Errare

Mi è stato più volte detto che sono un tipo strano che fa cose strane. Fra queste “cose strane” che ogni tanto mi piace fare vi è l’andare a seguire conferenze (possibilmente gratuite) su temi che sembrano stimolanti; devo dire che si è rivelata una buona abitudine, in grado di fornirmi notevoli spunti di riflessione.

Il 22 maggio del 2015 andai ad un incontro organizzato dal gruppo Bridge Partners dedicato all’argomento dell’errore ed intitolato “Il Modo Giusto di Sbagliare”. La conferenza era moderata da una giornalista del Sole 24 Ore e i relatori erano tutti di un certo spessore: Giovanna Leone, docente di Psicologia Sociale all’Università Sapienza di Roma, Marco Delmastro, fisico ricercatore presso il CERN di Ginevra e il CNRS francese, Salvatore De Rienzo, consulente di Egon Zehnder, Alberto Fusi, Chief Human Capital Officer di ERG e Umberto Pelizzari, ex campione mondiale di apnea.

L’incontro è stato molto interessante in ogni sua parte (sorprendenti in modo particolare gli interventi di Pelizzari), tant’è che vi consiglio vivamente di ascoltare la registrazione integrale da me fatta. In questa sede vorrei parlare però dei contributi che in me hanno lasciato maggiormente il segno: quelli di Giovanna Leone. Dopo le doverose premesse, fatte anche dagli altri relatori, su quanto l’errore sia un indispensabile strumento didattico e di crescita professionale oltre che personale, ha parlato in modo molto interessante dell’educazione infantile.

Il bambino che non usa più le rotelline per andare in bicicletta fa questo passo perché un adulto ha scommesso su di lui e ha detto “ce la puoi fare”. È terribile quando le persone ti dicono “non ce la farai mai” perché se tu ci credi finirai effettivamente per non farlo: si chiama profezia che si auto-determina.

Questo è il motivo per cui il grande psicoterapeuta Viktor Frankl asseriva che le persone vanno sempre sovra-stimate ed incentivate a sperimentare cose nuove, a mettersi alla prova, mentre in parallelo si ricorda loro che la possibilità di fallire è sempre presente. L’errore però non va demonizzato: se viene visto come un qualcosa da evitare a tutti i costi, si interiorizza l’idea che non ci si può permettere di sbagliare perché la posta in palio è troppo alta; a volte le persone non cambiano perché non si mettono mai in gioco, poiché pensano che il fallimento sia la fine del mondo.

[…] L’errore è diverso dalla sciatteria: la sciatteria è quando non ti sei preparato abbastanza, invece l’errore — come dice l’etimo — vuol dire che sto errando, vagando qua e là, sperimentando; l’errore è figlio del fatto che tu stai provando. Ci sono persone che hanno il coraggio di provare, che si buttano, e poi ci sono persone che invece hanno paura. Io però non vedo tanto dei profili di personalità, quanto più delle situazioni tipiche (pur non negando aspetti caratteriali e genetici). Ci sono degli ambiti che permettono alle persone di sbagliare, di provarci.

Ad esempio a noi è capitato di osservare situazioni di bambini che giocano con vicino l’insegnante — che sa di essere filmata, quindi cerca di ottenere il massimo rendimento — e sono alla presa, ad esempio, con un puzzle adeguato alle loro capacità. Emergono dati interessanti, ad esempio un bambino viene di solito lasciato più libero di sbagliare rispetto ad una bambina: c’è più tolleranza per gli errori commessi dai maschi; questo atteggiamento educativo può essere alla base del cattivo rapporto che spesso le donne hanno con gli errori. Se guardiamo poi a contesti in cui sono presenti bambini appartenenti a minoranze svantaggiate (ad esempio minori Rom) riscontriamo situazioni di sovra-aiuto benevolo in cui il bambino viene continuamente corretto: lui inizia a fare il puzzle e la maestra gira i pezzi al posto suo; questo suona come dire “chissà se tu ce la fai”. Tale aspetto lo abbiamo riscontrato soprattutto nelle madri dei bambini malati cronici, che tipicamente fanno il puzzle al posto dei figli per evitare loro ulteriori fattori di stress. Questo può aumentare la paura di sbagliare, e se tu temi di sbagliare impari di meno perché la risposta più ovvia alla paura è l’inazione. Questo riconduce al problema dei genitori ansiosi che vogliono iper-controllare tutto per timore che i figli si facciano male: a volte è importante che la persona sbagli un po’.

Questo è un tema che noto tornare ciclicamente nelle mie esperienze e nelle mie letture, al punto che inizio a ritenere sia una costante su cui poter fare sempre affidamento: l’unico modo per crescere ed evolvere la propria situazione è sperimentare, correre rischi ed esporsi alla prospettiva di un fallimento che non va visto come condanna, bensì come opportunità. Tutti i discorsi sull’uscire dalla comfort zone, che fioccano a destra e a manca tanto da esser quasi diventati cliché, si basano su questa regola fondamentale.

Instaurare un rapporto costruttivo con l’errore significa ridimensionare le proprie paure, aumentare la capacità di adattamento migliorare la relazione che si ha con sé stessi1 e soprattutto facilitare l’apprendimento di nuove abilità; c’è solo un modo per riuscirci: fare cose nuove. Gli unici che non sbagliano mai sono quelli che non fanno nulla, cioè quelli che rimangono sempre uguali a loro stessi.


  1. C’è un curioso slittamento semantico che in molti hanno nel parlare degli errori commessi da sé e/o altri: “ho sbagliato” diventa automaticamente “sono sbagliato”, ma questo tipo di giudizio morale, oltre a non avere alcuna base, risulta un ostacolo insidioso ad ogni cambiamento costruttivo.