Quante volte avete dato (o ricevuto) il consiglio “Sii te stesso”? È una frase talmente abusata da aver quasi perso significato, attirando anche un sacco di critiche, più o meno sensate. Ma cosa vuol dire “essere se stessi”?
Non intendo attaccare un pippone senza fine sull’origine dell’Io e sul concetto di identità perché sarebbe fuori luogo e forse anche al di là delle mie possibilità, intendo invece riflettere un attimo su cosa si intenda davvero suggerire quando si dà quel consiglio e sul perché il più delle volte non lo si capisca realmente. Il vero problema non risiede nel suggerimento in sé, ma in come viene strutturato: “Sii te stesso” rimanda all’immagine che la persona ha di sé e la spinge a tenerla ben presente nel corso della situazione che questa si trova ad affrontare.
Credo di averlo già detto in altri post, ma mi ripeto: il problema delle immagini è che sono statiche, mentre le persone si evolvono continuamente1. La differenza è notevole tra un anno e l’altro, ma può essere percepibile anche a distanza di qualche mese, cambiamo così rapidamente che la nostra immagine non è mai adeguatamente aggiornata. Un problema correlato è poi la bidimensionalità delle immagini, le quali sono mere rappresentazioni della realtà e non riescono a trasmetterne tutta la complessità. In sostanza, cercando attivamente di essere “noi stessi” finiamo per indossare degli abiti di cartongesso che inibiscono i movimenti e ostacolano la nostra performance. Eppure lo scenario descritto è il male minore, poiché il più delle volte si ha in mente come ci si dovrebbe comportare in determinate situazioni e si cerca l’allineamento a questo modello aprioristico calato dall’alto; non c’è nemmeno bisogno di dire che il risultato è spesso disastroso.
Quello di cui realmente abbiamo bisogno non è l’immagine giusta da presentare, ciò che ci serve è la capacità di essere spontanei. Ok ma, ora che abbiamo strutturato meglio il concetto, come si diventa spontanei2? Altra domanda su cui si sono arrovellate parecchie scuole di pensiero (specialmente in Oriente) e che richiederebbe un trattato per rispondere. Questo post è però più una chiacchierata informale atta a fornire spunti riflessivi, quindi rispondo con una sola parola: rilassandosi.
“Take it easy”, “Stai sciallato”, “Non farti seghe mentali”, sono tutti consigli eccellenti è molto più puntuali dell’abusato “Sii te stesso”! Quanta saggezza che c’è nei cliché, vero? Chi l’avrebbe mai detto?! Continuando a pensare e pianificare le cose giuste da fare o dire la mente si ingolfa di pensieri, l’attenzione cala, la reattività diminuisce, la tensione muscolare aumenta, l’ansia cresce; tutto questo finirà per mettervi i bastoni fra le ruote e aumenterà la vostra avversione verso un certo tipo di situazioni. Non sono però le circostanze a generare il disagio, bensì l’atteggiamento che si ha nei loro confronti.
Va benissimo cercare di migliorare alcune caratteristiche di sé, è necessario studiare per gli esami universitari, è sempre meglio prepararsi prima di un colloquio lavorativo o prima di parlare in pubblico, ma il lavoro concettuale deve fermarsi a quella fase preliminare. Quando arriva il momento di agire tutto il resto deve passare in secondo piano, perché quando i pensieri interferiscono con le azioni il risultato non è mai ottimale3; non può esistere una “spontaneità controllata”4.
Inspira, fai vuoto nella mente. Espira, sciogli le tue ansie. Avanza e inizia lo spettacolo.
- J. Baggini, Is there a real you? ↩
- Ho il sospetto che tornerò sull’argomento, in futuro; ad ogni modo la meditazione aiuta senza dubbio. ↩
- B. Sian & C. Thomas, On the fragility of skilled performance: What governs choking under pressure? in “Journal of Experimental Psychology: General”, 2001. ↩
- Essere spontanei non è importante solo perché piacevole e perché garantisce un maggior grado di efficienza in determinati contesti, ma ha anche il pregio di essere ben recepita dagli altri. Paradossalmente si ha una maggiore probabilità di fare una buona impressione se non ci si preoccupa troppo dell’impressione che si vuole dare. ↩