Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo del Post intitolato “Perché la maggior parte delle violenze è commessa da giovani maschi?”, in cui viene riportata una ricerca condotta da un professore universitario sulla violenza maschile. La ricerca mette in risalto come la necessità di affermare la propria virilità — percepita come impellente nei giovani maschi — sia alla base di una spiccata aggressività e della propensione alla violenza. La radice della questione non è solamente culturale, ma ha anche una importante componente biologica: più alti sono i livelli di testosterone, più probabili sono i comportamenti violenti. Significativa è questa frase contenuta nell’ultimo paragrafo:
[…] secondo McAndrews, la violenza tra i giovani maschi è più diffusa tra quelli che non riescono a ottenere il rispetto degli altri e a costruirsi uno status sociale, e di conseguenza a guadagnare quello che McAndrews definisce «l’accesso alle donne».
La ricerca è senza dubbio interessante, ma la si potrebbe benissimo inserire nel filone di quegli approfondimenti atti a dimostrare che l’acqua calda è, a tutti gli effetti, calda: ribadisce ciò che molti quantomeno sospettavano, senza aggiungere granché al dibattito. Al netto dei fattori ambientali — mai da sottovalutare — vi sono chiare differenze tra uomini e donne, fra cui la predisposizione maschile alla competizione per guadagnarsi il rispetto dei propri pari e migliorare il proprio status. La ricerca del professor McAndrews si concentra sull’effetto che il solo maneggiare armi ha sui livelli di testosterone, specie se maneggiate da individui “disadattati”, a mio parere però quelle osservazioni dovrebbero essere integrate da un altro interessante dato: il coefficiente di Gini.
Per chi non lo sapesse, il coefficiente di Gini è utilizzato in economia per misurare la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Una ricerca condotta analizzando i dati raccolti in quaranta Paesi nel periodo tra il 1962 e il 2008, ha evidenziato una significativa correlazione con la frequenza delle “morti violente”. Prima di quest’indagine era convinzione diffusa che fosse la povertà assoluta ad essere foriera di criminalità (la disperazione porta a delinquere), ma alla luce dei nuovi dati possiamo affermare che il maggiore problema risiede nella povertà relativa: se io ho i mezzi per sopravvivere, ma tu vivi molto merglio di me, allora sono più incline ad avere comportamenti aggressivi.
È innegabile una propensione maschile alla violenza, ma è altrettanto vero che a gettare benzina sul fuoco sono le diseguaglianze sociali — in primo luogo economiche. Come ribadito poc’anzi, la competizione per lo status è centrale per gli uomini, tant’è che tutti, in un modo o nell’altro, vi partecipano. È però essenziale che le regole del gioco vengano percepite come eque: se le disparità sono tali da far percepire come essenzialmente inutile il mio impegno per raggiungere la vetta, allora subentra la frustrazione. Quando il gioco appare truccato, vengono meno gli incentivi a seguire le regole e cresce il desiderio di ribellione, di cui la violenza è istintivo sfogo.
Seguendo la scia di questa tematica, vale forse la pena spendere due parole un po’ provocatorie sul tema caldo di questo periodo: lo stupro. Immedesimatevi, per un attimo, in un ragazzo nel pieno dei suoi anni che è costretto a lasciare tutto ed emigrare verso un Paese di cui sa poco o nulla e in cui verosimilmente non ha contatti. Vi trovate allo scalino più basso della gerarchia sociale, indipendentemente da competenze o qualità, soltanto per il fatto di essere un immigrato; verosimilmente dovete quotidianamente affrontare varie forme di discriminazione (se non vero e proprio razzismo), alimentati anche da personalità istituzionali del Paese che vi ospita. Siete frustrati, arrabbiati, disperati, sfruttati per paghe così basse da rendere le sirene della criminalità sorprendentemente seducenti.
A tutto ciò si aggiunge un dettaglio non da poco: le vostre chance di trovare partner sessuali sono molto scarse, se non quasi inesistenti. Quest’ultimo è un aspetto da non sottovalutare, in quanto il sesso è da sempre il principale incentivo alla sopravvivenza: ognuno di noi è il risultato di una ininterrotta catena riproduttiva che ha origine dal primo organismo unicellulare. Non essere in grado di concretizzare questi istinti porta ad una frustrazione indicibile, che si inserisce in un contesto già da sé precario in cui la tendenza al disprezzo delle regole è incoraggiata. Unendo tutto ciò ad un substrato culturale che spesso e volentieri vede la donna in una posizione subordinata e quasi priva di diritti, possiamo capire il perché le percentuali di stupratori tra i giovani immigrati sia così elevata. Per citare le poco felici parole di Debora Serracchiani: lo stupro commesso da un profugo è forse “più grave“ (in quanto ospite), ma è senza dubbio “più intelligibile”.
Il ricorso alla biologia per la spiegazioni di fenomeni umani è senza dubbio importante e troppo poco considerato nel dibattito pubblico. Se però vogliamo davvero comprendere le cause di certi fenomeni ed ipotizzare soluzioni, bisogna scongiurare le iper-semplificazioni e contestualizzare i fenomeni che si osservano. Solo così si può evitare di stigmatizzare e fossilizzare determinati tratti in una sorta di “Peccato Originale” 2.0, agendo invece su elementi che possiamo in qualche modo controllare per scongiurare pericolose derive.