La vita è sofferenza.
Possono sembrare parole di in inguaribile pessimista, di un depresso cronico, di…Leopardi. In realtà è l’intuizione suprema di Siddharta, il Buddha, che non è in genere identificato con queste caratteristiche. Non voglio però analizzare l’omonima opera di Herman Hesse, o il pensiero buddhista, anche perché non ritengo di avere le conoscenze necessarie; desidero piuttosto usare quelle poche (pochissime) nozioni in mio possesso per dare una mia interpretazione di questa “verità“. Tenete però presente che tutto è opionione e che il mio concetto di verità non è necessariamente l’unico: a diversi modi di interpretare la realtà corrispondono differenti intuizioni.
La vita è sofferenza, dicevo. Perché? Fondamentalmente perché finisce. Ho già accennato a questo, ma non lo ripeterò mai abbastanza: tutto quel che esiste non è eterno. La tua storia d’amore finirà, il tuo migliore amico potrebbe tradirti da un momento all’altro, tuo padre morirà, il tuo stesso tempo è limitato; tutto ciò non è sbagliato, non è “male”, semplicemente è.
Noi uomini siamo creature curiose, razionalmente riconosciamo l’ineluttabilità degli eventi, ma vi ci opponiamo comunque, siamo così intrappolati dalla nostra percezione della realtà, che non riusciamo ad accettare l’ordine naturale delle cose, anzi: ci struggiamo perché le cose non vanno come dovrebbero, ossia come noi vogliamo che vadano. Ovviamente non posso fare un discorso simile senza generalizzare, ma penso che chiunque sia un minimo onesto con sé stesso possa ritrovarvisi, almeno parzialmente. Spesso siamo così ossessionati dall’inevitabile che ci preoccupiamo di perdere qualcosa quando l’abbiamo appena ottenuta, con il risultato che è come non averla affatto! Siamo in grado di provare sofferenza anche nei periodi di gioia! In questo caso specifico parlo con cognizione di causa, visto che mi è capitato spsso di avere paura di perdere dei rapporti a cui tenevo molto.
Di fronte all’ineluttabilità ultima — la morte — assumiamo un atteggiamento totalmente illogico. Visto che non si può sconfiggere la “Grande Consolatrice”, la tendenza generale è cercare di far sopravvivere la memoria, il nome, cosa che in passato ha portato alla costruzione di enormi monumenti funebri (come Kofun e Piramidi) per la costruzione dei quali sono stati sostenuti costi molto ingenti anche in termini di vite umane. Al giorno d’oggi l’importanza dei mausolei è notevolmente diminuita, ma la paura di venire dimenticati dopo la propria morte rimane in molte persone e spesso costituisce la spinta ultima delle grandi ambizioni personali; si lavora duro tutta la vita per accumultare una ricchezza da dover poi trasmettere in eredità (e investire nella propria tomba). Pare che il disturbo psicosomatico più diffuso al giorno d’oggi sia l’ansia e la cosa non deve sorprendere neanche un po’, se si tiene conto di ciò che ho detto poc’anzi.
La vità è sofferenza perché noi percepiamo in tal modo l’ineluttabilità. C’è una parola in uso nella tradizione buddhista che in giapponese suona “mujō” (無常) ed è intraducibile in una qualsiasi lingua occidentale: la si può definire come un misto tra malinconia, nostalgia e commozione per ogni cosa esistente. Questo termine, a dispetto delle apparenze, non ha però accezione negativa, perché tende a sottolineare il momento in cui “le cose” (tutte le manifestazioni dell’universo) ci toccano nel profondo della nostra sensibilità. Pone l’accento sull’esigenza di godere le cose nell’attimo in cui le si vive, proprio in virtù del fatto che sono effimere e possono svanire da un momento all’altro. È la pura focalizzazione sul “qui ed ora”. 1
Questo concetto si è radicato nella cultura giapponese a tal punto, che è il fondamento dello Hanami, festività in cui i Giapponesi viaggiano per il Paese allo scopo di ammirare lo spettacolo dato dalla fioritura dei ciliegi, evento tanto bello quanto breve che diventa metafora della vita stessa.
Umani
noi come in primavera
i fiori
dei ciliegi2
UPDATE 1/06/2013
Mi sono reso conto di aver detto un’inesattezza: mujō (o mujōkan) è traducibile come “impermanenza”, mentre io l’ho confuso con “mono no aware” (もののあはれ). Sono due concetti strettamente correlati, ma non sovrapponibili, in quanto il secondo è molto più profondo, sottende più significati ed emozioni che lo rendono di fatto intraducibile in altre lingue.