In balia del comfort: bloccati in una prigione dorata

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L’immagine che vedete è stata pubblicata due giorni fa su Reddit con il titolo “Tutta questa tecnologia ci sta facendo diventare asociali”; chiaramente è una provocazione nei confronti di chi demonizza smartphone e affini, accusandoli di star deteriorando le relazioni interpersonali: a quanto sembra, si punta sempre il dito contro un capro espiatorio.

La provocazione è stata colta e rilanciata da Diego Petrucci, che ha anche pubblicato un post sul suo blog, con l’intento di fare una disamina etica sul quando sia lecito isolarsi usando dispositivi vari come scudo, e quando tale atteggiamento sia addirittura sinonimo di inciviltà. Sull’argomento nello specifico non ho molto da aggiungere, ho già abbozzato il mio pensiero in un vecchio post e ho poi cercato, in un altro ancora, di porre l’accento sul caso particolare dei social network.

Qualche giorno fa, mi è capitato di rivedere una vecchia intervista fatta a Louis C.K. da Conan O’Brien, in cui il comico spiega il motivo per cui non ha intenzione di dare alle proprie figlie uno smartphone, illustrando la sua visione della tecnologia: un modo per riempire il vuoto che coviamo dentro di noi, a discapito della nostra capacità di provare empatia. Per chi non sapesse di cosa sto parlando, metto il video di seguito (niente sottotitoli, mi spiace).

Mi trovo pienamente d’accordo con Louis, ma sono convinto che non abbia centrato davvero il problema. Appurato che Internet e gadget vari altro non sono che strumenti dei quali si può fare l’uso che si vuole, come mai la tendenza principale a risultarne è la snaturazione delle comunicazioni interpresonali? Cosa porta l’Uomo — animale sociale per eccellenza — a preferire interazioni surrogate? L’incapacità di affrontare i propri demoni? In parte potrebbe essere così, ma credo sia la conseguenza di qualcos’altro: siamo in balia del comfort.

Scrivo di seguito una citazione tratta dal film “La mia cena con André”:

Voglio dire, se non hai una coperta elettrica, e il tuo appartamento è freddo, e hai bisogno di mettere un’altra coperta o prendere vestiti dall’armadio per impilarli sopra le lenzuola, solo allora saprai che fa freddo. E quella consapevolezza dà il via ad una serie di realizzazioni: hai compassione per l…beh, la persona a tuo fianco ha freddo? Ci sono altre persone al mondo che hanno freddo? Che notte gelida! Mi piace il freddo, Dio mio, non me n’ero mai reso conto, io non voglio una coperta elettrica, è divertente avere freddo, mi posso accoccolare alla persona che ho a fianco perché fa freddo! Sperimenti cose di ogni genere. Ma ecco che accendi la tua coperta elettrica ed è come prendere un tranquillante, come venire lobotomizzati guardando la TV. Entri nel mondo dei sogni. Cioè, cosa pensi ci succeda, Wally, a vivere in un ambiente in cui qualcosa di così intenso e vasto, come le stagioni o l’inverno, non ha alcun effetto su di noi? Siamo animali, dopo tutto. Cosa significa quello che ci sta succedendo? Io penso voglia dire che, invece di vivere sotto il Sole, la Luna, il cielo e le stelle, stiamo vivendo in un mondo di fantasia creato da noi stessi.
[…]
Wally, non capisci che il comfort può essere pericoloso? A te piace essere a tuo agio, e anche a me piace. Ma il comfort può cullarti in una tranquillità pericolosa. Voglio dire, mia madre conosceva una donna, Lady Hatfield, che era una delle persone più ricche al mondo, e morì di inedia perché il suo unico nutrimento era costituito da carne di pollo. Semplicemente, le piaceva il pollo e quindi mangiava solo quello, e il suo corpo stava deperendo, ma lei non se ne accorgeva perché era felice nel suo continuare a mangiare pollo; fino a che non morì! Vedi, onestamente penso che oggi siamo un po’ tutti come Lady Hatfield: abbiamo un’adorabile e comoda vita, con le nostre coperte elettriche e la nostra carne di pollo, e nel frattempo deperiamo perché siamo così disconnessi dalla realtà che non ne traiamo alcun reale sostentamento. Perché non vediamo il mondo. Non vediamo noi stessi. Non vediamo in che modo le nostre azioni hanno conseguenze sugli altri.

Le interazioni sociali hanno sempre una componente di stress e a volte è semplicemente più comodo farsi scudo con qualcosa, che sia una rivista, uno smartphone o delle auricolari. Queste barriere, erette per rendere rassicurante un ambiente potenzialmente ostile, sono al contempo fonti di piacere e spesso oggetti di desiderio; capezzoli. Siamo così immersi nel comfort da non essere più in grado di sopportare un minimo disagio, come quello dato dallo stare per qualche tempo soli: fuggiamo dalla noia, fuggiamo da noi stessi e fuggiamo anche dagli altri, perché una chat non equivale ad una conversazione ed una emoji non è un feedback emotivo.1

Non è mia intenzione demonizzare il comfort: deriva dal progresso, e il progresso è sempre positivo. Tuttavia non si può ottenere nulla senza perdere qualcosa, credo questa sia una regola universale e che quindi si debba cercare di essere consapevoli degli aspetti negativi innescati dalle nostre conquiste, di modo da poterli arginare. Inoltre è bene ricordare che la crescita — personale, così come dell’umanità — ha origine da momenti sgradevoli. Probabilmente è meglio guardare al disagio come un compagno di avventure (o al limite uno strumento), piuttosto che fuggire per lasciarsi cullare da un benessere illusorio.


  1. E se metto il punto a fine frase, non vuol dire che sono arrabbiato, diamine! 

Una folle teoria

Oggi voglio esporre una teoria. È qualcosa di difficile da comunicare a parole, qualcosa che ho percepito più a livello di istinto (magari aiutato da pratiche meditative e ruminazioni filosofiche), ma che paradossalmente è poco intuitivo da capire se spiegato con un discorso.

Il concetto base è: togliendo ogni tipo di sovrastruttura, siamo tutti perfettamente uguali — talvolta persino indistinguibili — e non ha alcun senso affermare di essere superiori o inferiori a qualcun altro; a ben vedere anche il termine “uguale” è vuoto di significato: sarebbe più corretto dire che siamo “sintonizzati”. Non c’è alcuna reale distinzione tra me, te, ed un tizio a caso preso dalla strada.

Mi rendo conto di dover spiegare quello che intendo ed è qui che sorgono le difficoltà. Siamo tutti esseri umani accomunati da una quotidiana sofferenza e da una perpetua ricerca della felicità, spesso (secondo me erroneamente) identificata con il piacere. Ogni emozione che provo la stanno provando, l’hanno provata, o la possono provare anche tutti gli altri abitanti di questo pianeta; siamo tutti — chi più chi meno — insicuri riguardo a qualcosa e abbiamo tutti paura. In un modo o nell’altro siamo tutti connessi.1

Notando questo, è cambiato lievemente il mio modo di guardare il mondo: adesso ogni persona la vedo come una copia di me, un mio riflesso. Ognuno vive la propria vita e ha un mondo nella propria testa, ha sofferenze e preoccupazioni a me ignote ed io non posso sapere cosa realmente significhino le loro azioni: persino quelle che sembrano non lasciare adito a dubbi, possono sottendere molteplici significati. Quando ho fretta e sono scontroso perché tutti mi sembrano un ostacolo, automaticamente realizzo che altri, nella mia situazione, potrebbero vedere me allo stesso modo. Quando mi sento stuzzicato, ferito o deriso e reagisco con un moto d’orgoglio, rischiando di sembrare arrogante o saccente, mi ricordo di varie persone che in passato ho etichettato in quel modo. Tutto d’un tratto mi sembra miope il categorizzare le persone, perché è come se stessi giudicando (e condannando) me stesso.

A tal proposito può essere utile accennare che tanto per il Buddhismo, quanto per la moderna psicologia comportamentale, le persone non sono altro che degli specchi per il soggetto preso in analisi: “la mia reazione a te è una percezione di me”.2 Molto spesso quando non ci va a genio una persona è perché — a livello inconscio — la vediamo incarnare aspetti o comportamenti che noi stessi abbiamo, ma che non accettiamo, che ci danno fastidio, oppure che mettono in risalto ciò che noi percepiamo come una nostra mancanza.

Tornando alla mia teoria, ho questa sensazione che tutte le azioni siano incidentali. Una storia taoista parla di due pescatori sulla loro barca, in mezzo ad un lago, che cercano di prendere qualche pesce. Ad un certo punto un’altra imbarcazione li sperona; i due, dopo essere riusciti a non farsi catapultare in acqua, si voltano rabbiosi, pronti ad inveire contro il responsabile, ma vedono che la barca che li ha colpiti è vuota: è stata trasportata alla deriva dalla corrente. La loro rabbia scompare.

Non ho mai capito il senso di questo racconto fino a tempi recenti: ciascuno di noi è una barca senza conducente, non ha senso arrabbiarsi o prendere le azioni altrui come attacchi personali.3 Siamo in preda al nostro Ego4 e ci vediamo come i protagonisti assoluti di un immaginario film personale; secondo la nostra ottica, nulla ci può andare storto, eppure molte cose non vanno come noi vogliamo e non riusciamo ad accettarlo intimamente. Questo essere così ego-centrati è una caratteristica comune a tutti, e rende la maggior parte delle discussioni dei dialoghi tra sordi; siamo talmente avvolti dalla nostra prospettiva che non comprendiamo quella altrui e finiamo con il criticare atteggiamenti che, a ben vedere, sono gli stessi nostri.

Segue un piccolo aneddoto. Meno di un mese fa stavo riflettendo sulla totale mancanza di empatia di alcune persone che conosco, di quanto si prendano troppo sul serio senza mettersi mai in discussione, e mi sono chiesto come mai non si sforzino un po’ di vedere le cose con una prospettiva simile alla mia. Poi mi sono reso conto di avere — in pratica — detto: “Quanto sono arroganti! Come mai non possono essere tutti umili come me?!”, e sono scoppiato a ridere per il paradosso.

Ovviamente non si può essere agnelli in un mondo di lupi. Non è di alcuna utilità l’accettare a braccia aperte gli egoismi altrui e cercare di liberarsi dai propri, ma sarebbe auspicabile riuscire a mantenere una prospettiva più ampia, di modo da affrontare le avversità in modo sereno. A tal proposito è stata una sorpresa la mia reazione ad un evento di qualche giorno fa: ho frainteso le intenzioni di un automobilista e ho rischiato l’incidente; quando ho visto il tizio mandarmi a quel paese, assieme al mio parentado di facili costumi, per tutta risposta mi è scappata una risata. Poi ho proseguito, dimenticandomi subito dell’accaduto. Soltanto sei mesi fa, avrei lasciato che quell’incomprensione e quegli insulti mi rovinassero l’umore per tutta la successiva ora: d’altronde non ho avuto cattive intenzioni e sono una brava persona. Ogni persona si reputa una brava persona.

Concludo parafrasando un sùtra Buddhista: io non sono superiore a nessuno, anche se a volte mi sorprendo a pensarlo; non sono inferiore; non sono in alcun modo speciale, e — probabilmente — non sono nemmeno unico.


  1. A quanto ne so, questa asserzione è concorde con varie filosofie orientali e con la meccanica quantistica: non vi è reale distinzione tra soggetto e oggetto, in quanto tutto ciò che esiste è espressione di un unico continuum energetico. Non ho tuttavia approfondito, quindi non mi lancio in speculazioni eccessive; cercherò di dedicarmi al più presto ad interessanti letture ed astruse teorie
  2. Ovviamente se la persona in questione ha un atteggiamento aggressivo o lesivo nei nostri confronti, non c’è bisogno di ricorrere ad elaborate meta-analisi, per capire la fonte del nostro disagio: Occam docet. 
  3. Lungi da me il sollevare gli individui dalla responsabilità di ciò che fanno. Voglio solo dire che, da un punto di vista allargato, ogni azione è una reazione a qualcos’altro; essenzialmente noi non siamo le nostre azioni. In modo analogo, sebbene possiamo dire di possedere determinate qualità, noi non siamo quelle qualità. 
  4. Mi rendo conto che per poter parlare di qualcosa è necessario prima definirlo, ma purtroppo il campo delle teorie psico-filosofiche su cosa sia effettivamente l’Ego è un guazzabuglio indistricabile. Non sto parlando dell’Ego psicologico definito da Freud, ma di quello concepito dalle filosofie orientali come un filtro che, pur essendo utile alla nostra sopravvivenza nella quotidianità, ci impedisce di vedere nitidamente ciò che abbiamo davanti agli occhi. Un giorno raccoglierò dati e scriverò un post a riguardo, per il momento prego i lettori di perdonare questa mia leggerezza espositiva. 

Tic-Tac

Provate per un attimo a tornare con la mente alla vostra infanzia, non importa se sia stata felice o meno, sono quasi sicuro che ognuno di voi aveva un rapporto diverso con il Tempo, rispetto a quanto avviene ora. Io ricordo che a casa di mia nonna, nel primo pomeriggio, aspettavo le quattro per poter vedere i cartoni pomeridiani (qualcuno ricorda Solletico?) e — non sapendo leggere le ore — chiedevo quanto mancasse. Spesso mi sentivo rispondere: «È presto, Jacopo, ancora un’oretta» e mi rattristavo parecchio perché sapevo che l’attesa era lunga. Quando pensavo a ciò che avevo fatto solo un anno prima mi sembrava che di mezzo ci fosse un’era.

Eccomi adesso, ventituenne, a notare che quattro ore di studio passano sempre troppo in fretta rispetto a quanto mi sia necessario; ad evocare ricordi dell’estate passata e percepire quegli eventi come accaduti pochi mesi prima. Com’è possibile?! Sono sempre stato convinto fosse principalmente colpa di una percezione del tempo alterata durante la fase della crescita, unita magari al rapporto “vita rimasta-vita vissuta”. In sostanza qualcosa di inevitabile — ed inevitabilmente triste — che andrebbe notato per poter prendere piena coscienza del fatto che la vita non è mai lunga abbastanza.

Nel 2012 è però successo qualcosa che mi ha fatto vedere la nostra percezione del tempo sotto un’altra luce, nonché mi ha causato un piccolo periodo di “crisi esistenziale”. Durante le vacanze estive sono andato in Croazia con un gruppo di amici e, sebbene inizialmente non ne fossi proprio entusiasta, si è invece rivelata una bella esperienza. Non ho intenzione di fare il resoconto della vacanza, mi limito ad accennare che tra nuotate intense, furti di birra ed improbabili approcci con turiste tedesche, ce la siamo passata piuttosto bene. Il tutto è durato una settimana e, nonostante il luogo comune voglia che il tempo passi più rapidamente quando ci si diverte, l’ho vissuta in modo intenso, assaporando ogni singolo giorno.

Torno a casa e riprendo contatto con la realtà: ho un esame a tre settimane e devo fiondarmi sui libri, non c’è tempo da perdere! Ed ecco che, con mio grande sconcerto, in un battito di ciglia passano sette giorni. 168 ore della mia vita se ne sono andate senza che quasi io me ne rendessi conto, lasciandomi la disarmante sensazione di non aver vissuto. Come mai la stessa identica porzione di tempo che ho trascorso in Croazia l’ho percepita in modo così diverso, una volta rientrato a casa?

Sembrerà banale, ma tutto ciò mi ha fatto entrare per un po’ in crisi, mi ha fatto chiedere: «Non sarà che sto buttando la mia vita?». Mi è venuta incontro un’infografica che ha stimolato la mia curiosità riguardo l’argomento in questione e mi ha fatto fare un po’ di ricerche. Purtroppo non ho modo di recuperarla, quindi esprimerò il concetto con le parole di un gentile utente di Reddit che ha rinfrescato la mia memoria su questo tema.

La percezione del trascorrere del tempo dipende da quante volte prestiamo attenzione a qualcosa e siamo consapevoli di farlo!

Può essere fantastico oppure un supplizio, dipende dalle circostanze.

Percezione del tempo come “lento”:
Sei in classe e controlli l’orologio appeso al muro…10 minuti alla campanella. Ogni…3…secondi, ti rendi conto di quanto sembri un’eternità. Vuoi che il tempo passi più in fretta, vorresti che lo facesse, quindi continui a controllare, controlli ancora ed ancora! In quei 10 minuti avrai fatto 200 osservazioni e se ogni volta che guardi l’orologio dici a te stesso: «Ma è così LENTO!» ecco che sono 400 osservazioni ed è persino peggio!

[…]

Percezione del tempo come “veloce”:
Ora pensa a quando sei tutto il giorno con la testa tra le nuvole, senza notare nulla, oppure quando passi tutta la giornata mezzo addormentato nel letto, o a guardare repliche di una serie TV che conosci da cima a fondo. All’improvviso il giorno è trascorso.

Oppure quando stai guidando lungo una strada che hai fatto centinaia di volte — e all’improvviso sei a casa e pensi: «Ma che cavolo! Dormivo mentre ero al volante?!»

Durante l’infanzia per tutto il tempo ci sono cose che vale la pena notare. Tutto ciò che hai dinnanzi è nuovo e — dunque — importante.

Quando cresci smetti di notare ciò che hai visto ormai centinaia di volte: non è nuovo, non è importante e quindi non merita la tua attenzione. È normale e giusto.

Come adulto ti devi concentrare su ciò che davvero merita attenzione. Le semplici sensazioni/suoni/stimoli visivi potrebbero non essere compresi nel novero, a meno che non siano estremi. Ma in genere ciò che è nuovo/importante per un adulto è ad un livello più astratto (il tempo rallenta per persone che hanno lavori in cui ogni minuto presenta una nuova — ed importante — sfida da superare).

Come nota a parte, due persone potrebbero vivere entrambe fino ad 80 anni, ma il modo in cui vivono la vita può essere molto diverso. Magari uno dei due nota cose tutto il tempo — è un inventore che compie centinaia di osservazioni e ha una valanga di idee al giorno. L’altro è in continuazione fra i meandri della sua mente e non si preoccupa di ricordare nulla di ciò che gli accade. Potresti trovarti con una persona che ha vissuto il suo tempo come se fossero 200 anni di vita e l’altra che si e no ha fatto esperienze per 20.1

Nel mio caso, in Croazia ho compiuto diverse sfide a livello personale per cercare di uscire dalla mia comfort zone e ho cercato di provare cose nuove; di contro, tornato a casa, mi sono lasciato assorbire nella routine, dalla meccanicità di eventi che posso predire ad occhi chiusi.

Uno dei fattori che mi ha spinto verso la mindfulness è proprio questo. Molto spesso, intrappolati come siamo nelle nostre routine quotidiane, arriviamo a dare per scontate cose che non lo sono per nulla e a credere di conoscere ciò di cui in realtà non abbiamo scalfito che la superficie.

Non c’è un giorno uguale ad un altro ed il tempo che vi lasciate alle spalle non tornerà mai più indietro. Sono uno che predica bene e razzola male, ma il mio consiglio è di vivere ogni giorno al massimo, provando cose nuove per il gusto di provarle (e se laggente dice che “non ha senso” è una ragione in più per fare ciò che pensate). Viaggiate! Sfidante le convenzioni che non sapete nemmeno voi perché seguite! Fate, di tanto in tanto, cose che vi spaventa fare. Cosa avete da perdere? Non potete vivere in eterno, ma potete vivere intensamente.


  1. “In the end, it’s not the years in your life that count. It’s the life in your years.” — Abraham Lincoln 

Mindfulness e meditazione

Chi mi segue su Twitter saprà certamente che di recente ho iniziato a cimentarmi nella meditazione con risultati che, a mio modo di vedere, sono piuttosto significativi. In molti mi hanno chiesto di scrivere qualcosa a riguardo, ma ad essere sincero non so proprio come trattare l’argomento. Da un lato, con un mese di pratica all’attivo, non mi posso certo dire un esperto in materia (indipendentemente dalle letture da me fatte), dall’altro, volendo trattare come si deve l’argomento, sarebbe appropriato scrivere un vero e proprio libro, un manuale, non di certo un approssimativo articolo su un blog. Alla luce di queste considerazioni, ho deciso di scrivere le mie prime impressioni, congiuntamente ad una serie di consigli per principianti che mi sono stati davvero utili. Cercherò di essere il più chiaro e lineare possibile nei paragrafi seguenti, qualora non dovessi riuscire nell’intento, vi prego di scusarmi.

Il mio inizio

La mia love-story con la pratica meditativa ha avuto un periodo di gestazione piuttosto lungo. Infatti iniziai ad avvicinarmi alla tematica nel febbraio del 2012, fagocitando una valanga di articoli in lingua inglese e frequentando assiduamente la sezione dedicata su Reddit. Nonostante la buona volonta e gli sforzi — che poi avrei scoperto essere la causa principale delle mie difficoltà — le mie sedute risultavano più fonte di frustrazione che di relax; ero ossessionato dalla postura, non riuscivo a fermare i pensieri, credevo di sbagliare a respirare e, come se non bastasse, il mio cuore aveva la tendenza ad accelerare i battiti durante la meditazione, entrando in conflitto con il il ritmo del respiro e rendendo irritante tutto il processo. Non ci si deve meravigliare se abbandonai la pratica dopo poco più di un mese, in corrispondenza con un periodo di grande stress (sono una persona piuttosto ansiosa).

Nonostante questo fallimento, il mio percorso di self-improvement continuò per vie traverse, tanto che mi sento di considerare il 2012 come uno dei più significativi a livello di crescita personale. Ovviamente in tal senso Internet ha assunto — come sempre — un ruolo chiave, in particolare ho scoperto in Reddit una fonte inesauribile di stimoli. È proprio grazie a quest’ultimo che si è riaccesa la mia curiosità per la meditazione: in tutti i thread che aprivo veniva indicata come abitudine da sviluppare assolutamente per trarre il meglio dalla propria vita. Possibile che avessi sbagliato qualcosa io?

Dopo aver scoperto il progetto HeadSpace, mi sono accorto di essere incappato nei più comuni errori dei principianti ed è da questi che vi voglio mettere in guardia.

L’approccio mentale

Non importa quanto sia facile l’attività che vi apprestate a svolgere: se non avete il corretto atteggiamento, vi sembrerà sempre di scalare l’Everest in costume da bagno.

Siamo abituati ad essere immersi in mille impegni quotidiani: dobbiamo lavorare, studiare, allenarci, uscire con gli amici, ecc. La meditazione è dunque una delle tante cose da aggiungere alla to-do list della giornata, eppure è proprio questo il primo errore: meditare non vuol dire “fare”. La meditazione non ha nulla a che vedere con l’azione, ma con la consapevolezza. Nel momento in cui iniziate la seduta, tutto ciò che dovete fare è essere consapevoli di voi stessi, di ogni emozione, sensazione (piacevole e/o fastidiosa), suono, odore, sapore, pensiero e così via.

Altro errore molto comune è cercare di soffocare i pensieri, di avere la mente “vuota”. Mi spiace deludere chi davvero ci credeva, ma non è possibile fermare i pensieri, ciò che è possibile, anzi, auspicabile fare è permettere a questi di fluire liberamente ed andarsene così come sono venuti. Non lo ripeterò mai abbastanza: tutto ha un inizio ed una fine, perché pensieri ed emozioni dovrebbero fare eccezione? La tendenza che purtroppo si ha (o almeno io ho) è di identificarsi con ciò che si pensa. Quando sorge un pensiero negativo l’atteggiamento naturale è quello di combatterlo, cacciarlo, con il solo risultato che viene rafforzato e produce un effetto domino, tanto che sembrerà di avere un vespaio nella scatola cranica. A volte mi capita persino di notare il sorgere ed il passare di un pensiero negativo e, in una sorta di impeto masochistico, trovarmi a “rincorrerlo” per poterlo analizzare a dovere. Quando invece la mente produce qualcosa di felice, appagante, la tendenza è quella di indugiarvi, di trarne quanto più piacere possibile e finirne inevitabilmente dipendenti; ma dal momento che nulla è eterno, la sofferenza finale è scontata. Questa tendenza è gravissima perché, in ultima analisi, i pensieri non sono nemmeno qualcosa di reale.

Come fare, dunque, durante la meditazione? Vi posso assicurare che la mente non se ne starà quieta, non importa se produrrà immagini, suoni o monologhi interiori (quanto li odio questi!), non c’è nulla che possiate fare per annullarli. Dovete notare la loro presenza e lasciarli andare, spostando la vostra attenzione sul respiro. Non c’è praticamente nulla che possiate sbagliare, la meditazione non può essere giusta o sbagliata: o state meditando (allenando la concentrazione) o non stante meditando. Tutto ciò che dovete fare è allenare la consapevolezza, la concetrazione e lasciare che accada tutto ciò che si sta manifestando; non dovete cercare di controllare nulla perché il solo risultato sarà generare stress e rendere l’intera esperienza molto frustrante. È stato questo il mio errore, un anno fa.

La posizione

Per quanto possa essere affascinante l’idea di meditare nella posizione del loto, seduti su di un cuscino posto sul pavimento, non credo sia la soluzione migliore per un occidentale. Non che sia impossibile, sia chiaro, semplicemente è poco conforme alle nostre abitudini e io ho trovato parecchio difficile mantenere la schiena eretta — elemento molto importante.

Il mio consiglio è utilizzare una sedia da salotto, o da scrivania a patto che non sia girevole. Descrivere a parole la posizione ideale in cui sedersi è piuttosto complicato, quindi vi lascio un video esplicativo(https://www.youtube.com/watch?v=GUAaeYYOIRc). È in inglese, ma si capisce molto bene e spiega in modo mille volte migliore rispetto a come potrei fare io. Riguardo l’abbigliamento, più comodi siete, meglio è; per questo io prediligo il pigiama.

La pratica

Un errore che si tende sempre a fare è di sedersi e concentrarsi subito sul respiro, per poi lamentarsi che la mente non collabora e non ci si riesce a rilassare. Per poter meditare occorre prima fare entrare la mente in sintonia con il corpo.

Il metodo che ho sperimentato sulla mia pelle consiste nel prendersi il tempo per diventare consapevoli delle sensazioni che si prova, percepire il contatto del corpo sulla sedia, dei piedi sul pavimento, avvertire i suoni attrono. Poi procedere con una “scansione” del proprio corpo, come se si volesse costruire un’immagine mentale dello stesso, e solo dopo tutti questi passaggi, porre la propria attenzione al respiro.

Respirare è un’azione completamente naturale, eppure quando la si nota essa diventa meno automatica, si può provare la tentazione di controllarla; ecco, questo lo si deve evitare. Sebbene la respirazione fisiologicamente corretta in uno stato di relax sia quella diaframmatica, durante la meditazione dovete semplicemente osservarvi ed essere consapevoli del movimento e di dove avviene, senza cercare di pilotarlo. Dovete prima di tutto capire come siete, non cercare di essere come vorreste. Questo credo sia un suggerimento valido in molti ambiti, non solo nella meditazione.

Durante tutti questi passaggi, ogni volta che vi accorgete di esservi lasciati catturare da un pensiero, prendetene nota e tornate alla pratica, senza frustrarvi, senza rimproverarvi, ripetetevi che è tutto ok e andate avanti. Può essere che vi ritroviate a provare emozioni o vari fastidi fisici, personalmente in questi casi io cerco di porre la mia attenzione sul disagio e indagarlo con un genuino senso di curiosità. Molto spesso mi sono ritrovato a dare un nome a determinate emozioni che provavo, ma che non mi risultavano subito chiaramente identificabili; a volte è successo che sono semplicemente sparite. Nel caso dei pruriti questa tecnica di analisi è bastata per farli scomparire nel nulla.

Mindfulness

Mindfulness è un termine spesso usato come sinonimo di meditazione e, sebbene non sia esattamente così, ne rappresenta comunque un aspetto chiave. La traduzione più adeguata nella lingua italiana è “consapevolezza”. Praticare la mindfulness è qualcosa che va oltre i 10-20 minuti al giorno dedicati alla meditazione, comporta infatti essere consapevoli di tutto ciò che fate durante la giornata, senza lasciarvi “rapire” dai vostri pensieri (che comunque rimangono presenti); notare ogni sensazione provata ed indagarla sospendendo ogni giudizio.

La mindfulness, diversamente dalla meditazione, la si può applicare in qualsiasi contesto, in qualsiasi momento della giornata. Personalmente la utilizzo spesso mentre cammino, mi apro ad ogni stimolo, catturo ogni suono, odore, sensazione e, ogni volta che sorprendo la mia mente a vagare, riporto l’attenzione al contatto dei piedi con il terreno. Il trucco per ancorare l’attenzione al qui ed ora è concentrarsi su una sensazione che è sempre presente, il tatto diventa dunque il punto di riferimento per ogni attività, tanto quanto il respiro lo è per quella meditativa.

Le mie impressioni

Come ho detto è circa un mese che mi sto dedicando a queste pratiche e posso dire che funzionano. Non so come, non so perché, ma se devo fare un bilancio complessivo mi trovo ad essere mediamente molto più calmo e rilassato. Ho iniziato a notare i progressi dopo un paio di settimane, ma mi ci è vuoluto un po’ per collegarli alla meditazione, visto che era qualcosa che facevo totalmente senza aspettative.

Credo che questo sia un aspetto importante: l’aspettativa spesso soffoca i progressi. È un concetto trito e ritrito, lo so, ma noi stiamo vivendo in questo momento, cosa importa cosa viene dopo? Prima di venire sommerso di obiezioni, specifico che sto parlando della tendenza tipicamente umana di vivere ogni attività come un’incombenza da sbrigare prima di giungere alla successiva; approcciandosi alla realtà in questo modo come si può sperare di essere consapevoli? Sono stato così abituato a bypassare la realtà, a non viverla per quello che è, che molte volte quando applico la mindfulness mi trovo ad annoiarmi, non è folle?

Altra cosa che mi ha molto sorpreso è notare il mio rapporto con il fastidio/dolore, che poi credo sia quello che un po’ tutti hanno. Quando si è in una situazione poco confortevole, si tende a farla passare il più in fretta possibile, a concentrarsi sul momento in cui finirà, ma facendo così la rendiamo ancora più sgradevole. L’ho capito una settimana fa mentre mi allenavo in palestra: quando mi concentro sul movimento che devo fare e nulla più, sentendo i muscoli lavorare ed il respiro cambiare ritmo, sfrutto meglio la mia forza e finisco per essere meno affaticato. Quando invece vivo l’esercizio come un’incombenza necessaria al fine di arrivare al momento di riposo, finisco per spazientirmi e perdere il gusto per quello che sto facendo.

Ho fatto l’esempio di un workout, ma il ragionamento si può applicare alla gran parte delle situazioni, dalla coda alle Poste, ai ritardi di Trenitalia. Diciamo che, come effetto collaterale, in questo periodo sto imparando ad avere pazienza e concentrazione. Di pari passo ho un maggiore dominio sulle mie emozioni, un’ansia significativamente minore e riesco a trovarmi a mio agio nella maggior parte dei contesti, anche quelli che storicamente mi mettono più a disagio. Tendo a giudicare meno me stesso e chi mi sta attorno e, di conseguenza, subisco molto meno il giudizio altrui.

Non mi sento un Buddha, provo emozioni e le proverò sempre, penso e penserò sempre, ma sto di sicuro andando verso una maggiore comprensione di me stesso e, di conseguenza, un maggiore equilibrio, utile per porre un po’ più in prospettiva gli eventi che mi capitano.

Ho ancora i miei problemi, ci sono sedute in cui il mio cuore fa le bizze e giorni — in prossimità degli esami — in cui colgo un substrato di ansia che dà parecchio fastidio, visto che mi sono abituato alla sua quasi totale assenza. Però è passato solo un mese, sono fiducioso riguardo il futuro.

La fondazione HeadSpace

L’ho già nominata prima e ritengo meriti un approfondimento, è grazie al sito e all’applicazione di HeadSpace che mi sono riavvicinato alla meditazione. Una volta registrati si può usufruire di un programma denominato ‘Take10‘ che consiste in meditazioni guidate da 10 minuti al giorno per 10 giorni, correlate con video informativi e supporti per applicare la mindfulness quotidianamente. Ovvio, ogni persona è diversa, ma è un programma che consiglierei a tutti i novizi. Il fondatore, Andy Puddicombe, ha anche scritto un libro, del quale ho fatto una recensione su GoodReads e lo ritengo una lettura consigliata anch’esso.

Il programma HeadSpace, dopo i 10 giorni, continua previa sottoscrizione di un abbonamento. Si possono avere diverse opinioni riguardo il lucrare su di una pratica spirituale millenaria, io stesso storco un po’ il naso, ma — come ha detto qualcuno — «Se sei bravo a fare qualcosa, mai farla gratis». È il capitalismo, bellezza!

Dunque io vi consiglio caldamente la ‘Take10′, ma la decisione di pagare per il prosecuo della pratica sta a voi. Potete tranquillamente ripetere il programma gratuito in loop per un po’ di tempo, al fine di acquisire bene il procedimento e poi continuare per i fatti vostri.


Non è stato facile scrivere questo pezzo, ma spero di essere stato utile a tutti coloro che sono interessati nella meditazione, anche perché, per quel che ne so, non esistono guide valide in Italiano per nessun tipo di pratica meditativa.