Nel Sud Est asiatico esiste una tecnica particolare per catturare le scimmie: viene fabbricata una scatola con una sola apertura circolare, delle dimensioni appena sufficienti a consentire il passaggio di una singola mano del primate, dopodiché viene assicurata saldamente ad un albero e riempita con del cibo. La scimmia malcapitata viene attratta dal bottino all’interno della scatola e vi infila la mano per prendere il cibo, a quel punto una o più persone escono allo scoperto e le si fiondano addosso per catturarla; la mano dell’animale, serrata in un pugno, ha ora dimensioni maggiori rispetto al foro d’entrata e non può quindi essere estratta, ciò le rende la fuga impossibile. Ovviamente basterebbe lasciare il cibo e dileguarsi sugli alberi per sfuggire alla cattura, ma la scimmia non lo fa: non vuole perdere ciò che ha conquistato, ma questo comportamento le costa caro.
Esiste un video che mostra l’esecuzione di questa tecnica di cattura, anche se il luogo in cui si svolge non è evidentemente l’Asia. Vedere il babbuino affannarsi inutilmente per estrarre la mano (chiusa) dal foro e venire catturato con estrema facilità è piuttosto divertente. Ad una prima occhiata potrebbe sembrare l’esempio lampante della superiorità cognitiva dell’Uomo rispetto ad altre specie, ma è davvero questa la chiave di lettura corretta? Davvero noi siamo così diversi da quella scimmia?
In Asia i primati sono assunti ad emblema della rigidità mentale: il babbuino del video non vuole mollare la presa perché sa che il cibo gli serve ed è buono, ma non riesce a capire che in quella specifica circostanza il suo modo di agire gli sta arrecando danno; non sa adattarsi perché schiavo di vecchi schemi mentali. Potrei chiamarlo “istinto”, ma “schema mentale” rende meglio l’idea perché anche la fuga è un istinto, ma — soprattutto — perché noi siamo spesso soggetti al medesimo comportamento.
Spesso facciamo di abitudini e concetti arbitrari dei dogmi trascendenti a cui aderire sempre e comunque, senza accorgersi che l’atteggiamento più familiare non sempre è quello più appropriato. La mano rimane serrata in un pungo, non la apriamo perché contiene ciò che sappiamo ci fa stare bene: è stato così in passato, deve essere così tutt’ora. Magari il cibo che abbiamo nel palmo si sta decomponendo e non è più di alcun sostentamento, magari la mano ci fa male per lo sforzo, magari tutta quella tensione ci rende meno efficienti nella vita quotidiana, meno liberi; non importa, la presa non va mai mollata.
E se invece provassimo ad aprire la mano?