista come quello che meglio si applica alla realtà quotidiana; tuttavia, per essere fedele al mio ragionamento, devo ammettere che si tratta pur sempre di una mia opinione.
Dice il Dàodéjīng:
Il Dao si cui si può parlare non è l’eterno Dao
I nomi che si possono nominare non sono i nomi eterniSenza nome l’origine di cielo e terra
Con nome, la madre dei diecimila esseri.
I primi due versi dicono: ogni discorso è contingente, ogni rappresentazione della realtà è condizionalmente valida, ogni norma prescrittiva è relativa. Ogni discorso sul reale è una mappa e una mappa non è il territorio, ma solo una rappresentazione approssimativa. Il “territorio”, la realtà, resta eternamente al di là di ogni mappa che possiamo farcene, resta eternamente al di là del dicibile.6 “I nomi” sono quindi relativi, contingenti, hanno senso nel contesto di un universo di discorso, sono strumenti efficaci per fini particolari, ma non toccano la realtà.
Essendo la lingua cinese molto complessa la parola “nomi” è una traduzione di comodo, va qui intesa come “qualsiasi rappresentazione della realtà”: abbraccia l’intera dimensione del rappresentare un mondo. Non appena la coscienza riconosce un “sé” e un altro “sé”, i nomi hanno origine; con i nomi nascono le cose, esse non preesistono alla coscienza, bensì emergono nell’atto di nominare. L’universo vecchio di quindicimila anni sorge insieme alla coscienza che lo contempla come tale.
Il ragionamento fatto sopra è tratto dall’analisi a cura di Augusto Shantena Sabbadini presente nel libro da me acquistato, non l’ho trasposto come citazione perché l’analisi in toto è più dettagliata e divaga verso argomenti che andrebbero decisamente off-topic.
I successivi due versi pongono maggiore enfasi su quanto i “nomi” siano in realtà distanti dall’essenza di tutte le cose e di come quindi ciò che noi chiamiamo realtà non sia altro che una proiezione del nostro “sé” all’interno dell’Universo che lo contiene; una tesi molto solipsistica. Stando così le cose non può esistere un’oggettività, tutto è soggettivo, contestuale, ed il nostro atto di “nominare” non fa altro che snaturare l’essenza unitaria del Tutto. Laozi coglie il primo segno del degrado nella distinzione fatta tra bene e male e qui andrebbe aperta un’enorme parentesi, ma nel farlo andrei troppo fuori strada, quindi cercherò di minimizzare ogni possibile dubbio ed obiezione mantenendo il discorso il più lineare possibile.
Esattamente come ogni altra cosa anche questo “relativismo radicale” necessita di una contestualizzazione: nelle comunità di individui sono necessarie delle regole basate su concetti ben definiti di “bene” e “male”, sebbene sarebbe interessante indagare sulle modalità con le quali è avvenuta tale dicotomia. Il tabù del cannibalismo, ad esempio, non è mai stato universalmente riconosciuto come tale, tanto è vero che il processo evolutivo ha selezionato un batterio epidemico in grado di proliferare esclusivamente tramite questo mezzo, ed è stato molto diffuso presso gli indigeni della Nuova Guinea fino a che tale pratica non è stata eradicata dai colonizzatori. A suffragio di questa tesi relativistica vi è la teoria sociologica della subcultura secondo cui una persona può commettere reato perché si è conformata ai valori di un sotto-gruppo, i quali contrastano con quelli della società generale.
Dunque non solo la nostra percezione soggettiva del reale ci impedisce di indagarlo a fondo, ma ha importanti ripercussioni anche sul modo nel quale la società in cui viviamo viene modellata. Tuttavia anche migrando dal macrocosmo dell’Universo al microcosmo della società, finanche a quello delle relazioni interpersonali, si possono ugualmente scorgere problemi nel definire la realtà che abbiamo di fronte agli occhi; un esempio emblematico è rappresentato dal concetto di “normalità”.
Ci si potrebbe gettare in disamine etiche senza fine sulla parola “anormale” che spesso risulta sinonimo di “diverso dalla massa” e che quindi finisce per generare odio e fratture all’interno dei sistemi sociali, ma queste considerazioni le lascio ai sociologi di professione. Avendo improntato il discorso come una speculazione filosofica preferisco tornare a porre l’attenzione sul rapporto puramente soggettivo che ciascuno di noi ha con l’ambiente circostante (e quindi anche con le persone che lo popolano). Mentre un’ottica scientifica necessita dell’applicazione di un metodo dalla comprovata efficacia, di modo che l’approccio sia massimamente razionale e possa raggiungere un punto di vista oggettivo,7 nella nostra quotidianità un ruolo preminente lo giocano gli istinti, dai quali la stessa ragione finisce per essere condizionata.
Quindi il già citato concetto di “normalità” non è quasi mai ben delimitato, bensì molto spazio è lasciato all’interpretazione e — soprattutto — a quello che si potrebbe definire il “sistema di riferimento“. Siccome un chiaro esempio vale più della vagonata di caratteri che dovrei usare per spiegare ciò che intendo, cito qui di seguito un passo tratto dal libro di Sheldon Kopp: ‘Se incontri il Buddha per la strada uccidilo‘:
Una volta sono stato testimone di un esempio ironicamente illuminante della definizione culturale di insania, e delle politiche di potere inerenti al controllo sociale psichiatrico. Nel periodo in cui facevo parte del personale dell’Ospedale Psichiatrico Statale del New Jersey, uno strano uomo comparve a un angolo di una strada a Trenton; era avviluppato in un lenzuolo bianco e mormorava a bassa voce strane parole incomprensibili. La sua stessa presenza minacciava nel suo complesso la certezza di equilibrio mentale della comunità. Per fortuna, per il bene dell’uomo stesso, un cittadino più equilibrato chiamò un poliziotto. Così si riuscì a portare questo poveretto sotto la protezione racchiusa del manicomio.
I suoi sforzi di spiegare il suo strano comportamento furono inutili, dal momento che era chiaramente un matto o, per essere più scientifici, bisogna dire che venne classificato con quella sindrome comoda e omnicomprensiva nota come Schizofrenia, Tipo Cronico Indifferenziato. Sarebbe stato difficile per chiunque comportarsi in quella situazione con maggiore credito del personale diagnostico, dal momento che il paziente rimaneva un presunto pazzo finché non si fosse dimostrato sano di mente, non era rappresentato dall’avvocato, e non gli fu neppure detto che qualunque cosa dicesse poteva ritorcersi contro di lui.
Vi operava poi anche un’altra limitazione, che derivava epifenomentalmente dalla sociologia della medicina americana. Ai medici provenienti da paesi stranieri non è permesso esercitare la professione in questo paese fino a quando non hanno dimostrato competenza sia nella lingua inglese che nella medicina. Fin qui, tutto bene. Nell’assenza di tale dimostrazione di competenza, però, a loro è permesso lavorare come psichiatri interni negli istituti mentali statali. Ho visto cittadini irascibili (ma altrimenti normali) diagnosticati come psicotici confusi, giudicati incapaci di intendere e privati dei loro diritti civili e della loro libertà sulla base della loro incapacità di comprendere le parole incompetenti di psichiatri interni male addestrati la cui conoscenza dell’inglese era così limitata che neppure io riuscivo a comprenderli.
Per fortuna, per il paziente dal lenzuolo bianco che mormorava in modo incomprensibile, il giorno delle visite in ospedale ebbe inizio la mattina successiva. Evidentemente il paziente in questione aveva telefonato a casa e fatto sapere la sua situazione. Quella mattina venti altri individui coperti tutti di lenzuola bianche, giunsero all’ospedale. Visto il loro strano abbigliamento, risultarono egualmente incomprensibili al personale psichiatrico. Venne fuori (con il divertimento dello psichiatra più anziano dell’ospedale) che quegli uomini e donne erano tutti membri della stessa setta piccola religiosa rurale, un gruppo religioso che in parte definiva la propria identità abbigliandosi nella purezza del tessuto bianco e che si sentiva divinamente ispirato a parlare in diverse lingue. Lo psichiatra (un cattolico osservante che settimanalmente riceveva il corpo e il sangue di Gesù Cristo) li considerò un gruppo estremamente bizzarro. Che il cielo lo aiuti a non doversi mai trovare in una comunità ove le sue affiliazioni religiose risulterebbero egualmente oscure! Un uomo simile è un pazzo. Venti di tali uomini costituiscono una comunità accettabile e sana di mente.
Come si può evincere da questo (preoccupante) aneddoto, la concezione relativistica della realtà ha un suo perché anche senza tirare in ballo sovrasistemi metafisici. Proviamo però ora a scendere un po’ più nel dettaglio e porre l’attenzione sui singoli individui, piuttosto che sulle aggregazioni di persone.
Non è un mistero per nessuno che io sia un assiduo frequentatore di Reddit e non del tipo passivo: mi piace anche aprire thread e porre domande. Più di un anno fa, prima che scoprissi l’esistenza di quello che oggi è uno dei miei subreddit preferiti, decisi di cercare un approccio Zen ad un tarlo che mi stava dando parecchi problemi in quel periodo: come non lasciarsi condizionare dall’opinione altrui? Posi questa domanda in /r/Zenhabits e ricevetti una risposta illuminante che traduco qui sotto:
Cerca consapevolmente di non prendere nulla a livello personale. Ognuno ha la propria idea di come vadano le cose in questo mondo, di come loro e chiunque altro siano fatti e di cosa sta accadendo sotto i loro occhi, basandosi unicamente sulle loro convinzioni personali. Ogni individuo ha la propria definita idea riguardo la realtà, il proprio filtro, la propria interpretazione. Per ciascuno di noi tutto è nel modo in cui noi lo vediamo, indipendentemente da quelli che possono essere i punti di vista altrui.
Quindi ciascuno vede il mondo a proprio modo, questo per via delle sue convinzioni personali. Convinzioni che ha selezionato in modo più o meno cosciente, indipendentemente dalle tue azioni.
Se mentre cammini per strada passi di fianco ad uno sconosciuto e questi si rivolge a te con fare acido dicendo: «Odio le tue calze viola e arancioni!», a quel punto tu lo guarderai con fare confuso e stranito perché non indossi calze come quelle, non possiedi proprio un paio di calze di colore diverso dal bianco. Questo è un esempio un po’ bizzarro, ma vuole dimostrare il seguente principio: ogni individuo vede e giudica il mondo circostante basandosi sulle proprie convinzioni. Non hai alcun obbligo a concordare con la loro visione della realtà.
Ogni volta che qualcuno si rivolge a te come il tizio delle calze viola e arancioni e offre il suo modello di realtà tu hai sia la possibilità di accettarlo ed integrarlo con il tuo e dire: «Cavolo, ha ragione! Queste calze fanno venire il voltastomaco. Chissà cosa mi è preso quando ho pensato di indossarle.», oppure puoi dire: «No, grazie.» e continuare per la tua strada preferendo il tuo modo di vedere le cose.
Ciò che sto cercando di dirti è che quando qualcuno ti giudica non lo sta facendo perché tu hai un qualche reale motivo per provare vergogna, sentirti in colpa o in imbarazzo, ma perché ha in mente una serie di valori che sono completamente diversi dai tuoi, e non hai alcuna responsabilità di concordare con loro. Non è nulla di personale. Non riguarda te, riguarda loro.
Ciò non significa che tu hai sempre ragione e chiunque non è d’accordo con te ha sempre torto. Non significa che hai facoltà di compiere un genocidio e mandare a quel paese chiunque ti vuole mettere in prigione. Hai ancora la responsabilità di agire in linea con la tua morale e con ciò che ritieni giusto. Questo è parte di un più largo percorso di trasformazione che include onestà intellettuale, amor proprio e crescita personale.
La stessa idea va applicata ai riscontri positivi. Quando le persone dicono: «Oh Jaja1990, sei così gentile!» oppure «Wow è stata una cosa davvero carina da parte tua», ecc…non è realmente merito tuo. Queste cose vengono dette perché la loro concezione della realtà le fa reagire in tal modo. Sai di essere una brava persona e non hai bisogno che qualcuno te lo dica in modo da sentirti bene con te stesso. Puoi concordare con loro e condividere i loro apprezzamenti nei tuoi confronti, ma non cadere nella trappola di credere di aver bisogno di conferme da terze parti. Siete come due viaggiatori le cui strade si incrociano momentaneamente. Potete apprezzare la vostra compagnia reciproca, ma tu non sei su quel sentiero perché ci sono anche gli altri — c’eri già da prima.
Il penultimo paragrafo è suscettibile di parecchie obiezioni. Ad esempio l’Olocausto è avvenuto nella più ferma convinzione che fosse la cosa giusta da fare e l’antisemitismo può benissimo essere visto come una “morale”. Purtroppo quando ci si addentra in questo tipo di riflessioni è come camminare in un campo minato e per dimostrare efficacemente la propria tesi si dovrebbero sviscerare dettagli per i quali probabilmente non basterebbe un libro intero. La chiave di volta del discorso, per come la vedo io, è il rispetto reciproco dettato da esigenze condivise. L’intero discorso affrontato fino ad ora si svolge su più livelli, dal generale a particolare: se è vero — come ipotizzato dalla tesi principale — che l’atto di “nominare l’innominabile” finisce per snaturare la realtà e creare un mondo sensibile che altro non è che il riflesso della vera essenza, la quale rimane per noi insondabile, è altrettanto vero che il mondo da noi “creato” e i vari sottoprodotti (come la società) sottostanno a morali e regole condivise dagli individui che la compongono.8
Fatta questa doverosa precisazione, il discorso di quell’utente è particolarmente calzante e mi fece riflettere parecchio, fino a diventare uno dei capisaldi del mio pensiero attuale. Una volta tenuta come punto fermo l’umiltà necessaria per accantonare l’orgoglio ed essere massimamente sinceri con sé stessi — prerequisito indispensabile per l’onestà intellettuale — ci si inizia ad accorgere che le persone vedono la realtà tramite il proprio filtro, ed i giudizi estemporanei non si poggiano su alcuna base solida. Personalmente trovo molto calzante questa citazione: «La tua percezione di me è un riflesso di te stesso. La mia reazione a te è una consapevolezza di me».9
Nonostante ciò sono pochissime le persone che si fermano a riflettere sull’effettivo significato delle loro azioni, generalizzando si potrebbe dire che ogni individuo che potete incontrare per strada è il protagonista assoluto della propria esistenza ed il modo in cui vede le cose è l’unico ed insindacabile modo di vederle: tutto ciò che non si conforma è semplicemente sbagliato.
Pochissimi si mettono in discussione e fanno quel passo in più dato dal porsi nei panni altrui; la tendenza che ne risulta è un generale appiattimento dell’individualità, la visione più diffusa diventa quella “giusta” a cui tutti si devono uniformare, pena: l’emarginazione. Una “soggettività condivisa” viene oggettivata diventando il perno di uno status quo visto come equilibrio da proteggere ad ogni costo. A fare le spese di questo istintivo comportamento sono le “mosche bianche” (o le pecore nere, a seconda dei punti di vista), come dimostra questa immagine postata su Imgur che traduco qui:
Ho davvero dovuto insegnare a mia madre i fondamenti dell’essere un genitore.
In entrambe queste foto il soggetto è mia figlia, la prima è stata scattata nel 2011, la seconda nel 2012. Le lascio scegliere i propri vestiti, le proprie scarpe, il proprio taglio e colore per i capelli, praticamente qualsiasi cosa di superficiale. È troppo piccola per comprendere le conseguenze di piercing e tatuaggi, quindi non ne ha. Ma i capelli crescono, le scarpe diventano piccole ed i vestiti si logorano. Tutte queste cose non hanno una reale importanza — non dovrebbero averne — ma chiunque stia crescendo un figlio anticonformista sa che il mondo non è altrettanto comprensivo.
Mia figlia di recente ha chiesto un taglio di capelli come il mio. Un lungo ciuffo in cima e sfumature cortissime ai lati e sulla nuca. Mi ha supplicato per settimane per potersi tingere nuovamente i capelli, ma non è ho avuto il tempo. Oggi però è venuta da me con la stessa timidezza che sta iniziando a sviluppare quando è fuori casa; i suoi compagni e membri della famiglia le fanno continuamente pressione affinché assuma un aspetto “normale”, perché lasci crescere i suoi capelli e non se li tinga, perché si vesta in una determinata maniera (lei odia conformarsi), per alterare o meno il suo aspetto in modo da conquistare l’approvazione degli altri e della società in generale.
QUESTO MI FA DAVVERO INCAZZARE
Ho chiamato mia madre questa notte, perché mia figlia è tornata molto timida e non voleva più tingersi i capelli a causa di ciò che sua nonna le aveva detto. Mia madre ha replicato che dovremmo comprare uno di quegli spray che vengono usati per colorare i capelli ad Halloween, così la tinta non sarebbe “permanente” e mia figlia potrebbe tornare di nuovo “normale” evitando così di essere vittima di bullismo.
NON SONO LE VITTIME CHE DEVONO SMETTERE DI ESSERE TALI. SONO I BULLI CHE DEVONO SMETTERE DI ESSERE BULLI.
Lo so che viene presa in giro ogni tanto e ne abbiamo sempre parlato. Lei rimane forte e sicura di sé fintanto che ha il supporto delle persone che le vogliono bene. Ma quando il supporto vacilla, o fa marcia indietro, lei cade a pezzi.
Viene inoltre presa in giro perché le piacciono i dinosauri e non le bambole. Viene presa in giro perché preferisce fare la lotta piuttosto che giocare alla donna di casa. Viene presa in giro perché le piace Saetta McQueen e non Cenerentola. Dove dobbiamo tracciare il confine?
Mia madre pensa che questa sia una “sciocchezza”, che sia meglio non pensarci. Ma ciò pianterebbe il seme del dubbio, getterebbe le basi per consentire che i bambini eccentrici vengano rinchiusi negli armadietti, che i bambini disabili si sentano inutili, che le ragazzine accettino partner violenti. Questa non è un “sciocchezza”, è un cazzo di PROBLEMA, perché è del carattere di mia figlia che stiamo parlando e darà forma alla sua vita.
Supportate i vostri cazzo di figli. Lasciate che siano chi loro vogliono essere, che appaiano come vogliono apparire e che giochino come vogliono giocare. Ed assicuratevi che sappiano di essere amati, indipendentemente dagli eventi.
«Poi è bene essere un poco diffidente per chi è un po’ differente», cantava Guccini in ‘Canzone di notte n. 2‘. Non è detto che chi è diverso debba essere per forza “sbagliato”, ma il confondere la propria visione personale per verità assoluta porta spesso a tale fallace sillogismo. Ecco allora nascere classificazioni arbitrarie e stigmatizzazioni istintive, sovente veicolo di odio immotivato pronto a sfociare in atti di bullismo (fisico o psicologico) come quello descritto sopra. A volte per renderci conto dell’astio disumano che la nostra società è in grado di generare per ciò che, in definitiva, è la scelta individuale di una persona riguardo la sua vita, dobbiamo immaginare situazioni paradossali; ad esempio: cosa succederebbe se i gay fossero “normali” e gli etero “sbagliati”?
Se siete arrivati a leggere fino a qui avete davvero molta pazienza. Spero di essere riuscito a persuadere degli eventuali lettori di quanto possa essere sottile ed arbitrario il confine tra “giusto” e “sbagliato”, tra “normale” e “anormale”.
Questo fiume di parole rappresenta in primo luogo la mia esigenza di mettere ordine ad un po’ di pensieri che covavo da parecchio tempo, la necessità di trovare un filo conduttore a diverse esperienze, osservazioni e letture. Perché se dunque è vero che tutti noi abbiamo il nostro filtro, la nostra personale realtà, beh, questa è la mia. Ed è importante che mi ricordi che non è l’unica chiave di lettura possibile.
Citando ancora Guccini:
E ognuno vive dentro i suoi egoismi vestiti di sofismi
E ognuno costruisce il suo sistema
di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali
scordando che poi infine tutti avremo
due metri di terreno…
- Se volete sapere di più riguardo questo affascinante crostaceo, potete ammirare questa vignetta da cui ho tratto all’incirca l’intero discorso. ↩
- Qualora foste interessati segnalo questo eccellente Ted Talk. Putroppo le mie nozioni in materia sono troppo basilari per permettermi di esprimermi in merito. ↩
- Sebbene conosca la sinossi del racconto, non ho ancora avuto modo di leggerlo. Tuttavia è nella mia wishlist di Amazon, quindi sarà solo questione di tempo. ↩
- Sicuramente ci sono molte più opere cinematografiche e letterarie che trattano la questione, ma questo film è l’unico esempio calzante che mi è venuto in mente. Inoltre ci tengo a precisare che tutto questo discorso è stato ispirato dalla visione del video ‘Immaginare la decima dimensione‘ che consiglio caldamente a chiunque. ↩
- Per chi non riuscisse a vedere il video incorporato, ecco il link diretto. ↩
- Questa visione della realtà è cara anche alla fisica quantistica, il motivo per cui non ne parlo è semplicemente per una mancanza di nozioni da parte mia. ↩
- Sebbene, come abbiamo visto, ciò sia in senso assoluto un’utopia. ↩
- Scegliete voi se tirare in ballo il contratto sociale di Rousseau, o l’intuitiva massima confuciana: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». ↩
- A tal proposito è ormai conclamato, ad esempio, che gli omofobi più intransigenti sono con molta probabilità omosessuali repressi. ↩