Avventurati nelle terre selvagge

Premessa: questo post contiene una riflessione sul film “Into the Wild – Nelle terre selvagge” e contiene pertanto degli spoiler. Non proseguite la lettura se non ne conoscete la trama.

La settimana scorsa ho deciso di rivedere il film “Into The Wild”, che tanto avevo apprezzato anni fa. Mi ha fatto uno strano, ma piacevole effetto: alla luce della mia evoluzione caratteriale (una maturazione, si spera), ho potuto notare delle sfumature che in prima istanza mi erano sfuggite, o che avevo finto di non vedere.

Questa volta, pur comprendendo in pieno le motivazioni di Christopher McCandless, sono stato in grado di cogliere a pieno anche le contraddizioni (o, se si vuole, i paradossi) interni al suo percorso. Il protagonista decide di imbarcarsi in un viaggio verso le terre selvagge dell’Alaska, così da riscoprire cosa significhi “Vivere” nella sua accezione più pura, libera da condizionamenti sociali e preconcetti mentali. È quindi interessante notare come, in perfetta sintonia con uno dei più grandi cliché, la parte fondamentale per il suo processo di crescita non è data dalle esperienze che vive quando giunge a destinazione, bensì da quelle avute durante il viaggio che compie. Fondamentali risultano in particolar modo le amicizie che stringe: ogni persona incontrata durante il suo vagabondare verso nord, gli trasmette importanti insegnamenti o abilità che gli saranno poi utili per sopravvivere in Alaska.

Christopher Johnson McCandless fugge dalla famiglia e dall’intera società spinto da una incessante sete di libertà, crea quindi l’alter ego Alexander Supertramp e si imbarca in una lunga epopea tramite cui comprende che sin dal principio non c’era mai stato nulla da cui fuggire. Impara la lezione nel modo più brutale, scrivendo la frase: “La felicità è reale solo quando condivisa” e riappropriandosi in punto di morte del suo nome di battesimo.

È una storia — tragica — di formazione, la sua. Il motivo per cui risalta tra le mille altre esistenti è che si tratta di una biografia: Christopher McCandless è realmente esistito e ha fatto davvero tutto ciò che è narrato nel film. Le sue azioni sono state il risultato dell’estremizzazione e spettacolarizzazione di un processo che, in un modo nell’altro, vive ciascuno di noi. Nel mio piccolo, mi illudo di aver capito che strade anche radicalmente diverse portano alle stesse destinazioni, che per arrivare alle conclusioni di Christopher non sia necessario andare ad invischiarsi in situazioni di palese rischio vita; a ben vedere sono anche concetti triti e ritriti, cliché che possono essere letti in moltissimi libri, ma per coglierne la verità, interiorizzarla ed uscirne trasformati dobbiamo sperimentarli sulla nostra pelle.

In un certo qual modo dobbiamo soffrire, dobbiamo morire. Non parlo della morte fisica, bensì di quella trasmutazione che emerge dallo smantellamento di precedenti schemi mentali, di quel terremoto che riduce in briciole le fondamenta della tua stessa esistenza e ti lascia vuoto, impotente. È in questa condizione che, più o meno consapevolmente, avviene il passaggio ad una fase nuova della vita, si arriva ad avere una prospettiva più ampia sulle cose e aumenta la consapevolezza di quanto ancora si deve imparare. Non credo che si attraversi una volta sola questo passaggio, penso lo si affronti ciclicamente, talvolta imparando sempre una stessa lezione che fatica ad essere assimilata a dovere.

In questo, credo, siamo tutti perfettamente uguali. Penso che la vita consista in un flusso di coscienza che, cristallizatosi in un Io, attraversa sempre le stesse fasi, imparando le stesse lezioni e arrivando grossomodo alle stesse conclusioni; ciò che cambia è solo l’angolazione della prospettiva. Il cammino della nostra crescita è prima di tutto un percorso interiore e gli accidenti esterni non fanno altro che innescare una proiezione della nostra psiche sul mondo, esteriore ed interiore si fondono in perfetta identità.

Le terre selvagge le abbiamo dentro e non ci resta che esplorarle.