Per tutta la vita restiamo imprigionati dentro a campane di vetro create da noi stessi, campane con lo scopo di proteggerci, di deformare la nostra immagine mascherando le nostre vulnerabilità. Eccoci, dunque: noi, moltitudine di formiche occupata a mantenere efficiente il formicaio che ci ostentiamo a chiamare “casa”, ma che assomiglia molto di più ad un’arena, dove ogni incontro è uno scontro. Noi, esseri fragili, patetici, inebriati dall’orgoglio, ormai incapaci di provare compassione, di realizzare che la corazza che indossiamo non corrisponde a chi siamo realmente, che i paguri senza le loro conchiglie sono tutti uguali. Ugualmente fragili.
Finché, un giorno, succede l’irreparabile. Un giorno un uomo, in nome di una qualche vendetta, impugna un’arma e fa fuoco su gente indifesa. La campana gli offusca la vista, non capisce che il responsabile di ciò che di brutto gli è successo è soltanto sé stesso, non vede che il “nemico” a cui sta mirando è una madre di famiglia, che lei non merita tutto questo e che i figli non dovrebbero conoscere il dolore che lui sta per scatenare. Forse, in carcere, avrà tempo per riflettere, la sua corazza crollerà e riuscirà a comprendere quel che ha fatto. Forse sì, ma sarà troppo tardi.