Angurie e Buddismo

Ciascuna delle tre principali tradizioni buddiste adopera diversi metodi per giungere alla stessa esperienza.

Poniamo, per esempio, che tu non sappia cos’è un’anguria perché non ne hai mai mangiata una prima. Se chiedessi ad un Buddista Hinayana di insegnarti cos’è un’anguria, ti verrebbe detto che tutto parte da un seme, un piccolo seme nero piantato nel terreno. Poi questo seme germoglia e diventa una piantina che cresce cone un rampicante e si ricopre di fiorellini. Da questi fiori inizia a crescere un frutto, che diventa sempre più grande, fino a trasformarsi in un’anguria matura. Ad un certo punto qualcuno la mangia, oppure si decompone, e i semi tornano nel terreno. Il ciclo ricomincia da capo: seme, germoglio, rampicante, bocciolo, fiore, frutto; seme, germoglio, rampicante, bocciolo, fiore, frutto. Questo tipo di insegnamento si focalizza sul tempo, o comunque su qualcosa che cambia nel tempo.

Il Buddismo Mahayana invece non si preoccupa molto del tempo, possiamo dire che la sua preoccupazione sia lo spazio o “forma”. Quindi se chiedessi ad un Buddista Mahayana cos’è un’anguria, potrebbe risponderti: “Dunque, un’anguria ha una buccia verde, con striature di verde chiaro e scuro. Può essere piuttosto pesante. Se sei in Occidente, un’anguria assomiglia un po’ ad un pallone da football, mente in Corea ha la forma di un pallone da calcio. L’anguria è dura all’esterno e morbida all’interno. Quando è matura, il suo interno è rosso e contiene piccoli semi neri. La parte rossa è dolce, la parte bianca non lo è più di tanto, mentre la parte verte è un po’ aspra”. Il Buddismo Mahayana si interessa della forma, di quella che è la realtà dell’anguria. Un Buddista Mahayana potrebbe anche spiegare come quelle caratteristiche — colore, peso, sapore e forma — siano tutte vacue.

Lo Zen a uno stile di insegnamento molto semplice e diretto. Zen significa che se tu vuoi capire che cosa sia un’anguria, devi prenderne una, tagliarla con un coltello e metterne in bocca una fetta. BOOM! La tua esperienza! Parole, discorsi, libri e insegnamenti non possono trasmettere questo tipo di conoscenza. Anche se leggessi un centinaio di libri sulle angurie, o ascoltassi centinaia di lezioni, tutto ciò non potrà erudirti in misura maggiore di quanto possa fare un singolo assaggio. “Cos’è un’anguria?” Boom! “Ahhh! Quella è un’anguria!”. Ecco il motivo per cui l’insegnamento zen è descritto come “Indipendente da parole e discorsi, una speciale trasmissione al di fuori dei Sutra che punta diretta alla mente; guarda la tua vera natura, diventa Buddha”. Comprendere cosa sia un’anguria non ha bisogno di parole e discorsi, anche un bambino lo può capire! Questa è la via dello Zen.

— Seung Sahn in The Compass Of Zen

Il valore della vita

The MOON: Com’è uccidere un animale?

Lynx: È qualcosa che ti cambia la vita. Tenere nelle tue mani il corpo caldo di un animale, di un essere vivente che respira, scostare la sua pelliccia o le sue piume prima di sgozzarlo…ti riempie di umiltà. Richiede davvero la tua piena attenzione, realizzi che un altro essere sta per dare la sua vita così che tu possa nutrirti. Quando so che il giorno seguente dovremo uccidere, non riesco ad addormentarmi.

È molto diverso uccidere un animale addomesticato rispetto ad uno selvatico. I primi sono così docili, è quasi come se si concedessero a te. Preferisco decisamente cacciare un cervo che ha passato la sua vita a correre in libertà, piuttosto che uccidere un animale addomesticato.

Tiriamo a sorte per decidere chi dovrà materialmente ammazzare l’animale. Nell’ultima classe è toccato ad una ragazza vegetariana. Ha voluto farlo: ha voluto sapere cosa si provasse ad assumersi la piena responsabilità per la propria vita, il che include le vite che vengono sacrificate per lei.

Ha fatto un buon lavoro, si è impegnata con tutta sé stessa (uccidiamo sempre con sommo rispetto). Non so cosa abbia provato, ma so che ha mangiato ogni pezzo di quella pecora.

Ecco un’altra cosa che accade quando sai che un altro animale ha sacrificato la sua vita per te: non sprechi nulla. Mangiamo tutta la carne e gli organi. Usiamo le cervella per la concia, zoccoli e legamenti per la colla, ossa per utensili, gioielli e persino strumenti musicali. Ogni parte dell’animale diventa preziosa.

Quando vivi la tua vita in questo modo, tutto è ricondotto ad una storia. La storia della pecora che hai ucciso, mangiato, indossato e da cui hai ricavato strumenti è molto più ricca e duratura rispetto alla storia del pezzo di carne avvolto nel cellopane che hai comprato al negozio e di cui non sai assolutamente nulla. Quando conosci al storia del tuo cibo, vieni portato in contatto con la vita a livello viscerale. Quando non conosci la storia di ciò che mangi, sei disconnesso.

Quella che avete letto è parte di quest’interessante intervista di cui consiglio caldamente la lettura.

Non sono un fan di scelte alimentari radicali e, per quanto non mi piaccia infliggere sofferenza, adoro mangiare carne. Tuttavia noto che si sta sempre di più perdendo la consapevolezza di ciò che mangiamo e di che cosa significhi nutrirsi: affinché si possa sopravvivere, altri esseri viventi — senzienti e non — devono sacrificarsi per noi.

L’Uomo è parte integrante del sistema in cui si trova, ma col passare del tempo stiamo sempre più dimenticando questa verità fondamentale e ciò ha avuto pesanti effetti su ambiente, società e psiche. Lynx Vilden ha trovato un modo un po’ radicale per ristabilire il contatto con ciò che è essenziale e non credo che questo percorso sia adatto a tutti, ma credo che ognuno di noi debba, una volta al giorno, fermarsi ed aprirsi alla consapevolezza di essere vivo, cercando di capire pienamente ciò che questo comporta.

Dal canto mio, grazie a quell’intervista ho scoperto l’esistenza del progetto Living Wild e ho notato che ci sono corsi proposti in Italia; forse la prossima primavera farò un campeggio alternativo, chi lo sa.

Autobiografia in cinque brevi capitoli

  1. Cammino per la strada.
    C’è una buca profonda sul marciapiede.
    Ci casco dentro.
    Sono perduto, sono disperato.
    Non è colpa mia.
    Mi ci vuole parecchio per uscirne.

  2. Cammino per la stessa strada.
    C’è una buca profonda sul marciapiede.
    Fingo di non vederla
    e ci casco dentro di nuovo.
    Non posso credere di essere nello stesso posto.
    Ma non è colpa mia.
    Mi ci vuole di nuovo parecchio per uscirne.

  3. Cammino per la stessa strada.
    C’è una buca profonda sul marciapiede.
    Vedo che è lì.
    Ci casco dentro comunque…è diventata un’abitudine.
    Ho gli occhi aperti,
    so dove sono.
    È proprio colpa mia.
    Ne esco immediatamente.

  4. Cammino per la stessa strada.
    C’è una buca profonda sul marciapiede.
    Ci giro attorno.

  5. Cambio strada.

Portia Nelson

Il bicchiere è già rotto

Un giorno alcune persone vennero dal maestro e chiesero: “Come fai ad essere così felice in un mondo tanto precario, in cui non puoi far nulla per proteggere coloro che ami da dolore, malattia e morte?”. Il maestro prese un bicchiere e disse: “Tempo fa mi è stato regalato questo bicchiere, mi piace davvero molto. Tiene l’acqua a mia disposizione e luccica quando esposto al sole. Lo tocco e tintinna! Un giorno il vento potrebbe farlo cadere dalla mensola, oppure potrei accidentalmente urtarlo con il gomito e buttarlo giù dal tavolo. So che questo bicchiere è già rotto, quindi posso goderne davvero.

Ajahn Chah Chah Subhaddo

Il momento in cui ottieni qualcosa è il momento in cui inizi a perderla.

Dio è morto

Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra, né la grande depressione; la nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita.

In un periodo in cui i grandi ideali — almeno nel mondo occidentale — sembrano essere ridotti a vuoti simulacri e lo status quo appare un fato immanente impregnato della giusta dose di comfort, non ci si deve stupire nel vedere orde di giovani senza uno scopo. Si lotta con fatica per il controllo della nave, ma non tutti riescono in tale impresa: alcuni seguono la corrente in modo apatico, altri si ritrovano in mezzo alla burrasca e ricorrono a farmaci per contrastare il mal di mare. I marinai più anziani ed esperti, spesso e volentieri, invece di aiutare cercano di trarre vantaggio dalla situazione: sfruttano paura ed incertezza per spingere gli spaesati verso specifiche rotte, spesso estreme; “Così cambieranno le cose!”, dicono. Peccato che non mostrino mai una mappa, gli si deve credere sulla parola.

Io? Sto cercando un equipaggio.

La Vita, istruzioni per l’uso

Ci sono degli autori — di cinema, letteratura, musica, arte in generale — che mi rimangono sconosciuti per lungo tempo, poi quando finalmente entrano nel mio radar mi chiedo: “Ma come ho fatto a vivere fino ad ora senza conoscere questo tizio?!”. Spesso a quel punto sono già morti o a fine carriera, il che fa aumentare il mio disappunto.

Alessandro Bergonzoni è uno di questi artisti: l’ho scoperto forse al momento giusto per poterne apprezzare il genio, ma probabilmente troppo tardi per poter godere in tempo reale dei suoi picchi creativi. Ciò che me lo ha fatto apprezzare subito è la sua grandissima abilità nel giocare con le parole e sovvertire gli schemi; è un anticonformista, ma non per partito preso: la sua profonda consapevolezza delle “strutture” gli consente di scomporle e ricomporle a piacimento, con un effetto disorientante e proprio per questo molto potente.

Il video con cui l’ho conosciuto è intitolato: “La Vita, istruzioni per l’uso” ed è un monologo che il comico ha tenuto nel 2011 alla Festa dell’Unità di Pesaro. Lo posto qui di seguito assieme all’invito di trovare il tempo per vederlo; siccome però so che 50 minuti sono tanti per le soglie di attenzione odierne, ho pensato di trascrivere un frammento del monologo — a mo’ di teaser — per dare un’idea dei temi trattati.

A me piaceva il granché: molti mi avevano insegnato che una cosa “non è un granché”, noi sappiamo cosa non è un granché, ma cos’è il granché? La mia biografia mi ha raccontato che c’è anche un granché: non t’accontentare, non dire “va bene così”, non andare mai a letto — vacci qualche volta, ma stai sempre con gli occhi aperti. […] Io ho il bisogno di andare a vedere, di andare a cercare. Mia madre mi diceva di passarci attraverso il concetto cattolico di “colpa”, io non ci arrivo così, io passo attraverso il caso artistico, il bisogno anche di dire: “Come può un attore finire di fare il proprio lavoro ed essere un attore?! Deve incominciare a diventare malato, deve incominciare ad essere carcerato! Quand’è che si capirà — mi dicevo allora, quasi presagendo — che i mestieri non sono scollegati?! Quand’è che si capirà che un politico non può non essere un malato, non può non essere un carcerato, non può non essere una madre, non può non essere un figlio, non può non essere un soldato?! Devi fare quel mestiere lì! Perché non ti puoi interessare quando ti capita!”. Allora, è tutto collegato…questo granché! È quello lì! Non è che la morte ti interessa alla fine della vita, quando ci sei vicino…perché, quando nasci non sei vicino al fine vita? Vedo dei bambini di due mesi in passeggino, chiedo “Quanti mesi ha?” e la tata mi dice: “Due mesi di vita”, poi vedo degli anziani in carrozzina, chiedo alla badante: “Quanti mesi ha?” e mi dice: “Due mesi di vita”…e allora! Vedi?! Il concetto del tempo…! Qualcuno mi disse da piccolo — forse ero io: “La bara è una culla che non dondola!”. Cioè, che cosa devo aspettare ancora?! La rivoluzione la devo fare io! In questa vita ho capito che non puoi essere solo padre, non puoi essere solo — Spirito Santo —…cioè, devi essere altre cose! Devi essere Tutto! Non puoi dire: “Beh adesso sono attore, vivo la mia vita, sono padre, ho dei figli…” sono figli che puoi perdere in un attimo! Gli industriali degli anni ’60 si sentivano degli dei quando producevano grandi quantità di denaro, di automobili…poi gli moriva un figlio e si sentivano delle merde. Allora io studiavo e dicevo: “Ma perché non ti senti una merda quando produci e basta, e non ti senti un dio quando muore qualcuno e quando vieni privato di qualcosa? C’è qualcosa che devi osservare della vita!”. Non puoi pensare veramente sempre alla tua condizione! “Noi” è “ioᴺ”, “io un numero infinito di volte”! Molti mi chiedono quando ho iniziato a giocare con le parole, ma non ho mai incominciato! È il pensiero che mi interessa, non le parole! È cercare di collegare pensiero ed anima! Anche la parola che io amo di più, che non posso lasciare alla Chiesa…la parola “anima” non la posso lasciare alla Chiesa e basta! La lascio all’artista, la devo lasciare all’artista anche! La devo lasciare a me! Mi dicono: “Ai tempi tuoi c’era un’altra politica, come si fa a cambiare la politica?”, deve cambiare l’anima! Un uomo che mette nel cemento armato un bambino è sì una questione politica, delinquenziale, ma è di “anima”! Com’è possibile che un uomo, un essere, abbia questa mancanza di spiritualità?! È un concetto profondo! Non di religione! Com’è possibile che la gente non si renda conto che non può essere tutta gestione economica, amministrativa, della vita?! Ci vuole un ottimo amministratore delegato che sia un poeta! Qui mancano i poeti, non gli economisti! Qui mancano i poeti! […] Un partito politico nuovo è il nostro governo interiore, il Parlamento interiore! Io decido tutti i giorni! Io ho capito che io voto tutti i giorni! Quando vedo un handicappato, in quel momento voto, sto votando! Non posso aspettare che facciano una legge su questo!

Il tempo scorre dal presente al passato

Un povero contadino viveva con suo figlio in un piccolo villaggio della Cina settentrionale. Un giorno, un cavallo selvatico si avventurò nella sua proprietà e venne prontamente catturato. Gli abitanti del villaggio corsero dall’uomo per congratularsi e lodare la sua buona sorte, ma egli disse solo: “Può essere”. A distanza di una settimana il cavallo approfittò di una disattenzione e fuggì, al che gli abitanti ritornarono dal contadino per esprimere il loro rammarico riguardo la sua sventura. Il vecchio disse: “Può essere”. Passate tre settimane, ecco il cavallo tornare portandosi al seguito un forte e bellissimo stallone. Gli uomini del villaggio, increduli, si congratulano nuovamente con l’uomo per la sua fortuna sfacciata; lui rispose imperterrito: “Può essere”.

Al figlio del contadino lo stallone piacque talmente tanto che iniziò a cavalcarlo regolarmente. Un giorno, purtroppo, venne disarcionato e si ruppe una gamba nell’atterraggio. Gli abitanti, puntuali come sempre, si fecero vivi per consolare il vecchio in seguito alla disgrazia, visto che ora avrebbe avuto due braccia in meno su cui contare per il suo lavoro. La risposta fu sempre: “Può essere”. Caso volle che, in seguito ad un’invasione barbara, il governo mandò al villaggio dei funzionari al fine di reclutare tutti i giovani in salute; il figlio del contadino, in quanto storpio, venne tralasciato. Gli abitanti erano preoccupati per le vite dei loro figli e fecero presente al vecchio che l’incidente a cavallo era stato una benedizione, nonostante tutto. Il contadino si limitò a rispondere: “Può essere”.

— Zhuangzi

Abbassa le difese

Giorno dopo giorno incappiamo in situazioni ingiuste, e pensiamo che l’unico modo per affrontarle sia fare resistenza. Le armi del combattimento sono mentali: ci armiamo con la rabbia, le opinioni, l’ipocrisia, che indossiamo come un giubbotto antiproiettile. Lo riteniamo il giusto modo di vivere. Ma tutto ciò che otteniamo è di allargare la separazione [tra noi e la realtà], di alimentare la rabbia e di rendere infelici noi stessi e gli altri.

[…]

Finché non ci inchiniamo e sopportiamo la sofferenza, senza fare opposizione, ma vivendola, essendola, non potremo conoscere la vita. Ciò non significa passività o inazione, ma l’azione che sgorga dalla totale accettazione. Anche usare la parola “accettazione” non va troppo bene; meglio dire semplicemente che sgorga dall’essere la sofferenza. Non si tratta di accettare una cosa diversa da sé, né di difendersi da qualcosa. L’apertura totale, la totale vulnerabilità alla vita è (sorpresa!) l’unico modo soddisfacente di vivere.

— Charlotte Joko Beck in “Zen Quotidiano: Amore e Lavoro

Vette e valli procedono di pari passo

Diamo importanza agli eventi della vita quando corrispondono alle vette: è la cima che conta, che ci sembra importante, non la valle che separa un’altura dall’altra. Eppure, non sarebbe possibile avere rilievi senza le depressioni. Ma noi ignoriamo questo fatto, non notiamo le valli perché puntano in basso, mentre le montagne svettano verso il cielo e noi preferiamo ciò che punta in l’alto perché l’alto è “bene”, mentre il basso è “male”. C’è da dire però che non lodiamo le montagne per essere alte e accusiamo le valli di essere basse.

Eppure questo è il motivo basilare per cui ignoriamo le valli della vita, mantenendo la nostra attenzione focalizzata sulle vette ed escludendo qualsiasi altra cosa. Questo però ci mette a disagio perché proprio la ricerca di piacere (guardare le montagne) è ciò che ci priva del piacere, dal momento che nel nostro intimo sappiamo che ogni rilievo è seguito da una depressione; e siamo sempre spaventati perché non abbiamo l’abitudine di guardare a valle, di includerla nella nostra vita, quindi per noi rappresenta qualcosa di sconosciuto, di estraneo, di pericoloso. Forse abbiamo paura che collassi su sé stessa e ci intrappoli al suo interno, negandoci il raggiungimento delle vette. Forse la morte è più forte della vita, perché la vita sembra sempre richiedere uno sforzo, mentre verso la morte si scivola senza che venga chiesto alcun impegno. Forse “nulla” avrà la meglio su “tutto”, alla fine. Non sarebbe tragico? Quindi resistiamo al cambiamento, ignorando il fatto che la vita è cambiamento e che “nulla” è senza ombra di dubbio l’altra faccia di “tutto”.

La maggior parte delle persone ha paura dello spazio e pensa che esso sia “il nulla”, ma “spazio” e “materia” sono due modi diversi per parlare della stessa cosa: non trovi “materia” senza “spazio” e non trovi “spazio” senza “materia”. Se si affermasse un universo senza nient’altro che “spazio”, sarebbe spazio tra che cosa, esattamente? “Spazio” è una relazione e va sempre a braccetto con “materia”, così come fa “dietro” con “davanti”. Ma la nostra mente ignora lo spazio e pensa che sia la materia a comporre tutto ciò che vediamo.

In altre parole, l’attenzione cosciente ignora gli intervalli perché pensa non siano importanti. Prendete la musica come esempio: quando ascoltate un brano, ciò che davvero sentite nella melodia è l’intervallo tra un tono e l’altro. L’intervallo è essenziale. Allo stesso modo, tra questa generazione di persone e la precedente l’intervallo è importante esattamente quanto — se non di più — ciò che sta in mezzo. A dire il vero sono inscindibili ed equivalenti, ma dico che a volte l’intervallo è più importante perché si tende a sottovalutarlo, quindi voglio porre enfasi su questo punto.

Quindi: “spazio/notte/morte/oscurità/non esserci” è una componente essenziale di “esserci”; non si può avere l’uno senza avere anche l’altro, proprio come non si possono avere vette senza valli.

— Alan Watts

Fai parlare le tue azioni

Scrive Epitteto nel suo Enchiridion:1

Poniamo che tu — discorrendo con un gruppo di persone — notassi la conversazione volgere attorno ad argomenti speculativi: rimarrai per lo più in silenzio. Questo perché, altrimenti, correresti il rischio di esporre ciò che ancora non hai assimilato. E quando qualcuno ti accuserà di non sapere nulla, e tale accusa ti scivolerà di dosso, allora saprai che i tuoi sforzi staranno dando frutto. Se noti, le pecore non vomitano l’erba davanti al pastore per mostrare quanto hanno mangiato, bensì, dopo averla smaltita al loro interno, producono lana e latte. Allo stesso modo, tu non sbattere il tuo sapere in faccia agli altri, ma portalo a maturazione dentro di te per poi rendere conformi le tue azioni.

Quando un utente di Reddit, in risposta ad alcuni miei dubbi, mi disse semplicemente “teach by doing” (insegna facendo), non afferrai subito il concetto; ora, però, il significato di quelle parole mi diventa sempre più chiaro ogni giorno che passa.

Non importa quanto si possa essere dotti, persuasivi ed empatici: ci sono concetti a cui non si può dare forma in un discorso e, qualora ci si riesca, non avrebbero sufficiente presa per poter attecchire; questo perché ogni intuizione sufficientemente valida è, a seconda dei casi, troppo semplice o troppo complessa per poter essere trasmessa a parole.

Probabilmente è questo che intendeva Oscar Wilde quando disse “Chi sa fa, chi non sa insegna”, o Laozi con “Chi sa non parla, chi parla non sa”: ciò che vale davvero la pena conoscere non può venire insegnato, perché la saggezza non è comunicabile a parole. Continuare ad esporre le proprie convinzioni, a voler convincere gli altri della bontà delle tesi in cui si crede, è spesso sintomo di insicurezza nei confronti di ciò che si predica; e anche qualora non fosse così, sarebbe per lo più fiato sprecato. Le azioni sono molto più potenti delle parole e l’agire implica il sapere davvero ciò che si sta facendo;2 quindi, per far sì che ciò che si è capito (o si crede di aver capito) sia in grado di fare la differenza, bisognerebbe incorporare le conseguenze di tali intuizioni nella propria vita quotidiana, essere un tutt’uno con la nostra forma mentis.


  1. Il passo originale era stato tradotto da Giacomo Leopardi, la versione da me proposta è un adattamento al linguaggio corrente. 
  2. Almeno in teoria.