La formazione primigenia dell’identità avviene tramite un processo chiamato identificazione contro: definiamo noi stessi come “ciò che non è altro”. Questo meccanismo si estende al gruppo sociale di appartenenza, tramite cui si sviluppa un’identità collettiva che contiene ed influenza quella individuale; siamo spinti al conformismo, a compiacere i nostri simili, al punto che un gruppo isolato arriva ad avere una mentalità quasi perfettamente omogenea.
I gruppi però raramente sono isolati, per questo si arriva a distinguere tra in-group e out-group: il primo rappresenta i valori di riferimento (ciò che è bene), mentre il secondo rappresenta il “diverso” e potenzialmente minaccioso (ciò che è male). La maggior parte dei conflitti, se non proprio tutti, ricalca questo schema di base. In una società abbastanza complessa e stratificata si hanno vari gruppi di appartenenza, alcuni dei quali si sovrappongono, per cui è necessario avere gli strumenti — culturali e istituzionali — idonei a limare gli attriti e promuovere un livello accettabile di ordine.
Il sistema che al giorno d’oggi è assunto a modello vede uno dei punti chiave nella tutela di determinati diritti e libertà considerati fondamentali e votati all’inclusione. Così come i pesci che nuotano hanno difficoltà a comprendere cosa sia l’acqua, noi esseri umani ci lasciamo intorpidire dall’abitudine e ci accorgiamo di ciò che realmente è importante solo quando iniziamo a perderlo. Il muro più solido può crollare come un castello di carte facendo leva su di una minima crepa, per questo è importante che determinati diritti siano estesi a tutti e considerati inviolabili indipendentemente dalle circostanze.
Finché — almeno formalmente — siamo tutti uguali (leggi: abbiamo uguali diritti) godiamo di una complessiva immunità di gregge nei confronti di soprusi provenienti da chi ha una posizione di potere, ma nel momento in cui alcuni diventano più uguali degli altri ha inizio un effetto domino che prima o poi finirà per colpire anche coloro che inizialmente, magari scherzando, auspicavano tale cambiamento.
Il problema del promuovere l’esclusività in nome di un “bene più grande” è che si tratta di una visione estremamente miope e sottende un concetto così fumoso da poter essere adattato per giustificare ogni aberrazione; sfugge presto di mano e produce effetti inizialmente non previsti. Misure simili vengono prese in considerazione quando si è di fronte ad una minaccia e questo è più che comprensibile, ma è proprio quando ciò a cui teniamo di più viene minacciato che bisogna astenersi dal reagire di istinto.
Quando le minoranze sono discriminate istituzionalmente, tutti noi ci troviamo in una posizione precaria.
A meno che non siate completamente disconnessi dal mondo, è probabile che abbiate sentito parlare della controversia sorta tra Apple e FBI riguardo l’accesso ai dati contenuti nell’iPhone appartenuto all’attentatore della strage di San Bernardino.1
Cerco di riportare i fatti in breve. Il 16 febbraio scorso, in una lettera aperta, il CEO di Apple Tim Cook ha reso noto che l’FBI ha chiesto e ottenuto un’ordinanza per indurre l’azienda a collaborare nel recupero dei dati contenuti in un iPhone trovato durante le indagini. Chiaramente Apple aveva già fatto la sua parte, fornendo alle autorità le informazioni presenti nei server di Cupertino, ma il sistema operativo degli iPhone è strutturato in modo tale da rendere impossibile l’accesso al contenuto del dispositivo senza conoscere il codice di sblocco.
Dopo due mesi ti tentativi infruttuosi, l’FBI ha dunque chiesto ad Apple di compilare ad hoc una versione di iOS priva di alcuni sistemi di sicurezza, di modo da poterla poi installare sul telefono in loro possesso e accedere ai dati con maggiore facilità. L’ordinanza del giudice impugnata dai Federali non è però vincolante e lascia all’azienda la possibilità di opporvisi, facoltà che Tim Cook ha deciso di esercitare, spiegando le sue ragioni nella lettera citata in apertura.
A fronte di questa spinosa vicenda, come spesso accade, l’opinione pubblica si è polarizzata: da un lato chi vede Apple come paladina della privacy, dall’altro chi ritiene che un’azienda non possa metter becco nelle questioni di sicurezza nazionale.
Tempo fa scrissi un post dal titolo “Ecco perché continuerò ad usare iPhone”, il che non lascia dubbi su quale sia la mia opinione. In quel post non provai nemmeno a nascondere la natura ideologica della mia posizione, ma per quanto riguarda questa vicenda ho invece un parere ben più ragionato che credo valga la pena esporre; lo farò sotto forma di risposta alle due critiche che maggiormente ho visto rivolgere a Tim Cook.
Critica 1 – L’FBI è interessata a quello specifico iPhone, accontentarla non mette a rischio tutti gli utenti.
Occorre innazitutto ricordare che l’Intelligence degli Stati Uniti ha un pessimo precedente in materia di violazione della privacy: poco più di due anni fa Edward Snowden rivelò pubblicamente i dettagli dei programmi di sorveglianza di massa svolti dall’NSA, il che fa sollevare più di un legittimo dubbio riguardo le intenzioni dei federali e la loro effettiva volontà di distruggere la versione modificata di iOS, una volta raggiunto il loro scopo.
La vera risposta alla critica però la fornisce già Tim Cook nella sua lettera aperta: la sola esistenza di una simile versione di iOS sarebbe un rischio enorme per la sicurezza di moltissimi utenti. Non esistono infatti “mani” abbastanza sicure quando si tratta di custodire del codice informatico, figurarsi poi se l’oggetto in questione è la chiave d’accesso ai dati contenuti in un numero impressionante di dispositivi; i migliori (o peggiori, dipende dai punti di vista) cybercriminali in circolazione non esiterebbero un minuto a cercare di impadronirsene.
Infine, per sgretolare la tanto abusata tesi “ma tanto non ho nulla da nascondere”, basta citare il recente caso riguardante Hacking Team. Per chi non lo sapesse, Hacking Team è una società Italiana che vende software di sorveglianza elettronica a governi e servizi segreti di tutto il mondo, è talmente famigerata che Reporter senza frontiere l’ha inserita nella lista dei “nemici di Internet”. È balzata agli onori della cronaca per essere stata vittima — ironia della sorte — di un attacco informatico, in seguito al quale tantissime informazioni riservate sono diventate di dominio pubblico tramite il sito WikiLeaks. Si è venuti quindi a conoscenza di dettagli preoccupanti, quali trattative con governi non rispettosi dei diritti umani e verso cui vige l’embargo dell’ONU (ad esempio il Sudan), oppure l’ultilizzo di exploit per fabbricare false prove con cui incriminare dei bersagli.
Questa vicenda non insegna solo che gli strumenti di sorveglianza possono essere utilizzati per fini malevoli, ma anche che persino chi lavora nell’ambito della sicurezza informatica può cadere vittima di attacchi esterni e venire pesantemente danneggiata. Ne consegue che le mani dell’FBI non possono dirsi sicure.
Critica 2 – La mancanza di fiducia in governo ed autorità giudiziaria compromette il contratto sociale su cui la società stessa si basa.
Questa critica è stata mossa, tra gli altri, anche da Beppe Severgnini in un suo articolo e solleva una tematica tanto spinosa quanto interessante.
Il contratto sociale è, secondo diversi filosofi, l’atto con cui gli esseri umani superano l’incertezza dello stato di natura, cedendo una parte della loro libertà in cambio della protezione statale.
Il tradeoff “libertà-sicurezza” è al centro della prospettiva contrattualistica ed ha assunto primissima rilevanza in seguito all’attentato dell’11 settembre 2001, data di inizio di quella che è stata battezzata la “guerra al terrore”. Ora, dando per scontato che vivere in una democrazia sia ampiamente desiderabile, occorre sottolineare che nel passaggio da un’organizzazione autoritaria ad una democratica dei poteri dello Stato, pari quantità di sicurezza dovrebbero essere compatibili con più elevate quantità di libertà.
Il deflagare del terrorismo nel nuovo millennio e le risposte messe in campo da molti governi occidentali, hanno conferito nuovo smalto all’entità statale quale garante della sicurezza dei propri cittadini; come risultato stiamo assistendo alla proposizione di politiche che limitano la libertà dei cittadini promettendo in cambio maggiore sicurezza. Questa tesi è la stessa da cui muoveva le sue riflessioni Thomas Hobbes e può essere sintetizzata nella domanda fondamentale: “Più liberi o più sicuri?”. La prospettiva del filosofo britannico vede necessario rinunciare a qualche grado di libertà per ottenere un po’ più di ordine e sicurezza; qua di seguito vediamo la “curva di Hobbes” rappresentata su un piano cartesiano.
Ad integrare il punto di vista pessimistico appena illustrato, conviene segnalare l’osservazione di John Locke che, diversamente dal suo connazionale, era più preoccupato dalle minacce alla sicurezza che governi autoritari possono attuare nei confronti dei loro cittadini. Alla domanda “Più liberi o più sicuri?” Locke risponde: “Sicuri perché liberi!”; se per Hobbes il trade-off “libertà-sicurezza” è negativo, per Locke diventa invece positivo: la crescita della prima è garanzia per la crescita della seconda. Ecco di seguito la “retta di Locke”.
Chi dei due ha ragione? La risposta è piuttosto banale: entrambi. La garanzia di stabilità interna e di difesa dall’esterno non elimina i potenziali danni dello Stato nei confronti della sicurezza individuale, la quale risulta tutelata da una serie di diritti fondamentali che le istituzioni sono strutturate per garantire. Ecco infatti quello che accade combinando la “curva di Hobbes” con la “retta di Locke”.
Al di sopra un livello minimo di libertà (L1) prevale la curva, ma quando si scende al di sotto di tale soglia inizia a prevalere la retta, dal momento che alle minacce provenienti dalla società o dall’esterno si sommano quelle causate da governanti autoritari: sotto il livello L1 ogni rinuncia — anche piccola — in termini di libertà produce solo minore sicurezza.
Quindi, a mano a mano che si decidesse di rinunciare (anche provvisoriamente) all’esercizio e alla tutela di qualche diritto legittimo nella speranza di recuperare sicurezza, si finirebbe in realtà con l’alimentare una spirale diretta al peggioramento tanto in termini di libertà quanto in termini di sicurezza.2 È proprio per questo che, a mio modo di vedere, Apple ha tutte le ragioni di questo mondo per opporsi alla decisione dell’FBI.
Recentemente intervistato sulla vicenda, l’amministratore delegato di Apple ha rivelato che negli ultimi cinque mesi i federali hanno avanzato simili richieste ben quindici volte, segnale dunque di un interesse non circoscritto agli avvenimenti di San Bernardino. Acconsentire vorrebbe dire creare un precedente con implicazioni ben al di là di quello che possiamo immaginare. Non viviamo affatto in una società perfetta, ma quel minimo di conquiste di cui oggi possiamo godere sono state ottenute grazie a persone che hanno dato la vita per costruire un futuro migliore; dobbiamo riflettere molto a lungo prima di concedere anche solo una minima ed (apparentemente) insignificante deroga a quelli che sono i pilastri di un ordinamento democratico.
Spero che questo mio post possa fungere da invito a riflettere su di una posizione che non ho visto molto considerata — per lo meno dalla stampa italiana.
AGGIORNAMENTO 15/03/2016: John Oliver, nell’episodio di Last Week Tonight andato in onda tre giorni fa, parla di crittografia e mette in luce la complessità del caso Apple vs FBI anche da punti di vista che non ho considerato. Lo aggiungo di seguito, in quanto credo possa essere una buona integrazione al discorso.
Per avere un quadro completo della vicenda, suggerisco la lettura di questo articolo del Post e di quest’ottima analisi scritta da Fabio Chiusi per ValigiaBlu. ↩
Cfr. F. Andreatta, M. Clementi, A. Colombo, M. Koenig-Archibugi
V. E. Parsi, Relazioni Internazionali – Seconda edizione, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 269-271. ↩
Premessa: questo post contiene una riflessione sul film “Into the Wild – Nelle terre selvagge” e contiene pertanto degli spoiler. Non proseguite la lettura se non ne conoscete la trama.
La settimana scorsa ho deciso di rivedere il film “Into The Wild”, che tanto avevo apprezzato anni fa. Mi ha fatto uno strano, ma piacevole effetto: alla luce della mia evoluzione caratteriale (una maturazione, si spera), ho potuto notare delle sfumature che in prima istanza mi erano sfuggite, o che avevo finto di non vedere.
Questa volta, pur comprendendo in pieno le motivazioni di Christopher McCandless, sono stato in grado di cogliere a pieno anche le contraddizioni (o, se si vuole, i paradossi) interni al suo percorso. Il protagonista decide di imbarcarsi in un viaggio verso le terre selvagge dell’Alaska, così da riscoprire cosa significhi “Vivere” nella sua accezione più pura, libera da condizionamenti sociali e preconcetti mentali. È quindi interessante notare come, in perfetta sintonia con uno dei più grandi cliché, la parte fondamentale per il suo processo di crescita non è data dalle esperienze che vive quando giunge a destinazione, bensì da quelle avute durante il viaggio che compie. Fondamentali risultano in particolar modo le amicizie che stringe: ogni persona incontrata durante il suo vagabondare verso nord, gli trasmette importanti insegnamenti o abilità che gli saranno poi utili per sopravvivere in Alaska.
Christopher Johnson McCandless fugge dalla famiglia e dall’intera società spinto da una incessante sete di libertà, crea quindi l’alter ego Alexander Supertramp e si imbarca in una lunga epopea tramite cui comprende che sin dal principio non c’era mai stato nulla da cui fuggire. Impara la lezione nel modo più brutale, scrivendo la frase: “La felicità è reale solo quando condivisa” e riappropriandosi in punto di morte del suo nome di battesimo.
È una storia — tragica — di formazione, la sua. Il motivo per cui risalta tra le mille altre esistenti è che si tratta di una biografia: Christopher McCandless è realmente esistito e ha fatto davvero tutto ciò che è narrato nel film. Le sue azioni sono state il risultato dell’estremizzazione e spettacolarizzazione di un processo che, in un modo nell’altro, vive ciascuno di noi. Nel mio piccolo, mi illudo di aver capito che strade anche radicalmente diverse portano alle stesse destinazioni, che per arrivare alle conclusioni di Christopher non sia necessario andare ad invischiarsi in situazioni di palese rischio vita; a ben vedere sono anche concetti triti e ritriti, cliché che possono essere letti in moltissimi libri, ma per coglierne la verità, interiorizzarla ed uscirne trasformati dobbiamo sperimentarli sulla nostra pelle.
In un certo qual modo dobbiamo soffrire, dobbiamo morire. Non parlo della morte fisica, bensì di quella trasmutazione che emerge dallo smantellamento di precedenti schemi mentali, di quel terremoto che riduce in briciole le fondamenta della tua stessa esistenza e ti lascia vuoto, impotente. È in questa condizione che, più o meno consapevolmente, avviene il passaggio ad una fase nuova della vita, si arriva ad avere una prospettiva più ampia sulle cose e aumenta la consapevolezza di quanto ancora si deve imparare. Non credo che si attraversi una volta sola questo passaggio, penso lo si affronti ciclicamente, talvolta imparando sempre una stessa lezione che fatica ad essere assimilata a dovere.
In questo, credo, siamo tutti perfettamente uguali. Penso che la vita consista in un flusso di coscienza che, cristallizatosi in un Io, attraversa sempre le stesse fasi, imparando le stesse lezioni e arrivando grossomodo alle stesse conclusioni; ciò che cambia è solo l’angolazione della prospettiva. Il cammino della nostra crescita è prima di tutto un percorso interiore e gli accidenti esterni non fanno altro che innescare una proiezione della nostra psiche sul mondo, esteriore ed interiore si fondono in perfetta identità.
Le terre selvagge le abbiamo dentro e non ci resta che esplorarle.
Su questo blog riporto mie riflessioni su vari argomenti, riflessioni che spesso partono da eventi vissuti nella mia vita, tuttavia non credo di aver mai parlato in modo diretto di me e ciò che mi riguarda; oggi voglio fare un’eccezione.
Come sapranno coloro che mi conoscono di persona, due anni fa mio padre si è ammalato di leucemia mieloide acuta, diagnosi che ha dilaniato la nostra routine famigliare come mai nessun altro evento prima di allora. Con fatica e determinazione ha affrontato il lungo percorso che lo ha portato ad effettuare un trapianto di midollo osseo, non è stato semplice né per lui, né per mia madre e me, ma alla fine sembrava aver superato la malattia con successo. Sembrava, appunto: venerdì scorso, a poco più di un anno dal trapianto, ha scoperto di essere in recidiva di malattia.
Dovrà quindi affrontare un nuovo trapianto e i medici del San Raffaele sono già alla ricerca di un donatore. Non è detto che un futuro trapianto darà esito positivo e porterà ad una guarigione, ma è la migliore delle strade che abbiamo e la percorreremo fino in fondo. Il problema grosso però sta a monte: bisogna trovare un donatore con un grado accettabile di compatibilità.
Proprio poco fa mi è capitato di leggere della campagna “Match4Lara” iniziativa che ha riscosso un successo davvero incredibile e che sta avendo il merito di porre l’accento sull’importanza della donazione di midollo osseo, tramite anche la mobilitazione di personaggi di spicco quali J. K. Rowling e il Primo Ministro UK David Cameron.
Diversamente da altri tipi di trapianti, quello di midollo non necessita che al donatore vengano espiantati degli organi, come dice l’articolo di Repubblica:
Donare è facile. “Non dovete spaventarvi all’idea della donazione di cellule staminali. È come fare un prelievo di sangue, quindi non è doloroso e soprattutto non ha conseguenze sulla salute”, dice Lara. In Italia, il punto di riferimento è l’Admo. Per diventare donatori è necessario presentarsi, senza impegnativa medica, presso un Centro donatori che aderisce al progetto, per sottoporsi al prelievo di un campione di sangue (come per una normale analisi). Il Centro donatori farà firmare l’adesione al Registro italiano donatori midollo osseo. I risultati delle analisi verranno poi inseriti in un archivio elettronico gestito a livello regionale e a livello nazionale. In seguito, al riscontro di una prima compatibilità con un paziente, il donatore sarà chiamato a ulteriori prelievi, sempre di sangue, per definire ancora meglio il livello di compatibilità.
Se tutti (o anche solo la maggioranza di noi) si registrassero alla banca dei donatori, l’intera collettività trarrebbe un immenso beneficio con un minimo dispendio di energie. È vero, mi sto interessando alla tematica in larga parte per vicende personali, purtroppo è un peccato condiviso che ha le sue radici nella miopia da cui siamo affetti un po’ tutti: ci preoccupiamo davvero della morte solo quando iniziamo ad avvertirne i passi. L’atteggiamento generale, più o meno conscio, è quello di dire: “Perché deve capitare proprio a me?”, mentre invece sarebbe più opportuno chiedersi perché non dovrebbe capitare; quando si tratta di tumore non è tanto questione del “se”, ma piuttosto del “quando”.
Io non sono uno scrittore di successo o un Primo Ministro, ma voglio lo stesso lanciare un appello: andate a registrarvi alla banca dei donatori e sensibilizzate al tema parenti e amici. Fatelo per Lara, fatelo per mio padre, fatelo per voi stessi. Fatelo per noi tutti.
Ho sempre l’impulso di cercare la posizione intermedia, conciliante tra i due estremi, tanto che col tempo sono arrivato a definirmi un “cultore della via di mezzo”; magari è uno dei motivi per cui sono attratto dal Buddismo, che ha questo principio tra i capisaldi. Forse questa mia necessità di comprendere ciò che succede, di cogliere anche la più piccola sfumatura cromatica deriva dalla tendenza che ho, quando sotto stress, ad adottare istanze manichee.
Non è però un vizio soltanto mio: più si analizza qualcosa, più ci si rende conto di quanto questa sia complessa e di quanto la nostra prospettiva sia estremamente limitata. Siamo sempre ignoranti in un modo o nell’altro, l’ignoranza porta insicurezza e, siccome la precarietà non ci piace, il nostro bisogno di ordine ci porta a semplificare; vedere il mondo in codice binario è rassicurante: ogni cosa è al proprio posto, c’è il bene e c’è il male. Fine.
Poco importa che la morale sia estremamente relativa e che il concetto di “bene” sia solitamente associato al proprio gruppo di appartenenza (e quindi a sé stessi), mentre il “male“ è il “diverso da noi”. Se il modello è semplice e rassicurante ci attrae, quindi lo si accetta e si finisce a vedere soltanto conferme della propria opinione.
Purtroppo rendersi conto dei propri bias non è sufficiente per non cadere nelle loro trappole. Il problema del cercare la via di mezzo è lo stesso di ogni soteriologia: stabilisci un obiettivo desiderabile e lo rendi “il bene”, ma per far ciò hai già ben chiaro in testa quale sia “il male“; ecco che hai radicalizzato la tua posizione, rendendo la “via di mezzo” nient’altro che l’estremo di un continuum. Serve grande umiltà per accettare la propria impotenza di fronte a questo meccanismo perverso.
Ho esposto il problema della “via di mezzo”, ma credo che il concetto abbia applicazione universale: un’idea nobile mossa dai migliori intenti corre sempre il rischio di venire snaturata dalle persone che cercano di attuarla, trasformandosi così in ideologia. Visto il periodo che stiamo vivendo non possono non venirmi in mente i moti per l’equità sociale, tematica verso cui sono estremamente sensibile e a cui mi trovo a pensare spesso. Vuoi per emergenza, vuoi per eccesso di enfasi, vuoi per strumentalizzazione politica, credo che certe questioni non vengano analizzate con l’accortezza che meritano. Il dibattito pubblico si traduce inevitabilmente in uno scontro tra posizioni, “noi” contro “loro”, “giusto” contro “sbagliato”. È follia.
Da una parte vengono coniati neologismi come “Social Justice Warrior” o il nostrano “buonista”1 per identificare il nemico, mentre dall’altra fioccano epiteti dal sapore partigiano. Tutto ciò non è funzionale a risolvere un problema, ma solo a vedere chiaramente chi è colui contro il quale si deve combattere. Non ci sono più proposte, tutto si riduce a slogan.
Oltre a questo, come accennavo in apertura, la cosa davvero preoccupante è la snaturazione delle intenzioni iniziali per cui il desiderio di equità, nella foga dello scontro, diventa richiesta di privilegi discriminanti in senso opposto; a tal proposito non possono non venirmi in mente le quote rosa, provvedimento palesemente incostituzionale ed iniquo. Le disparità di trattamento ovviamente esistono e c’è esigenza che vengano appianate,2 ma bisogna che ogni mossa sia studiata nei minimi dettagli poiché il più piccolo errore potrebbe avere conseguenze inaspettate e molto gravi, data la natura olistica della società.
Purtroppo però non ho dati e conoscenze adeguate per parlare in dettaglio dell’argomento. Mi sono messo a scrivere questa riflessione perché, nella mia limitata esperienza, mi sono reso conto che i paradossi sono ovunque e il modo migliore per affrontarli senza rimetterci la salute (fisica e mentale) è imparare a riderne. È qua che volevo arrivare: abbiamo un bisogno disperato della satira.
Immagino abbiate tutti presente il detto “scherza con i fanti, ma lascia stare i santi”. Ebbene, la satira deve prendersela soprattutto con i santi: deve dissacrare, cioè “mettere in discussione il sacro”. Noi Occidentali siamo così influenzati dalle religioni abramitiche che colleghiamo automaticamente la sacralità alla fede, ma tale visione riduttiva è strettamente correlata a quella che vede la parola “religione” necessariamente connessa ad una qualche forma di teismo.
Ho già scritto un post a riguardo, ma ci torno brevemente al fine di maggior chiarezza. Émile Durkheim definiva la religione come “un complesso unificato di pratiche e credenze relative al sacro” che crea un legame sociale tra persone,3 tale complesso è un sistema di simboli che impregna di significato la vita sociale e individuale.4 Dal momento che le società odierne sono molto eterogenee, gruppi di persone diversi hanno differenti concezioni del mondo, diversi valori, ossia diverse opinioni su ciò che è sacro.
In questo contesto si inserisce la satira: il suo ruolo è mettere alla berlina le nostre convinzioni, esplorare i paradossi, puntare il dito verso le nevrosi della nostra società. La satira deve essere scomoda, metterci a disagio, come disse Daniele Luttazzi: “La satira informa, deforma e fa quel cazzo che le pare”, per questo corre sempre il rischio di venire censurata. Certo, essendo comicità deve fare ridere, ma sono risate con lo stesso sapore di un rumore improvviso che ti sveglia da un bel sogno.
L’autore satirico non è un cerchiobottista5 che prende in giro entrambi gli schieramenti, per par condicio: chi fa satira colpisce tutti perché prende di mira il tessuto stesso della società; una volta ridi di gusto perché è stato detto ciò che hai sempre pensato, la volta dopo scuoti la testa perché viene espressa un’opinione che giudichi troppo estrema.
Ogni cultura ha elaborato strumenti per evadere da sé stessa, nella nostra tradizionalmente si fa uso dei buffoni. Sarà anche vero che giullari e re rimangono tali anche dopo che è stata rivelata la nudità di questi ultimi, ma l’importante è che l’audience abbia aperto gli occhi anche solo per un istante e compreso la precarietà dello status quo.
Di recente sono venuto a conoscenza del problema costituito dal razzismo istituzionale, sul tema consiglio la lettura del libro “Razzisti per legge: L’Italia che discrimina”. ↩
Un giorno alcune persone vennero dal maestro e chiesero: “Come fai ad essere così felice in un mondo tanto precario, in cui non puoi far nulla per proteggere coloro che ami da dolore, malattia e morte?”. Il maestro prese un bicchiere e disse: “Tempo fa mi è stato regalato questo bicchiere, mi piace davvero molto. Tiene l’acqua a mia disposizione e luccica quando esposto al sole. Lo tocco e tintinna! Un giorno il vento potrebbe farlo cadere dalla mensola, oppure potrei accidentalmente urtarlo con il gomito e buttarlo giù dal tavolo. So che questo bicchiere è già rotto, quindi posso goderne davvero.
Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra, né la grande depressione; la nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita.
In un periodo in cui i grandi ideali — almeno nel mondo occidentale — sembrano essere ridotti a vuoti simulacri e lo status quo appare un fato immanente impregnato della giusta dose di comfort, non ci si deve stupire nel vedere orde di giovani senza uno scopo. Si lotta con fatica per il controllo della nave, ma non tutti riescono in tale impresa: alcuni seguono la corrente in modo apatico, altri si ritrovano in mezzo alla burrasca e ricorrono a farmaci per contrastare il mal di mare. I marinai più anziani ed esperti, spesso e volentieri, invece di aiutare cercano di trarre vantaggio dalla situazione: sfruttano paura ed incertezza per spingere gli spaesati verso specifiche rotte, spesso estreme; “Così cambieranno le cose!”, dicono. Peccato che non mostrino mai una mappa, gli si deve credere sulla parola.
Chi mi conosce sa che c’è stato un tempo in cui mi sarei tranquillamente potuto definire un Apple Evangelist, una di quelle persone talmente appassionate dei prodotti Apple da essere capaci di parlarne per ore senza stancarsi. Tessevo le lodi degli iGadget, deridendo Microsoft, compatendo Linux e snobbando Google; talvolta il mio punto di vista era sensato, altre volte decisamente distorto.
Fortunatamente questa fase si può dire superata: sono ancora generalmente molto soddisfatto di essere utente Apple, ma non ritengo più che i suoi prodotti siano sempre e comunque migliori di quelli concorrenti, li utilizzo perché mi piacciono, trovo appagante usarli e hanno tutte le funzioni di cui ho bisogno. Non nascondo però di essermi fatto più di uno scrupolo, un anno fa, ad acquistare l’iPhone 6: 840€ sono tanti per un telefono, troppi contando che non posso più definirmi un appassionato di tecnologia. In testa mi balenavano tutti i modi alternativi in cui potevo spendere quella cifra: “Posso viaggiare, posso tuffarmi in un mare di libri!”, mi dicevo; avrei potuto acquistare uno dei molti validi smartphone Android e risparmiare un sacco di soldi.
Alla fine ho ceduto e l’ho comprato, forse per abitudine, forse per supposta necessità. Quel tarlo però non mi ha mai del tutto abbandonato e ogni tanto, mentre fisso lo schermo in cerca di nuovi stimoli, ho una strana sensazione che mi prende lo stomaco e risale per la gola: rimpianto, occasione sprecata. Oggi però, riflettendo sulla questione, ho avuto una sorta di epifania e ora ho la certezza che anche il mio prossimo telefono sarà un iPhone, così come il successivo. È di questo che voglio parlare: come mai questo repentino cambio di posizione?
Ho detto in apertura che non sono più un fanatico di Apple, perché ora la vedo per quello che è: un azienda votata al profitto, esattamente come la sua concorrenza; Tim Cooks può dirsi preoccupato riguardo la mia custumer satisfaction, ma alla fine è soltanto un mezzo per arrivare al mio portafogli. I soldi sono quello che davvero conta, è uno degli effetti collaterali di essere nati in una società capitalistica. Questa è chiaramente un’ovvietà, eppure come tutti i cliché viene trascurata e si finisce per perdere di vista alcune dinamiche di assoluta importanza, ci si dimentica cos’è l’acqua, per citare David Foster Wallace.
Guardando al mercato degli smartphone troviamo diversi produttori, ma se ci concentriamo sul Sistema Operativo la fanno da padrone due compagnie: Apple e Google, la prima è storicamente focalizzata sui prodotti di consumo, mentre la seconda sui servizi online1. È noto che Big G consenta l’ultilizzo dei propri servizi in cambio delle informazioni appartenenti all’utenza, dati che vengono poi venduti all’industria pubblicitaria fruttando grossi guadagni. Questa è la versione molto semplificata del business model di Google, la realtà è decisamente più complessa2 perché le informazioni costituiscono un capitale a sé stante, strettamente correlato a quello monetario; informazione è potere. I dati raccolti vengono usati per migliorare i servizi offerti, vengono venduti ad un ampio numero di acquirenti, ma anche occasionalmente forniti ai governi — come dimostra lo scandalo relativo all’NSA. Posso passare una giornata pensando a vari modi in cui far fruttare un’insieme di dati e sicuramente non mi verrebbero in mente tutte le possibilità: le informazioni sono tremendamente versatili e questo dà a Google un potere enorme.
“Don’t be evil”, recita il vecchio motto di compagnia. Anche a far finta di crederci, c’è poco da stare allegri perchè nella migliore delle ipotesi i dati dell’utenza vengono usati a fini commerciali e questo, ai miei occhi, ha un che di morboso. Le informazioni su di me costituiscono una parte della mia identità, il che significa che io sto “vendendo” me stesso a Google e non ho alcun controllo su quello che la compagnia deciderà di fare con quei “frammenti” di me. La questione relativa alla privacy, che di questi tempi preoccupa almeno tante persone quante sono quelle che lascia pericolosamente indifferenti, ha molte implicazioni perché strettamente legata alla nostra identità, alla nostra libertà; io rifiuto di affidare ciò che mi rende umano ad una azienda votata al profitto!
Il discorso appena fatto potrà sembrare fumoso ed astratto (ho questa tendenza, purtroppo), quindi voglio fare un esempio concreto. La scorsa estate un gruppo di hacker ha sottratto le informazioni degli iscritti al noto sito di incontri Ashley Madison, minacciando di renderle pubbliche se il portale non fosse stato chiuso. Come era prevedibile la minaccia è rimasta inascoltata, al che gli hacker hanno reso pubblici nomi, indirizzi email, domicilio, transazioni e dati di vario genere appartenenti a tutti gli iscritti. Una situazione simile sarebbe spinosa per chiunque, ma lo è stata in particolare per quelle persone di orientamento omosessuale, che si erano serviti della riservatezza garantita da quel sito per potersi incontrare in luoghi dove avere rapporti intimi con un membro dello stesso sesso è reato capitale. Un utente di Reddit ha portato l’attenzione al problema con un thread intitolato: “I May Get Stoned to Death for Gay Sex (Gay Man from Saudi Arabia Who Used Ashley Madison for Hookups)”.
L’orientamento sessuale di una persona è parte della sua identità, così come i suoi gusti in fatto di abbigliamento, le sue idee politiche, e tutto ciò che costituisce la sua visione del mondo; tutto questo può essere compresso in un insieme di dati utilizzabili in tantissimi modi, molti dei quali non riesco nemmeno ad immaginarmeli. Vorrei credere di non aver nulla da temere, dal momento in cui vivo in un regime democratico che garantisce un ampio numero di diritti e libertà, ma la verità è che non è così, basti pensare alle rivelazioni di Edward Snowden e ad Hacking Team! Senza contare che, per quanto lo status quo tenda a perpetrare sé stesso, non possiamo permetterci di dare per scontata l’attuale configurazione della realtà soltanto perché è quella con cui abbiamo sempre avuto a che fare. Potrebbe anche darsi che la polarizzazione del conflitto tra ISIS e Occidente porti ad una presa del potere da parte dei partiti di destra estrema, con conseguenze deleterie per la libertà individuale — come peraltro avvenne in seguito all’11 settembre.
Non posso evitare di lasciare tracce nel Web e sarebbe poco pratico (impossibile?) fare completamente a meno di Google, ma in un mondo in cui gli smartphone sono sempre più importanti per la vita quotidiana, preferisco scegliere i prodotti di una compagnia che si fa pagare alla vecchia maniera e considera la tutela alla privacy uno dei suoi cavalli di battaglia, piuttosto che gettarmi verso un’idrovora di informazioni quale è Google. Ecco perché rimarrò utente Apple, finchè mi sarà possibile.3
Ed è dannatamente brava in questo campo, Apple ha solo da imparare. ↩
Qua mi tocca alzare le mani al cielo e dichiarare la mia ignoranza, non ho idea di quale sia la stratega di Google nel dettaglio. ↩
È bene notare che anche Apple ha avuto problemi con la privacy dei suoi utenti, quindi bisognerebbe sempre usare un minimo di buon senso quando si tratta di svolgere operazioni online. ↩
Ci sono degli autori — di cinema, letteratura, musica, arte in generale — che mi rimangono sconosciuti per lungo tempo, poi quando finalmente entrano nel mio radar mi chiedo: “Ma come ho fatto a vivere fino ad ora senza conoscere questo tizio?!”. Spesso a quel punto sono già morti o a fine carriera, il che fa aumentare il mio disappunto.
Alessandro Bergonzoni è uno di questi artisti: l’ho scoperto forse al momento giusto per poterne apprezzare il genio, ma probabilmente troppo tardi per poter godere in tempo reale dei suoi picchi creativi. Ciò che me lo ha fatto apprezzare subito è la sua grandissima abilità nel giocare con le parole e sovvertire gli schemi; è un anticonformista, ma non per partito preso: la sua profonda consapevolezza delle “strutture” gli consente di scomporle e ricomporle a piacimento, con un effetto disorientante e proprio per questo molto potente.
Il video con cui l’ho conosciuto è intitolato: “La Vita, istruzioni per l’uso” ed è un monologo che il comico ha tenuto nel 2011 alla Festa dell’Unità di Pesaro. Lo posto qui di seguito assieme all’invito di trovare il tempo per vederlo; siccome però so che 50 minuti sono tanti per le soglie di attenzione odierne, ho pensato di trascrivere un frammento del monologo — a mo’ di teaser — per dare un’idea dei temi trattati.
A me piaceva il granché: molti mi avevano insegnato che una cosa “non è un granché”, noi sappiamo cosa non è un granché, ma cos’è il granché? La mia biografia mi ha raccontato che c’è anche un granché: non t’accontentare, non dire “va bene così”, non andare mai a letto — vacci qualche volta, ma stai sempre con gli occhi aperti. […] Io ho il bisogno di andare a vedere, di andare a cercare. Mia madre mi diceva di passarci attraverso il concetto cattolico di “colpa”, io non ci arrivo così, io passo attraverso il caso artistico, il bisogno anche di dire: “Come può un attore finire di fare il proprio lavoro ed essere un attore?! Deve incominciare a diventare malato, deve incominciare ad essere carcerato! Quand’è che si capirà — mi dicevo allora, quasi presagendo — che i mestieri non sono scollegati?! Quand’è che si capirà che un politico non può non essere un malato, non può non essere un carcerato, non può non essere una madre, non può non essere un figlio, non può non essere un soldato?! Devi fare quel mestiere lì! Perché non ti puoi interessare quando ti capita!”. Allora, è tutto collegato…questo granché! È quello lì! Non è che la morte ti interessa alla fine della vita, quando ci sei vicino…perché, quando nasci non sei vicino al fine vita? Vedo dei bambini di due mesi in passeggino, chiedo “Quanti mesi ha?” e la tata mi dice: “Due mesi di vita”, poi vedo degli anziani in carrozzina, chiedo alla badante: “Quanti mesi ha?” e mi dice: “Due mesi di vita”…e allora! Vedi?! Il concetto del tempo…! Qualcuno mi disse da piccolo — forse ero io: “La bara è una culla che non dondola!”. Cioè, che cosa devo aspettare ancora?! La rivoluzione la devo fare io! In questa vita ho capito che non puoi essere solo padre, non puoi essere solo — Spirito Santo —…cioè, devi essere altre cose! Devi essere Tutto! Non puoi dire: “Beh adesso sono attore, vivo la mia vita, sono padre, ho dei figli…” sono figli che puoi perdere in un attimo! Gli industriali degli anni ’60 si sentivano degli dei quando producevano grandi quantità di denaro, di automobili…poi gli moriva un figlio e si sentivano delle merde. Allora io studiavo e dicevo: “Ma perché non ti senti una merda quando produci e basta, e non ti senti un dio quando muore qualcuno e quando vieni privato di qualcosa? C’è qualcosa che devi osservare della vita!”. Non puoi pensare veramente sempre alla tua condizione! “Noi” è “ioᴺ”, “io un numero infinito di volte”! Molti mi chiedono quando ho iniziato a giocare con le parole, ma non ho mai incominciato! È il pensiero che mi interessa, non le parole! È cercare di collegare pensiero ed anima! Anche la parola che io amo di più, che non posso lasciare alla Chiesa…la parola “anima” non la posso lasciare alla Chiesa e basta! La lascio all’artista, la devo lasciare all’artista anche! La devo lasciare a me! Mi dicono: “Ai tempi tuoi c’era un’altra politica, come si fa a cambiare la politica?”, deve cambiare l’anima! Un uomo che mette nel cemento armato un bambino è sì una questione politica, delinquenziale, ma è di “anima”! Com’è possibile che un uomo, un essere, abbia questa mancanza di spiritualità?! È un concetto profondo! Non di religione! Com’è possibile che la gente non si renda conto che non può essere tutta gestione economica, amministrativa, della vita?! Ci vuole un ottimo amministratore delegato che sia un poeta! Qui mancano i poeti, non gli economisti! Qui mancano i poeti! […] Un partito politico nuovo è il nostro governo interiore, il Parlamento interiore! Io decido tutti i giorni! Io ho capito che io voto tutti i giorni! Quando vedo un handicappato, in quel momento voto, sto votando! Non posso aspettare che facciano una legge su questo!
Chi segue questo blog da un po’ di tempo avrà notato la mia tendenza a parlare di rapporti umani e di quanto sia importante stabilire una connessione profonda con altri individui, al fine di vivere in modo gratificante; parallelamente ho spesso affrontato la pericolosità del comfort eccessivo quale fattore deleterio per rapporti sociali e foriero di insoddisfazione, suggerendo pratiche meditative come antidoto al nostro stile di vita nevrotico (benché sappia che non è l’unica strada percorribile).
Oggi mi sono imbattuto in un video video del canale YouTube Kurzgesagt1 che, parlando della dipendenza da droghe, finisce per trattare proprio questo argomento a me tanto caro. Ho pensato di proporlo qua sul blog (ci sono persino i sottotitoli in Italiano, tra le opzioni).
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