Riflessioni in viaggio

Negli ultimi due mesi ho avuto finalmente la possibilità di viaggiare un po’ in solitaria, per città Europee. Il non avere compagni di viaggio ha due conseguenze importanti, come facce della stessa medaglia: si è liberi di fare ciò che più si vuole; si può contare solo sulle proprie forze.

Fin qui nulla di nuovo, uno ci potrebbe arrivare anche senza vivere l’esperienza in prima persona. C’è però una sfaccettatura del secondo aspetto che non avevo mai considerato a dovere: il piacere, o persino la necessità, di condividere.

“Condividere” vuol dire letteralmente “rendere partecipi altri di ciò che si prova“. Più volte mi sono trovato nella condizione di voler comunicare a qualcuno ciò che avevo visto o ciò che pensavo di una determinata cosa, ma quel qualcuno non era lì con me.

Siamo nel 2017, però, e la condivisione oggi è soprattutto quella — a mio parere un po’ pigra e malsana — dei social network. Eccomi quindi ad usare WhatsApp, Facebook e Twitter più spesso di quello che avrei voluto; eccomi quindi a scoprire l’acqua calda: queste piattaforme vengono usate perché rispondono a dei nostri bisogni primari, nonostante alcuni effetti indesiderati. Siamo animali sociali, anche se ad alcuni di noi questa cosa non va troppo a genio.

Gli effetti collaterali però ci sono: credo fermamente nel valore formativo della solitudine, ma nel mondo odierno è realmente possibile rimanere soli? Fintanto che sei dotato di uno smartphone hai sempre possibilità di interazione — forse sarà surrogata, ma interazione rimane.

L’aiuto altrui è importante per affrontare il mondo esterno, ma la solitudine è essenziale per conoscere il mondo al tuo interno. Se ad ogni minimo segno di disagio la mano corre alla tasca e afferra il telefono, cosa puoi sperare di ottenere da ciò che stai vivendo1? È come quando, da bambino, il tuo sguardo vagava fuori dalla finestra mentre la maestra spiegava le tabelline: prestare attenzione non è piacevole, ma nel lungo periodo paga. Come dice bene Brunori Sas in una delle sue ultime canzoni: “Il dolore serve, tanto quanto serve la felicità”.

Tutti i luoghi comuni sui viaggi che aprono la mente e formano il carattere sono verissimi, ma ho la sensazione che si possa trarre il meglio da queste esperienze preferendo — entro certi limiti — l’analogico al digitale.

Come spesso accade, però, predico bene e razzolo male.


  1. Rimando a questa sempre attuale intervista a Louis CK. 

La Biblioteca di Babele

Non so quanti di voi conoscano la Biblioteca di Babele, quindi faccio una breve introduzione. Si tratta di un posto descritto da Jorge Luis Borges nella sua omonima opera; lo scrittore descrive una struttura con estensione infinita, composta da sale esagonali, ciascuna delle quali ha quattro pareti adibite a libreria, con cinque scaffali ciascuna e 32 volumi di 410 pagine in ogni mensola; ciascun libro di questa biblioteca presenta sequenze di caratteri senza ordine, in tutte le loro possibili combinazioni. Nel racconto gli uomini si muovono con affanno in questo luogo alla ricerca del libro contenente la Verità.

Ho deciso di scriverne perché a quanto pare qualcuno ha creato un sito web con lo scopo di emulare questa biblioteca: Library of Babel. Tramite un algoritmo sono state generate e raccolte in volumi tutte le possibili combinazioni delle 26 lettere dell’alfabeto inglese, con l’aggiunta di spazio, virgola e punto; l’intero catalogo è liberamente consultabile è ha come unico fastidioso limite l’assenza delle lettere accentate (non previste dalla lingua Inglese), il che castra un po’ l’esperienza se si prova a cercare del testo in lingua italiana. Usando la funzione di ricerca potete trovare ogni frase che la vostra mente sta pensando, generata automaticamente dal sistema molto tempo prima che voi abbiate iniziato ad articolarla. La frase che ho appena scritto, ad esempio, si trova nel volume intitolato “dbj,ljviawt”, a pagina 390.

Nonostante l’estrema banalità del principio alla base del sito, non posso fare a meno di provare un misto di ammirazione ed irrequietezza ad ogni ricerca. Ricordate la teoria secondo cui delle scimmie che battono a caso di tasti di una macchina da scrivere, dato un tempo sufficientemente lungo, sarebbero in grado di comporre tutte le opere di Shakespeare? Ecco, avete sotto gli occhi la dimostrazione pratica della veridicità di questa ipotesi (che a quanto pare ha origine nella Grecia antica, tanto per cambiare1).

All’inizio volevo strutturare questo post come una riflessione su creatività ed originalità, ma poi ho desistito perché mi sono reso conto che l’impianto era un po’ troppo pretestuoso; una volta ogni tanto è bello anche semplicemente fare una segnalazione e basta, senza dilungarsi troppo oltre.

Quindi che dire ancora…buona ricerca!


  1. Un’affermazione molto diffusa in ambito accademico e che ho sentito fare dal vivo al Professor Umberto Galimberti può essere così riassunta: “Il picco della civiltà Occidentale è stato raggiunto nella Grecia antica, da lì in poi si è soltanto regrediti”. All’inizio mi sembrava quasi oltraggiosa, ma adesso inizio a credere che ci sia un fondo di verità. 

Più liberi o più sicuri? Riflessioni sul caso “Apple vs FBI”

A meno che non siate completamente disconnessi dal mondo, è probabile che abbiate sentito parlare della controversia sorta tra Apple e FBI riguardo l’accesso ai dati contenuti nell’iPhone appartenuto all’attentatore della strage di San Bernardino.1

Cerco di riportare i fatti in breve. Il 16 febbraio scorso, in una lettera aperta, il CEO di Apple Tim Cook ha reso noto che l’FBI ha chiesto e ottenuto un’ordinanza per indurre l’azienda a collaborare nel recupero dei dati contenuti in un iPhone trovato durante le indagini. Chiaramente Apple aveva già fatto la sua parte, fornendo alle autorità le informazioni presenti nei server di Cupertino, ma il sistema operativo degli iPhone è strutturato in modo tale da rendere impossibile l’accesso al contenuto del dispositivo senza conoscere il codice di sblocco.

Dopo due mesi ti tentativi infruttuosi, l’FBI ha dunque chiesto ad Apple di compilare ad hoc una versione di iOS priva di alcuni sistemi di sicurezza, di modo da poterla poi installare sul telefono in loro possesso e accedere ai dati con maggiore facilità. L’ordinanza del giudice impugnata dai Federali non è però vincolante e lascia all’azienda la possibilità di opporvisi, facoltà che Tim Cook ha deciso di esercitare, spiegando le sue ragioni nella lettera citata in apertura.

A fronte di questa spinosa vicenda, come spesso accade, l’opinione pubblica si è polarizzata: da un lato chi vede Apple come paladina della privacy, dall’altro chi ritiene che un’azienda non possa metter becco nelle questioni di sicurezza nazionale.

Tempo fa scrissi un post dal titolo “Ecco perché continuerò ad usare iPhone”, il che non lascia dubbi su quale sia la mia opinione. In quel post non provai nemmeno a nascondere la natura ideologica della mia posizione, ma per quanto riguarda questa vicenda ho invece un parere ben più ragionato che credo valga la pena esporre; lo farò sotto forma di risposta alle due critiche che maggiormente ho visto rivolgere a Tim Cook.

 

Critica 1 – L’FBI è interessata a quello specifico iPhone, accontentarla non mette a rischio tutti gli utenti.

Occorre innazitutto ricordare che l’Intelligence degli Stati Uniti ha un pessimo precedente in materia di violazione della privacy: poco più di due anni fa Edward Snowden rivelò pubblicamente i dettagli dei programmi di sorveglianza di massa svolti dall’NSA, il che fa sollevare più di un legittimo dubbio riguardo le intenzioni dei federali e la loro effettiva volontà di distruggere la versione modificata di iOS, una volta raggiunto il loro scopo.

La vera risposta alla critica però la fornisce già Tim Cook nella sua lettera aperta: la sola esistenza di una simile versione di iOS sarebbe un rischio enorme per la sicurezza di moltissimi utenti. Non esistono infatti “mani” abbastanza sicure quando si tratta di custodire del codice informatico, figurarsi poi se l’oggetto in questione è la chiave d’accesso ai dati contenuti in un numero impressionante di dispositivi; i migliori (o peggiori, dipende dai punti di vista) cybercriminali in circolazione non esiterebbero un minuto a cercare di impadronirsene.

Infine, per sgretolare la tanto abusata tesi “ma tanto non ho nulla da nascondere”, basta citare il recente caso riguardante Hacking Team. Per chi non lo sapesse, Hacking Team è una società Italiana che vende software di sorveglianza elettronica a governi e servizi segreti di tutto il mondo, è talmente famigerata che Reporter senza frontiere l’ha inserita nella lista dei “nemici di Internet”. È balzata agli onori della cronaca per essere stata vittima — ironia della sorte — di un attacco informatico, in seguito al quale tantissime informazioni riservate sono diventate di dominio pubblico tramite il sito WikiLeaks. Si è venuti quindi a conoscenza di dettagli preoccupanti, quali trattative con governi non rispettosi dei diritti umani e verso cui vige l’embargo dell’ONU (ad esempio il Sudan), oppure l’ultilizzo di exploit per fabbricare false prove con cui incriminare dei bersagli.

Questa vicenda non insegna solo che gli strumenti di sorveglianza possono essere utilizzati per fini malevoli, ma anche che persino chi lavora nell’ambito della sicurezza informatica può cadere vittima di attacchi esterni e venire pesantemente danneggiata. Ne consegue che le mani dell’FBI non possono dirsi sicure.

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Critica 2 – La mancanza di fiducia in governo ed autorità giudiziaria compromette il contratto sociale su cui la società stessa si basa.

Questa critica è stata mossa, tra gli altri, anche da Beppe Severgnini in un suo articolo e solleva una tematica tanto spinosa quanto interessante.

Il contratto sociale è, secondo diversi filosofi, l’atto con cui gli esseri umani superano l’incertezza dello stato di natura, cedendo una parte della loro libertà in cambio della protezione statale.

Il tradeoff “libertà-sicurezza” è al centro della prospettiva contrattualistica ed ha assunto primissima rilevanza in seguito all’attentato dell’11 settembre 2001, data di inizio di quella che è stata battezzata la “guerra al terrore”. Ora, dando per scontato che vivere in una democrazia sia ampiamente desiderabile, occorre sottolineare che nel passaggio da un’organizzazione autoritaria ad una democratica dei poteri dello Stato, pari quantità di sicurezza dovrebbero essere compatibili con più elevate quantità di libertà.

Il deflagare del terrorismo nel nuovo millennio e le risposte messe in campo da molti governi occidentali, hanno conferito nuovo smalto all’entità statale quale garante della sicurezza dei propri cittadini; come risultato stiamo assistendo alla proposizione di politiche che limitano la libertà dei cittadini promettendo in cambio maggiore sicurezza. Questa tesi è la stessa da cui muoveva le sue riflessioni Thomas Hobbes e può essere sintetizzata nella domanda fondamentale: “Più liberi o più sicuri?”. La prospettiva del filosofo britannico vede necessario rinunciare a qualche grado di libertà per ottenere un po’ più di ordine e sicurezza; qua di seguito vediamo la “curva di Hobbes” rappresentata su un piano cartesiano.

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Ad integrare il punto di vista pessimistico appena illustrato, conviene segnalare l’osservazione di John Locke che, diversamente dal suo connazionale, era più preoccupato dalle minacce alla sicurezza che governi autoritari possono attuare nei confronti dei loro cittadini. Alla domanda “Più liberi o più sicuri?” Locke risponde: “Sicuri perché liberi!”; se per Hobbes il trade-off “libertà-sicurezza” è negativo, per Locke diventa invece positivo: la crescita della prima è garanzia per la crescita della seconda. Ecco di seguito la “retta di Locke”.

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Chi dei due ha ragione? La risposta è piuttosto banale: entrambi. La garanzia di stabilità interna e di difesa dall’esterno non elimina i potenziali danni dello Stato nei confronti della sicurezza individuale, la quale risulta tutelata da una serie di diritti fondamentali che le istituzioni sono strutturate per garantire. Ecco infatti quello che accade combinando la “curva di Hobbes” con la “retta di Locke”.

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Al di sopra un livello minimo di libertà (L1) prevale la curva, ma quando si scende al di sotto di tale soglia inizia a prevalere la retta, dal momento che alle minacce provenienti dalla società o dall’esterno si sommano quelle causate da governanti autoritari: sotto il livello L1 ogni rinuncia — anche piccola — in termini di libertà produce solo minore sicurezza.

Quindi, a mano a mano che si decidesse di rinunciare (anche provvisoriamente) all’esercizio e alla tutela di qualche diritto legittimo nella speranza di recuperare sicurezza, si finirebbe in realtà con l’alimentare una spirale diretta al peggioramento tanto in termini di libertà quanto in termini di sicurezza.2 È proprio per questo che, a mio modo di vedere, Apple ha tutte le ragioni di questo mondo per opporsi alla decisione dell’FBI.

 

Recentemente intervistato sulla vicenda, l’amministratore delegato di Apple ha rivelato che negli ultimi cinque mesi i federali hanno avanzato simili richieste ben quindici volte, segnale dunque di un interesse non circoscritto agli avvenimenti di San Bernardino. Acconsentire vorrebbe dire creare un precedente con implicazioni ben al di là di quello che possiamo immaginare. Non viviamo affatto in una società perfetta, ma quel minimo di conquiste di cui oggi possiamo godere sono state ottenute grazie a persone che hanno dato la vita per costruire un futuro migliore; dobbiamo riflettere molto a lungo prima di concedere anche solo una minima ed (apparentemente) insignificante deroga a quelli che sono i pilastri di un ordinamento democratico.

Spero che questo mio post possa fungere da invito a riflettere su di una posizione che non ho visto molto considerata — per lo meno dalla stampa italiana.


AGGIORNAMENTO 15/03/2016: John Oliver, nell’episodio di Last Week Tonight andato in onda tre giorni fa, parla di crittografia e mette in luce la complessità del caso Apple vs FBI anche da punti di vista che non ho considerato. Lo aggiungo di seguito, in quanto credo possa essere una buona integrazione al discorso.


  1. Per avere un quadro completo della vicenda, suggerisco la lettura di questo articolo del Post e di quest’ottima analisi scritta da Fabio Chiusi per ValigiaBlu. 
  2. Cfr. F. Andreatta, M. Clementi, A. Colombo, M. Koenig-Archibugi
    V. E. Parsi, Relazioni Internazionali – Seconda edizione, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 269-271. 

Ecco perché continuerò ad usare iPhone

Chi mi conosce sa che c’è stato un tempo in cui mi sarei tranquillamente potuto definire un Apple Evangelist, una di quelle persone talmente appassionate dei prodotti Apple da essere capaci di parlarne per ore senza stancarsi. Tessevo le lodi degli iGadget, deridendo Microsoft, compatendo Linux e snobbando Google; talvolta il mio punto di vista era sensato, altre volte decisamente distorto.

Fortunatamente questa fase si può dire superata: sono ancora generalmente molto soddisfatto di essere utente Apple, ma non ritengo più che i suoi prodotti siano sempre e comunque migliori di quelli concorrenti, li utilizzo perché mi piacciono, trovo appagante usarli e hanno tutte le funzioni di cui ho bisogno. Non nascondo però di essermi fatto più di uno scrupolo, un anno fa, ad acquistare l’iPhone 6: 840€ sono tanti per un telefono, troppi contando che non posso più definirmi un appassionato di tecnologia. In testa mi balenavano tutti i modi alternativi in cui potevo spendere quella cifra: “Posso viaggiare, posso tuffarmi in un mare di libri!”, mi dicevo; avrei potuto acquistare uno dei molti validi smartphone Android e risparmiare un sacco di soldi.

Alla fine ho ceduto e l’ho comprato, forse per abitudine, forse per supposta necessità. Quel tarlo però non mi ha mai del tutto abbandonato e ogni tanto, mentre fisso lo schermo in cerca di nuovi stimoli, ho una strana sensazione che mi prende lo stomaco e risale per la gola: rimpianto, occasione sprecata. Oggi però, riflettendo sulla questione, ho avuto una sorta di epifania e ora ho la certezza che anche il mio prossimo telefono sarà un iPhone, così come il successivo. È di questo che voglio parlare: come mai questo repentino cambio di posizione?

Ho detto in apertura che non sono più un fanatico di Apple, perché ora la vedo per quello che è: un azienda votata al profitto, esattamente come la sua concorrenza; Tim Cooks può dirsi preoccupato riguardo la mia custumer satisfaction, ma alla fine è soltanto un mezzo per arrivare al mio portafogli. I soldi sono quello che davvero conta, è uno degli effetti collaterali di essere nati in una società capitalistica. Questa è chiaramente un’ovvietà, eppure come tutti i cliché viene trascurata e si finisce per perdere di vista alcune dinamiche di assoluta importanza, ci si dimentica cos’è l’acqua, per citare David Foster Wallace.

Guardando al mercato degli smartphone troviamo diversi produttori, ma se ci concentriamo sul Sistema Operativo la fanno da padrone due compagnie: Apple e Google, la prima è storicamente focalizzata sui prodotti di consumo, mentre la seconda sui servizi online1. È noto che Big G consenta l’ultilizzo dei propri servizi in cambio delle informazioni appartenenti all’utenza, dati che vengono poi venduti all’industria pubblicitaria fruttando grossi guadagni. Questa è la versione molto semplificata del business model di Google, la realtà è decisamente più complessa2 perché le informazioni costituiscono un capitale a sé stante, strettamente correlato a quello monetario; informazione è potere. I dati raccolti vengono usati per migliorare i servizi offerti, vengono venduti ad un ampio numero di acquirenti, ma anche occasionalmente forniti ai governi — come dimostra lo scandalo relativo all’NSA. Posso passare una giornata pensando a vari modi in cui far fruttare un’insieme di dati e sicuramente non mi verrebbero in mente tutte le possibilità: le informazioni sono tremendamente versatili e questo dà a Google un potere enorme.

Don’t be evil”, recita il vecchio motto di compagnia. Anche a far finta di crederci, c’è poco da stare allegri perchè nella migliore delle ipotesi i dati dell’utenza vengono usati a fini commerciali e questo, ai miei occhi, ha un che di morboso. Le informazioni su di me costituiscono una parte della mia identità, il che significa che io sto “vendendo” me stesso a Google e non ho alcun controllo su quello che la compagnia deciderà di fare con quei “frammenti” di me. La questione relativa alla privacy, che di questi tempi preoccupa almeno tante persone quante sono quelle che lascia pericolosamente indifferenti, ha molte implicazioni perché strettamente legata alla nostra identità, alla nostra libertà; io rifiuto di affidare ciò che mi rende umano ad una azienda votata al profitto!

Il discorso appena fatto potrà sembrare fumoso ed astratto (ho questa tendenza, purtroppo), quindi voglio fare un esempio concreto. La scorsa estate un gruppo di hacker ha sottratto le informazioni degli iscritti al noto sito di incontri Ashley Madison, minacciando di renderle pubbliche se il portale non fosse stato chiuso. Come era prevedibile la minaccia è rimasta inascoltata, al che gli hacker hanno reso pubblici nomi, indirizzi email, domicilio, transazioni e dati di vario genere appartenenti a tutti gli iscritti. Una situazione simile sarebbe spinosa per chiunque, ma lo è stata in particolare per quelle persone di orientamento omosessuale, che si erano serviti della riservatezza garantita da quel sito per potersi incontrare in luoghi dove avere rapporti intimi con un membro dello stesso sesso è reato capitale. Un utente di Reddit ha portato l’attenzione al problema con un thread intitolato: “I May Get Stoned to Death for Gay Sex (Gay Man from Saudi Arabia Who Used Ashley Madison for Hookups)”.

L’orientamento sessuale di una persona è parte della sua identità, così come i suoi gusti in fatto di abbigliamento, le sue idee politiche, e tutto ciò che costituisce la sua visione del mondo; tutto questo può essere compresso in un insieme di dati utilizzabili in tantissimi modi, molti dei quali non riesco nemmeno ad immaginarmeli. Vorrei credere di non aver nulla da temere, dal momento in cui vivo in un regime democratico che garantisce un ampio numero di diritti e libertà, ma la verità è che non è così, basti pensare alle rivelazioni di Edward Snowden e ad Hacking Team! Senza contare che, per quanto lo status quo tenda a perpetrare sé stesso, non possiamo permetterci di dare per scontata l’attuale configurazione della realtà soltanto perché è quella con cui abbiamo sempre avuto a che fare. Potrebbe anche darsi che la polarizzazione del conflitto tra ISIS e Occidente porti ad una presa del potere da parte dei partiti di destra estrema, con conseguenze deleterie per la libertà individuale — come peraltro avvenne in seguito all’11 settembre.

Non posso evitare di lasciare tracce nel Web e sarebbe poco pratico (impossibile?) fare completamente a meno di Google, ma in un mondo in cui gli smartphone sono sempre più importanti per la vita quotidiana, preferisco scegliere i prodotti di una compagnia che si fa pagare alla vecchia maniera e considera la tutela alla privacy uno dei suoi cavalli di battaglia, piuttosto che gettarmi verso un’idrovora di informazioni quale è Google. Ecco perché rimarrò utente Apple, finchè mi sarà possibile.3


  1. Ed è dannatamente brava in questo campo, Apple ha solo da imparare. 
  2. Qua mi tocca alzare le mani al cielo e dichiarare la mia ignoranza, non ho idea di quale sia la stratega di Google nel dettaglio. 
  3. È bene notare che anche Apple ha avuto problemi con la privacy dei suoi utenti, quindi bisognerebbe sempre usare un minimo di buon senso quando si tratta di svolgere operazioni online. 

In balia del comfort: bloccati in una prigione dorata

comfort
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L’immagine che vedete è stata pubblicata due giorni fa su Reddit con il titolo “Tutta questa tecnologia ci sta facendo diventare asociali”; chiaramente è una provocazione nei confronti di chi demonizza smartphone e affini, accusandoli di star deteriorando le relazioni interpersonali: a quanto sembra, si punta sempre il dito contro un capro espiatorio.

La provocazione è stata colta e rilanciata da Diego Petrucci, che ha anche pubblicato un post sul suo blog, con l’intento di fare una disamina etica sul quando sia lecito isolarsi usando dispositivi vari come scudo, e quando tale atteggiamento sia addirittura sinonimo di inciviltà. Sull’argomento nello specifico non ho molto da aggiungere, ho già abbozzato il mio pensiero in un vecchio post e ho poi cercato, in un altro ancora, di porre l’accento sul caso particolare dei social network.

Qualche giorno fa, mi è capitato di rivedere una vecchia intervista fatta a Louis C.K. da Conan O’Brien, in cui il comico spiega il motivo per cui non ha intenzione di dare alle proprie figlie uno smartphone, illustrando la sua visione della tecnologia: un modo per riempire il vuoto che coviamo dentro di noi, a discapito della nostra capacità di provare empatia. Per chi non sapesse di cosa sto parlando, metto il video di seguito (niente sottotitoli, mi spiace).

Mi trovo pienamente d’accordo con Louis, ma sono convinto che non abbia centrato davvero il problema. Appurato che Internet e gadget vari altro non sono che strumenti dei quali si può fare l’uso che si vuole, come mai la tendenza principale a risultarne è la snaturazione delle comunicazioni interpresonali? Cosa porta l’Uomo — animale sociale per eccellenza — a preferire interazioni surrogate? L’incapacità di affrontare i propri demoni? In parte potrebbe essere così, ma credo sia la conseguenza di qualcos’altro: siamo in balia del comfort.

Scrivo di seguito una citazione tratta dal film “La mia cena con André”:

Voglio dire, se non hai una coperta elettrica, e il tuo appartamento è freddo, e hai bisogno di mettere un’altra coperta o prendere vestiti dall’armadio per impilarli sopra le lenzuola, solo allora saprai che fa freddo. E quella consapevolezza dà il via ad una serie di realizzazioni: hai compassione per l…beh, la persona a tuo fianco ha freddo? Ci sono altre persone al mondo che hanno freddo? Che notte gelida! Mi piace il freddo, Dio mio, non me n’ero mai reso conto, io non voglio una coperta elettrica, è divertente avere freddo, mi posso accoccolare alla persona che ho a fianco perché fa freddo! Sperimenti cose di ogni genere. Ma ecco che accendi la tua coperta elettrica ed è come prendere un tranquillante, come venire lobotomizzati guardando la TV. Entri nel mondo dei sogni. Cioè, cosa pensi ci succeda, Wally, a vivere in un ambiente in cui qualcosa di così intenso e vasto, come le stagioni o l’inverno, non ha alcun effetto su di noi? Siamo animali, dopo tutto. Cosa significa quello che ci sta succedendo? Io penso voglia dire che, invece di vivere sotto il Sole, la Luna, il cielo e le stelle, stiamo vivendo in un mondo di fantasia creato da noi stessi.
[…]
Wally, non capisci che il comfort può essere pericoloso? A te piace essere a tuo agio, e anche a me piace. Ma il comfort può cullarti in una tranquillità pericolosa. Voglio dire, mia madre conosceva una donna, Lady Hatfield, che era una delle persone più ricche al mondo, e morì di inedia perché il suo unico nutrimento era costituito da carne di pollo. Semplicemente, le piaceva il pollo e quindi mangiava solo quello, e il suo corpo stava deperendo, ma lei non se ne accorgeva perché era felice nel suo continuare a mangiare pollo; fino a che non morì! Vedi, onestamente penso che oggi siamo un po’ tutti come Lady Hatfield: abbiamo un’adorabile e comoda vita, con le nostre coperte elettriche e la nostra carne di pollo, e nel frattempo deperiamo perché siamo così disconnessi dalla realtà che non ne traiamo alcun reale sostentamento. Perché non vediamo il mondo. Non vediamo noi stessi. Non vediamo in che modo le nostre azioni hanno conseguenze sugli altri.

Le interazioni sociali hanno sempre una componente di stress e a volte è semplicemente più comodo farsi scudo con qualcosa, che sia una rivista, uno smartphone o delle auricolari. Queste barriere, erette per rendere rassicurante un ambiente potenzialmente ostile, sono al contempo fonti di piacere e spesso oggetti di desiderio; capezzoli. Siamo così immersi nel comfort da non essere più in grado di sopportare un minimo disagio, come quello dato dallo stare per qualche tempo soli: fuggiamo dalla noia, fuggiamo da noi stessi e fuggiamo anche dagli altri, perché una chat non equivale ad una conversazione ed una emoji non è un feedback emotivo.1

Non è mia intenzione demonizzare il comfort: deriva dal progresso, e il progresso è sempre positivo. Tuttavia non si può ottenere nulla senza perdere qualcosa, credo questa sia una regola universale e che quindi si debba cercare di essere consapevoli degli aspetti negativi innescati dalle nostre conquiste, di modo da poterli arginare. Inoltre è bene ricordare che la crescita — personale, così come dell’umanità — ha origine da momenti sgradevoli. Probabilmente è meglio guardare al disagio come un compagno di avventure (o al limite uno strumento), piuttosto che fuggire per lasciarsi cullare da un benessere illusorio.


  1. E se metto il punto a fine frase, non vuol dire che sono arrabbiato, diamine! 

Innamorarsi di una Mela

Sono stato per anni un fanboy Apple, qualcuno direbbe che lo sono ancora (e potrebbe avere ragione), ma di sicuro non mi comporto più come qualche anno fa. C’è stato un periodo in cui ero il classico “evangelista”, colui che si faceva portavoce del Verbo di Steve Jobs, conducendo crociate personali contro Microsoft e, più tardi, Android. A ripensarci adesso, un po’ me ne vergogno.

Di quel forte sentimento però è rimasto qualcosa: la trepidazione per un Keynote, l’istintivo risentimento verso chi critica Apple per partito preso, la felicità durante l’unboxing di un nuovo prodotto. Ad un osservatore esterno tutto questo può sembrare eccessivo e non avrebbe problemi ad etichettare come “pazzoidi” coloro che si accampano fuori dagli Apple Store la sera prima del lancio di un nuovo prodotto. Prima di sfoderare il classico (e legittimo) argomento: “ognuno ha le proprie passioni ed è libero di seguirle”, vorrei riportare qualche passaggio del libro ‘The Naked Brain‘.

Come esempio dell’impatto emotivo che hanno su di noi i marchi commerciali, si prenda in considerazione il “Pepsi Challenge”. Se i partecipanti non erano a consocenza di quale bevanda veniva loro offerta, basandosi unicamente sul gusto, tendevano a preferire Pepsi a Coca Cola. Quando invece venivano resi consapevoli della marca, la scelta cadeva su Coca Cola.

[…]

Le persone rimangono fedeli ai brand che suscitano in loro sentimenti di fiducia ed affetto. Stimolare l’attaccamento emotivo dei clienti è un modo migliore per predirne le abitudini di acquisto, piuttosto che puntare soltanto sulla loro soddisfazione: potenzialmente si può fare in modo di mantenere quei clienti per tutta la loro vita.

[…]

Sono davvero “dipendente” da Coca Cola, penne Delta e quaderni Claire-fontaine — per nominare giusto tre prodotti che ho comprato in quella che altri potrebbero definire come una quantità eccessiva? Le neuroscienze stanno suggerendo che, visto il ruolo avuto dallo stesso neurotrasmettitore (dopamina) nella dipendenza dalle droghe e nell’acquisto “eccessivo” di prodotti legati da un determinato marchio, un qualche grado di legame emotivo, se non proprio di dipendenza, è presente.

Il motivo per cui Apple ha così tanti “accoliti” tra chi acquista i suoi prodotti è che — soprattuto in passato — si è data molto da fare nel creare un legame affettivo con la propria clientela; al punto che molti (di noi) si identificano così tanto con il logo della Mela, da vedere qualsiasi critica all’azienda come un attacco personale. Come Dale Carnegie insegna, in larga misura le critiche servono solo a fare arroccare i loro destinatari nelle proprie posizioni, da qui il comun sentire che gli utenti Apple sono “lobotomizzati” ed è impossibile ragionarci.

A questo punto i fan del Robottino Verde che stanno leggendo — se mai ce ne fossero — staranno ridacchiando sotto i baffi, ma farebbero meglio a non sentirsi superiori, visto che sono anch’essi vittime dello stesso processo. In una società consumistica quale è la nostra, è praticamente impossibile non sviluppare preferenze per determinati brand e, conseguentemente, diventa molto difficile non sviluppare un legame emotivo. Nel mondo tecnologico subentra anche la passione personale, quindi è facile assistere a feroci diatribe, ma il “Pepsi Challenge” dimostra che il discorso è applicabile a qualsiasi brand.

C’è chi veste solo Benetton, chi è convinto che ‘Barilla’ sia sinonimo di “pasta”, chi non vuole sentire nomi di automobili se queste sono prodotte al di fuori del confine teutonico. Questa affezione, magari inzialmente motivata da un’effettiva qualità superiore, trascende ogni tipo di logica e spesso non viene compresa fino in fondo nemmeno dagli interessati. In fondo è noto che l’amore non veda i difetti, ma questo è ancora più grave se l’oggetto del sentimento è un azienda a cui noi diamo i nostri soldi e verso cui dovremmo sempre essere critici e pretendere il meglio.

Come al solito, se non possiamo — e non possiamo — evitare di subire certi meccanismi, è bene cercare di esserne consapevoli, di modo da coglierli in castagna quando scattano.


Aggiornamento

Fabrizio Rinaldi mi fa gentilmente notare che il “Pepsi Challenge” è risultato fallace, in quanto la Pepsi viene preferita al primo sorso a causa della maggiore percentuale di zucchero, mentre la Coca Cola risulta migliore in un periodo di tempo più dilatato. Ovviamente ciò non inficia la bontà della tesi esposta, visti i numerosi test effettuati con l’ausilio di fMRI in cui si è riscontrata una maggiore attività cerebrale nelle regioni correlate a pensiero, elaborazione emotiva e memoria, quando nelle attività svolte i soggetti si trovavano a confrontarsi con la loro marca preferita.

Non ho riportato l’intero passaggio nella citazione per non appesantire il discorso.

Soli, insieme

La maggior parte di voi avrà già visto il video, dal momento che è stato diffuso moltissimo nel corso dell’ultima settimana. Direi che si commenta da solo e riporta in auge un discorso affrontato da molti altri prima di me, alcuni1 con un punto di vista simile al mio, altri2 con un modo di vedere la questione un po’ differente. Non voglio quindi esporre la mia prospettiva, perché rischio di essere ridondante e di non aggiungere nulla di significativo rispetto a quanto detto da altri.

Quindi qual è il senso di questo post? Semplicemente riportare ad imperitura memoria le parole scritte oggi nello stato della pagina Facebook ‘Tad‘ (a proposito: mettete “mi piace”, non ve ne pentirete).

Ero ad un concerto qualche settimana fa, e ho assistito a numerose persone che riprendevano lo spettacolo con i loro smartphone, piuttosto che seguirlo dal vivo, direttamente con i loro occhi. Siamo diventati così impegnati a cercare di catturare qualsiasi cosa con l’aiuto della tecnologia che ci dimentichiamo di godere delle cose che abbiamo davanti, mentre queste accadono.

Il prezzo che paghiamo per cercare di cristallizzare questi momenti, affinché siano accessibili in futuro, è l’impossibilità di apprezzare realmente ciò che accade, quando accade.

Non succede solo durante i concerti, ma anche alle riunioni di famiglia, agli eventi mondani, agli appuntamenti, alle uscite con gli amici. Il problema non sorge solo quando si cerca di catturare un momento, ma anche quando si vuole evadere dalla situazione in cui ci si trova, controllando i social network, giocando ai videogames, navigando sul web, et cetera. La tecnologia ci permette di essere da soli in mezzo ad una moltitudine di persone.

Questo weekend sforzatevi di mettere da parte lo smartphone e godervi la vita. Godetevi il vostro partner, gli amici. Vivete il momento, invece di registrarlo per un ipotetico futuro.

La tecnologia è il mostro brutto e cattivo? No. Siamo noi che abbiamo queste tendenze e sarebbe bene prendere coscienza e cercare di contrastarle, quando possibile, perché il tempo non torna mai indietro.

If you want to keep your memories, you first have to live them.
— Bob Dylan


  1. Diego Petrucci e Riccardo Mori, ad esempio. 
  2. Filippo Corti qui e qui

L’identità perduta di Apple (aka pensieri a caldo su iOS7)

Ieri ho assistito al Keynote Apple e mi sono trovato, come molte persone, ad avere sentimenti contrastanti. Se da un lato ho apprezzato davvero tanto OSX Mavericks,1 i nuovi Air con batteria maggiorata e quel miracolo in Terra che è il nuovo Mac Pro; dall’altro la presentazione di iOS7 mi ha tramortito.

Mentre seguivo il live2 ero in contatto con Marco Accolla, il quale al termine dell’evento ha detto una frase che mi ha fatto riflettere: «C’è qualcosa di strano. Il cambiamento, anche radicale, ci voleva perché iOS ormai era stantio, ma questo nuovo Sistema non mi sembra “da Apple”. Non so come spiegare; nessuno ha mai potuto criticare Apple sul design, eppure iOS7 non mi sembra molto curato».

Ci ho riflettuto un po’ e mi devo dire d’accordo con l’affermazione. Sebbene non sia un designer, un developer o un tech blogger di fama, voglio provare a sviscerare una serie di punti per cui iOS7 non sembra rispettare i canoni di Apple.

  • Le trasparenze. In quanto Mac user di “lungo corso” ricordo come fosse ieri la pioggia di critiche miste ad ilarità che seguirono l’uscita di Windows Vista, uno dei bersagli era proprio l’utilizzo massiccio ed improprio delle trasparenze in vari elementi della UI; come esempio del modo corretto per usare tale espediente grafico si portava Mac OSX Leopard, in cui vi erano sì elementi traslucidi, ma erano centellinati ed il tutto era curato in modo tale da uniformarsi alla perfezione con il resto dell’ambiente, dando un’idea di omogeneità che rilassava la vista, anziché affaticarla come nell’OS di Microsoft. Ora, in iOS7, hanno pensato bene di abbinare traslucenze eccessive con icone fluo a fare da sfondo, il risultato? Quando apri il nuovo Control Center pare che un unicorno abbia appena urinato sul display.

  • Reverse decluttering. Uno dei motti del minimalismo è sintentizzabile nell’espressione “less is more“, poiché secondo questa filosofia la perfezione non viene raggiunta quando non c’è più nulla da aggiungere, bensì quando non c’è più nulla da togliere; riduzione all’essenziale, insomma. Apple ha sempre fatto suo questo concetto e da che ho memoria ha sempre avuto ragione (cioè, quasi sempre), mentre i competitor continuavano la corsa alle funzioni, trasformando i loro terminali in dispositivi tuttofare con curve di apprendimento sempre maggiori, i prodotti made in Cupertino sono sempre stati caratterizzati da un’estrema semplicità: bastava uno sguardo e avevi subito chiaro cosa fare e come farlo. Ora, a giudicare dalla presentazione, la tendenza si è quasi invertita. Ciò che mi è saltato subito all’occhio sono i due “menu a tendina”: sia nel Notification Center, sia in Control center, sono stati infilate quante più informazioni possibili. Sbaglierò io, ma non mi sembra tutto immediatamente intellegibile con uno sguardo, come avveniva invece con i passati Sistemi.

  • Intuitività. Questo punto potrebbe essere accorpato al precedente, ma ho voluto trattarlo in separata sede perché è sempre stato uno dei cavalli di battaglia per Apple. Intuitività vuol dire mettere chiunque in grado di capire come utilizzare il device, anche se non abituato ad avere a che fare con questi dispositivi; non è un caso se gli iPad vengono utilizzati con soddisfazione da bambini di 3 anni e da genitori refrattari alla tecnologia: sono intuitivi! Basandomi sul Keynote sembra esserci stato un passo indietro in quasi ogni aspetto dell’OS, ma mi ha colpito in particolar modo Safari: mi piace l’aspetto minimal e ci sono delle eye candy niente male, ma nel complesso il suo utilizzo mi sembra molto meno immediato rispetto al predecessore. Voglio poi linkare un video trovato nella timeline di Twitter e che mostra il primo approccio con la nuova lockscreen.

  • Identità perduta. C’è una cosa che ho sempre apprezzato di Apple, benché allo stesso tempo sia stata criticata da altri: la coerenza; la ferma volontà di continuare sulla propria strada nella consapevolezza che ciò che si sta facendo è la cosa giusta ed il tempo le darà ragione. Il tempo le ha dato ragione davvero molte volte. Con questo non voglio dire che il precedente iOS e lo “skeumorfismo” fossero necessariamente la strada giusta da seguire e che non ci volesse un rinnovamento, anzi! Però qui l’impressione che traspare non è quella di una rinascita proprompente da parte di un vecchio leader che ha ancora molto da dire, bensì di uno stravolgimento con il solo scopo di uniformarsi al gregge. Che ne è del detto Jobsiano: «Le persone non sanno ciò che vogliono finché glielo mostri»? Dobbiamo pensare forse che lo spirito distintivo di Apple è morto con Steve?

  • Gli sviluppatori. Se fossi un dev mi sentirei quasi tradito. Il cuore di un qualsiasi smartphone sono le app, a Cupertino lo hanno sempre saputo ed è per questo che hanno dettato sin dall’inizio delle linee guida, in modo che lo stile di iOS fosse uniforme indipendetemente dall’applicazione aperta. Inoltre i vari miglioramenti sono sempre stati “incrementali” così da permettere un adeguamento da parte degli sviluppatori (si pensi al retina display, all’iPad o all’iPhone 5). È vero che non si può continuare a fare passi misurati quando la concorrenza è serrata, ma da un colosso del settore come Apple, sempre attento ai dettagli, mi sarei aspettato una riprogettazione dell’OS strutturata in modo da facilitare la transizione delle vecchie app. Le mie sono congetture, non sono un designer, ma ora come ora pare evidente che gli sviluppatori siano obbligati ad “appiattire” le loro creazioni in nome della coerenza con l’ambiente grafico e dovranno farlo in modo piuttosto radicale. L’esempio più lampante che mi viene in mente riguarda Tapbots: come credete che sia possibile la convivenza del loro stile robotico all’interno del nuovo iOS?

Questi, in sintesi, i motivi che mi stanno portando a pensare che Apple abbia perso la Trebisonda riguardo iOS. Poi, è chiaro, bisogna provare con mano un OS per poterlo valutare oggettivamente e non è nemmeno impensabile che possa finire per piacermi.3 Le mie sono riflessioni a caldo e come tali vanno trattate.


  1. Non mi convince molto il nome, ma per il resto davvero nulla da dire. 
  2. Trovo assurdo che una compagnia come Apple non riesca a fornire uno streaming degno di questo nome! Mi sono dovuto attrezzare per seguire il live su UStream! 
  3. Parafrasando il filosofo Sri Aurobindo: «Ciascuno tende ad amare le proprie catene» 

Solo un altro articolo sui Google Glass. Oppure no…

Sarà che, a 22 anni suonati, inizio a sentire il peso dell’età, ma ultimamente ogni volta che leggo di un nuovo prodotto rivoluzionario in ambito tecnologico, passato l’effetto “wow”, non posso fare a meno di pensare ai possibili effetti che avrebbe nella vita quotidiana delle persone. E non è mai tutto rose e fiori.

Di recente si fa un gran parlare di Google Glass, la nuova meraviglia made in Mountain View. Ora, io sono molto meno votato alla multimedialità rispetto a quanto lo ero anche solo due anni addietro, però non nascondo la voglia di provare quegli occhiali; non li trovo così brutti come molti affermano, inoltre — come dice Diego Petrucci — l’attrito è quasi inesistente e ciò li renderebbe qualcosa di simile ad un prolungamento naturale del nostro corpo. Riguardo la mera utilità, ognuno si deve regolare in base alle proprie esigenze e il mercato darà la sentenza definitiva; io, ad esempio, non trovo alcun utilizzo per un tablet, ma mi guardo bene dal definirlo inutile e bollare come cretini coloro che fanno schizzare alle stelle le vendite degi iPad. Alla luce di queste premesse, come mai questi occhiali mi fanno alzare un sopracciglio ogni volta che ne sento parlare?

La risposta non mi è subito stata chiara e sono stato costretto a riflettere a fondo, chiedendomi persino se non si fosse radicato in me un sentimento anti-Google, data la mia passione per i gadget Apple. Decisiva è risultata la visione della serie TV britannica Black Mirror (consigliata a tutti), che pone l’accento sul nostro modo di interagire con la tecnologia. Ho concluso che il “problema” non è quest’ultima, ma il rapporto che noi abbiamo con essa: non siamo in grado di gestirla adeguatamente.

Bisogna partire dal presupposto che ogni gadget è, per definizione, superfluo. Quando noi decidiamo di integrare un dispositivo nella nostra quotidianità, lo facciamo ritenendo che possa aumentare la qualità della nostra vita, ergo ne consideriamo pro e contro e constatiamo che i primi sono in numero molto maggiore rispetto ai secondi. Ciò che risulta fallace è la nostra capacità di pensare a lungo termine unita alla scarsa consapevolezza che abbiamo di noi stessi. Quando una tecnologia diventa così bene integrata nelle nostre vite da sembrare parte integrante di noi stessi, avvengono due fenomeni parallei: da un lato tendiamo a diventarne dipendenti, dall’altro lasciamo che essa alimenti le nostre debolezze, le nostre pecche caratteriali.

È difficile rendere a parole il mio pensiero, quindi ricorrerò ad un esempio pratico che ho avuto modo di osservare in parte su me stesso, in parte su altre persone che conosco: lo smartphone. In tasca hai un dispositivo multifunzione che puoi — ipoteticamente — usare per rimanere in contatto con il Mondo intero e grazie al quale puoi accedere ad una enorme quantità di informazioni. Il fattore dipendenza è chiaramente intuibile e può essere generato sia dalle opportunità insite nella natura del dispositivo, sia dalle varie applicazioni installate che “combattono” per la nostra attenzione, ma come può un dipositivo alimentare le nostre debolezze? Ho visto cose che voi umani non potreste neanche immaginare: ho visto ragazze controllare ossessivamente la differenza di orario tra l’invio di un loro messaggio in WhatsApp e l’ultimo accesso del destinatario, ho visto coppie litigare per un “mi piace” messo sotto il commento sbagliato, ho visto studenti universitari passare la settimana prima di un esame giocando compulsivamente a Ruzzle, pentirsene, ma continuare imperterriti come eroinomani in cerca di una dose.

Sono situazioni che indubbiamente non toccano tutte le persone, ma sono sorprendentemente diffuse. Per “debolezze” non intendo altro che le normali insicurezze che tutti hanno e che vengono alimentate da un uso inconsapevole di tecnologie che evolvono ad un ritmo molto più elevato di quella che è la nostra capacità di adattamento. Per questo motivo voglio avere un atteggiamento prudente riguardo questi rivoluzionari occhiali di Google, perché la loro totale assenza di attrito li renderebbe una trappola perfetta per le nostre fragilità caratteriali e inorridisco al pensiero che, in futuro, possa diventare la prassi vedere il mondo attraverso quello che a tutti gli effetti è un filtro, qualcosa che porterebbe la famosa bolla di Google al di fuori dal mondo virtuale e direttamente nel mondo reale.

Ciò detto, rimango un geek: adoro la tecnologia, i gadget ed il World Wide Web; ritengo solo utile, per le prossime generazioni, un’educazione all’uso di questi strumenti, in modo da approcciarvisi in modo consapevole e non venirne assorbiti.